E così leggerete di questo disco solo a partire dal voto, vero? Bene, è 100. C'è pure la consapevolezza, però, che questa recensione sarà parte di una monografia di una sessantina di pubblicazioni alle quali il massimo riconoscimento dato, anche a capolavori, è stato un 8.5 con "suggerimento di ascolto" e dunque no, non gli si può dare 100, ma tale intimamente la mia valutazione rimane.
Nessun disco di Peter Hammill è stato più atteso in 50 anni tondi di carriera solista, quantomeno in Italia, perché di un disco di "cover" (?) si tratta e perlopiù da autori del nostro Belpaese che fu (e non è più). Ed è un gran bel disco davvero, che conduce Hammill in una taverna brechtiana a brindare con il giovane Baal, Tom Waits, Nick Cave, il Gavin Friday di "Each Man Kills The Thing He Loves" (1989), i fantasmi dei cantori francesi maudit.
Se quasi tutti i brani son degni di lode, ad eccezione delle troppo slabbrate o marziali "Oblivion", cantata invero malaccio, e "Après un Rêve Op. 7 n. 1" di Gabriel Fauré (originariamente su testo di un anonimo poeta toscano e qui nominata "After A Dream", con tanto di piano ed elettrica a cercare un unisono che incontra solo fastidiose contro fasi), è certo che i brani più convincenti del dischetto hanno anche in suono provenienza italica. "Il vino" di Piero Ciampi e "Hotel Supramonte" di Fabrizio De André/Massimo Bubola su tutte e poi... la poetica e metafisica a tratti di "Ciao amore" di Luigi Tenco; la cupa, quasi minacciosa "I Who Have Nothing" ("Uno dei tanti") di Donida/Mogol ma qui col testo in inglese di Leiber/Stoller. Assoluto encomio anche per "Ballad For my Death" ("Balada para mi Muerte" o "Suoneranno le sei", nella versione italiana) di Astor Piazzolla/Horacio Ferrer.
Il lirismo di Gustav Mahler e di classici del musical interpretati con grazia (la qui toccante e calibratissima "This Nearly Was Mine") completano un tributo alla cultura latina ed europea assolutamente degno di nota in tempo di una Brexit rinnegata da chi - il compositore e qui interprete - si sente "profondamente europeo".
Un disco "notturno", da ricordare a lungo per chi ama quel teatro-voce oggi in disuso ma tra le più nobili espressioni della cultura mitteleuropea. Misuratissimi gli arrangiamenti, pari a delicati arazzi puntellati da inserti ficcanti (l'organo sintetico de "Il vino") tra l'acustico di un pianoforte, l'elettricità misurata di chitarre e suoni digitali da orchestral home recording. A coronamento, la chiusa inquieta e inquietante del già elogiato brano di Piazzolla, e un carillon a trasfigurare in sogno/abbandono quello di Tenco. Qui un ritornello che vira lentamente di tonalità da maggiore in minore, come pur fatto da Franco Battiato (autore che Hammill conosce sommariamente, come dichiarato a Fabio Zuffanti nella sua intervista su Rolling Stone Italia del 20 aprile scorso) nel suo arrangiamento dello stesso brano per la Voce di Giuni Russo in "Signorina Romeo live", capolavoro assoluto del 2002. Un refrain (cantato in italiano, in quanto "Ciao" in inglese non è traducibile in alcun modo credibile) estenuato dalla ripetizione a oltranza, melliflua e sottilmente straziata del canto, nelle strofe invece declamato dall'artista britannico come nel più angosciante dei presagi.
Rimandi al dark cabaret da circo freak albergano nel deragliamento genialmente grottesco a raschiare con la voce il fondo di un barile ne "Il Vino". Quelli che come fantasmi aleggiavano nell'opera del compositore "The Fall Of The House Of Usher" (1991) e nella sua affamata declamazione in "The Music Of Eric Zann" (1994) col Kronos Quartet. "Hotel Supramonte", nella sua assoluta leggiadria, sembra vivere in una dimensione sospesa, in cui spazio e tempo non hanno alcun valore che non abbia un nome: "incertezza".
Preziosi i cori, vicini spesso a foschi avvertimenti in cui la voce guida è solo uno dei tanti strumenti di un canto esteso che qui rinuncia alla consueta perfezione formale (pur celebrata in "Driftin Through... Washed Up" e "Alien Clock" sul recente "...All That Might Have Been..." versione Cinè del 2014, a smentire chi Hammill lo considera morto vocalmente e non solo, dall'inizio della carriera) per privilegiare l'emozionalità pura, pur con qualche acciacco che fa "colore" più che danno, come in "And Piano!" di Nina Simone (1969).
Considerevole, ad esempio, quanto l'emissione da male contralto dell'interprete britannico continui a campeggiare immacolata e conturbante nel suo femmineo estraneo al comune falsetto e a fare da contraltare assieme a controcanti da baritono leggero (quasi tenore, come per l'antica scuola del "belting" dal bardo affrontata con grazia quanto con livore in polimorfismo vocale irraggiungibile) a grottesche, corrusche trasfigurazioni del registro in basso profondo qui a toccare per la prima volta un La1.
Gli adattamenti dei testi ne conservano originarie figurazioni letterarie e assonanze, pur non agendo didascalicamente ma andando a trovar grazia e musicalità adeguate alla penna di chi poeta come il cantore britannico è e pur curò la versione inglese delle liriche (tutt'altro che pura traduzione) di "Felona e Sorona" delle Orme, il cui titolo fu in parte da lui suggerito, a partire dal termine "sorrow/Sorona" (dolore, tristezza).
Complimenti Mr. Hammill, per un tributo a una cultura tutta, pur da una non certo memorabile copertina, frutto del dono (una felpa in cui qualcuno ha visto richiami populisti) ricevuto da chi dal 2003 in poi cura il tuo cuore acciaccato ma grandissimo (l'italiano Emilio Maestri). È il Peter Hammill & VDGG Study Group italiano nelle figure del prima citato Maestri e in quella di Paolo Carnelli (biografo del compositore britannico) che ha certo avuto un'influenza principe nel supporto alla scelta dei brani qui inclusi, come da Hammill stesso ammesso, a lui in buona misura estranei prima di questa esperienza. Scelte in qualche caso ben comprensibili visti il Premio Ciampi (18 febbraio 2021) e quello Tenco (28 ottobre 2004) alla carriera tributatigli.
Altro emerge nelle interviste su La Stampa (14 marzo 2021) e il Secolo XIX (7 maggio 2021), pure queste grazie al supporto del suddetto "gruppo di studio italiano" che ne cura un archivio audio-video privato ed è responsabile dei suoi tour nel nostro paese, oltre che di preziose pubblicazioni editoriali. In queste interviste Hammill racconta dei suoi lunghi periodi trascorsi in Italia, prima terra che gli ha donato la possibilità di vivere di musica col suo "Generatore di Suono", pur ricevendo spesso un'accoglienza pessima come spalla alle Orme (e in quasi tutte le sue esibizioni da solista), dai cori di fischi fino alle violente aggressioni verbali nelle date di supporto a Peter Tosh. Durante quei lunghi percorsi (spesso sull'"Alfa Berlina" del suo manager Maurizio Salvadori, poi cantata in "Do Not Disturb" del 2016) vi fu la familiarizzazione col percorso di De André, quando i dischi del cantastorie genovese erano nelle classifiche nostrane. La scelta di "Hotel Supramonte" nasce in relazione alla storia che vi è appresso, così come per "Ciao amore", legata a un episodio "al margine". Due brani spartiacque, a definire quanto tutto sia permanente e possa cambiar faccia da un momento all'altro, a render vita in morte, libertà in prigionia e viceversa.
Di "Après un Rève" (1878) racconta come sia stata Alice a introdurlo col suo "Mélodie Passagère" (1988) al lied del compositore francese e della versione della nostra grande autrice e contralto di pop colto a cui prestò penna e voce con la sua "Now And Forever" (1989), Hammill conserva l'andamento più accelerato rispetto alle versioni "classiche" della romanza. Non solo, che Piazzolla, assieme ai Beatles, a Mahler, a Jimi Hendrix, al compositore elisabettiano William Byrd (del quale "Three Masses" viene riconosciuta in qualità di ossessione) sia tra i riferimenti cardine della pur ben più "estesa" visione hammilliana è cosa ben nota. Su La Stampa ricorda però come i lied dell'autore gli fossero del tutto sconosciuti e come abbia avuto modo di apprezzarli anche grazie alle interpretazioni di Milva, alla quale dedica importanti parole. E Donida/Mogol? Hammill ha conosciuto il loro brano dalle versioni di Shirley Bassey e Tom Jones, ma è pur vero che il cantante con un testo di Mogol ha già avuto a che fare facendo sua dal vivo, "Impressioni di Settembre" con la Pfm.
Un disco italiano a pieno titolo, dunque, come la felpa della nostrana nazionale di rugby indossata in copertina e come il colore azzurro del dischetto che si vede una volta aperto il digipak, in attesa della stampa su vinile. Un (quasi?) capolavoro come fu per "Consequences" (con il quale condivide il senso di più dolorosa e contrita inquietudine) e per "From The Trees" (2017), di certo non perfetti formalmente come "In Amazonia" con gli Isildurs Bane e di cui si attende il seguito "In Disequilibrium", per la fine di questo anno, ma di quelli che non si riescono a riporre tra le rughe del tempo come un traguardo "quasi" raggiunto. Perché qui è il lascito emotivo, più che esclusivamente formale, a farsi importante, anche come quando sulla commovente versione di "Lost To The World" di Mahler/Rückert (1901) arriva qualche ondivaga, "ubriaca" nota, a suonare come un buffetto alle orecchie, prima che un acuto alto-baritonale di una freschezza da ventenne ricordi che no, chi tanta perfezione pur densa di espressionismo ha donato senza risparmiarsi, non è scomparso, anzi.
Uno scrigno in cui raccogliere un pugno di temi universali e trasfigurarli, pur con rispetto quanto basta, facendoli ritratto di un'epoca a nome di una personalità che non ha eguali, né può avere epigoni. Questo è un vecchietto, geniale però, capace come nessuno di raccontare di inquietudine, isolamento forzato o cercato, straniamento dei nostri tempi e di una morte che si sente addosso come un crampo alla gola e allo stomaco. Disco del cuore. Da avere e custodire gelosamente.
29/08/2021