Statistiche, classifiche,
retromanie: il dialogo tra gli appassionati di musica è sempre più ricco di aneddoti, ricordi, citazioni e curiosità estratte dal passato, argomenti che finalmente possono essere affrontati senza il timore di essere definito antiquati.
In un’era dove passato e presente sono un unico percorso artistico, c’è spazio per generi musicali e artisti finora considerati marginali, spesso erroneamente, un effetto boomerang (da boomer), che confonde percezioni e giudizi e rischia di depistare l’ascoltatore. Dopo 46 anni d’assenza e di oblio critico, ritrovare il nome di Dane Donohue su un
compact disc (sì, non esiste alcuna edizione in vinile) è quantomeno spiazzante.
Autore di un esordio diventato un vero e proprio
cult-album, sia per la presenza di musicisti importanti (
Eagles,
Stevie Nicks, J D.Souther,
Toto, Larry Carlton, Steve Gadd e il produttore John Boylan, fratello di Terence) che per l’elegante fusione di
West Coast, country e jazz-pop alla
Steely Dan, Donohue è rimasto per anni fuori da qualsiasi pubblicazione discografica che non fosse un’antologia: l’ultima una gustosa raccolta delle tante collaborazioni di Steve Lukather intitolata “Session Works”.
Come un fulmine a ciel sereno “L.A. Rainbow” si è materializzato ridestando ardori e piaceri mai sopiti, con un rimando a una delle pagine musicali più controverse e osteggiate. Con coerenza e ostinazione Dane Donohue resta fedele alle direttive dello
yacht rock, genere ritornato agli onori della cronaca e molto gettonato anche su Spotify, dove il cantautore è presente nella classifica dei più ascoltati con ben tre canzoni tratte dal suo esordio del 1978.
L’album è stato pubblicato solo in Giappone attraverso un’etichetta associata alla Sony/Legacy, la P-VINE, ed è un’eccellente raccolta di brani in perfetto stile
west coast/soft rock.
Inutile sottolineare che “L.A.Rainbow” è un disco destinato a un pubblico ben definito, fan del rock e del post-punk si astengano da qualsiasi contatto con queste nuove nove canzoni del musicista americano. Le coordinate sono quelle dettate dagli Steely Dan di “
Aja”, dai Toto, da Christopher Cross, da Terence Boylan e dalla scena
Aor degli
anni 80 e
90. La produzione di John H. Nixon è perfetta, le sonorità sono raffinate, eleganti e moderne quanto basta. La voce di Dane Donohue è limpida, cristallina, forse meno vellutata e notturna di come la ricordavamo.
La qualità delle composizioni è costante, con almeno un trittico di alto livello, in primis la vibrante “High Life Dream”- che dopo un'introduzione orchestrale rinverdisce i fasti dei Doobie Brothers era “Minute By Minute” e di piacevoli meteore come Robbie Dupree. Ancora più interessante la corposa
title track, che beneficia di un ottimo assolo chitarristico, ma è soprattutto la ballata finale “Sunrise On The Water” uno dei punti di forza dell’album, un brano che senza svenevolezze romantiche pesca con eleganza nella migliore tradizione soul-jazz rievocando le pagine migliori di Bobby Caldwell.
E’ un autentico viaggio nel tempo, “L.A. Rainbow”. Tutto è perfettamente messo a punto per soddisfare anche il più esigente dei fan del genere. Dane ruba il
groove a “
The Nightfly” per “Lonely Day In Paradise”, pesca echi West Coast in stile Fm per l’ottima “Chinatown”, si confronta con il
country più romantico in “Fair Enough” e gigioneggia con classe nella ballata jazz “Let It Go”.
Impresa comunque non facile, quella dell'artista americano: lo
yacht rock è uno stile ricco di insidie e trabocchetti, ma il tempo non sembra essere passato per lui. "L.A. Rainbow" per i fan del genere è l’equivalente dell’ultimo album dei
Cure: un disco da celebrare a dispetto di qualsiasi riscontro critico, ma la buona notizia è che non è solo l’effetto nostalgia il vero punto di forza di questo inatteso ritorno.