Anna l'eterna iconoclasta. Dopo aver già fondato sulla sovversione un decennio di carriera grazie alle sue sconvolgenti liturgie gotiche, attirandosi perfino accuse di satanismo (in Francia un gruppo di cattolici fondamentalisti le ha impedito di esibirsi in chiesa!) ora, l'artista svedese distrugge anche le sue stesse icone. Reinventandosi ancora, con coraggio, in un disco catartico, che non è altro che un viaggio disarmante e rigenerativo dentro di sé. "Iconoclasts" assume allora una duplice valenza: da un lato, l'ulteriore espansione di un sound che si è mai lasciato imbrigliare in facili etichette, dall'altro la rifinitura di questa potenza primordiale in forme più definite, in quello che lei stessa ha descritto come il suo disco più "tradizionale".
Raggiunto con "Dead Magic" il vertice della sua arte neoclassica contemporanea, che unisce drone music, doom metal, cantautorato e prosa dark, la fata di Göteborg ha continuato a battere territori inesplorati, armata della sua voce impetuosa e del suo imponente organo a canne, fino a liberare completamente la sua immaginazione nel Sacro Bosco di Bomarzo (Viterbo), luogo arcano ispiratore del suo precedente lavoro in studio, interamente strumentale, "All Thoughts Fly".
In "Iconoclasts", debutto sulla nuova etichetta YEAR0001, quella fuga in avanti prosegue, sposandosi a una più compiuta ricerca sulla forma ballad, con il supporto di ospiti d'eccezione come Ethel Cain, Iggy Pop e Abul Mogard. Ne scaturisce una nuova ebbrezza gotica e visionaria, in cui però filtra qualche raggio di sole, in grado di aprire il suono a una dimensione più estatica e trasognata, attraverso trame sonore complesse e stratificate, che si spingono a lambire territori diversi, dall'art rock al jazz fino all'ambient. Un magma sonoro in cui convivono droni sinfonici degni dei Fuck Buttons di "Tarot Sport", esplosioni di rumore scintillante e trasognate orchestrazioni cinematografiche.
L'asso nella manica che Anna von Hausswolff sfodera per portare a termine la missione è il sassofonista Otis Sandsjö, musicista d'avanguardia i cui inserti stranianti attraversano tutto l'album. È lui a guidare l'estatico strumentale "Consensual Neglect", omaggio al free jazz di John Coltrane e Albert Ayler, e i quasi nove minuti di "Struggle With The Beast", all'insegna di un funk sghembo in continua trasformazione, con la voce di Anna a irrompere nel mezzo del furente crescendo accentuandone il pathos. Ed è ancora Sandsjö a infondere calore alla spettrale "The Mouth" e alla convulsa "Stardust". Un apporto costante, che alterna momenti ruvidi - si percepiscono persino le dita che colpiscono i tasti - a sezioni più morbide e contemplative, come nel caso della rarefatta "Aging Young Woman", in duetto con Ethel Cain: un inno sospeso, tra elegia e preghiera, che evoca la malinconia più dolente di Lana Del Rey per riflettere sulla consapevolezza del tempo che passa e sul sogno di una famiglia che "lentamente svanisce".
È il sax, dunque, la guida che accompagna von Hausswolff nel suo viaggio agli inferi: una discesa vertiginosa nei cerchi concentrici della mente umana, tra colpa, redenzione e desiderio. Ma niente risulta mai invadente nell'universo di "Iconoclasts", troppo vasto per lasciarsi dominare da un solo elemento. Ci introduce maestosamente al suo interno la splendida ouverture di "The Beast", strumentale dalla tensione spirituale che richiama le meditazioni cosmiche di Coltrane. Un'introduzione sospesa e solenne, che prepara a un viaggio emotivo di grande intensità, a partire dalla successiva "Facing Atlas", che si dispiega con ampiezza, grazie a una voce che si innalza in modo quasi soprannaturale, come una Lisa Gerrard immersa in eteree nebulose dream-pop: tra mitologia e realtà, Anna insegue un amore perduto come Orfeo la sua Euridice, solo per rendersi conto che il passato non si può trattenere ("that's not what you want").
Al centro dell'album si staglia la lunga suite "The Iconoclast", oltre 11 minuti che fondono la drammaticità di Kate Bush con le scosse telluriche degli Swans, in un crescendo che culmina nel toccante verso conclusivo "Can I protect you": una promessa di tenerezza in mezzo a una coltre di riverberi.
Tra le collaborazioni spicca inevitabilmente quella con Iggy Pop: la voce roca e cavernosa dell'Iguana contrasta e al tempo stesso si fonde con quella, diafana, di Anna in "The Whole Woman". Una ballata dai toni quasi slowcore che funge da traino all'intera raccolta e che la cantautrice svedese ha descritto così: "A volte bisogna tuffarsi nelle acque più profonde e trattenere il respiro finché si può. Tornati in superficie, lo sguardo riesce ad andare oltre la meschinità della vita e resta solo la verità. Questa canzone d'amore è un omaggio all'uomo che sa ascoltare ed è dedicata alla donna che trova il coraggio di lanciarsi".
Se "The Mouth" si muove invece in una dimensione più folk, quasi spirituale, con un calore che evoca un coro gospel, e l'ipnotica "Consensual Neglect" scivola in un mood da club jazz anni Cinquanta, con "Stardust" entrano in scena pulsazioni industrial alla Einstürzende Neubauten e persino echi kraut-rock all'interno di un brano che pare seguire le oscillazioni emotive della sua interprete, decisa a spezzare le convenzioni e a reagire al senso di smarrimento collettivo: "Rompiamo con le idee preconcette su come vivere la vita. Non restiamo a guardare mentre il mondo cade a pezzi", ha commentato in proposito.
Il trittico finale è una lenta, solenne discesa che conduce (forse) fuori dal baratro: l'ambient funereo di "An Ocean Of Time" intreccia suoni eterei e impalpabili con frammenti vocali di von Hausswolff e tessiture sonore a cura di Abul Mogard; "Unconditional Love" - interpretata insieme alla sorella, la regista Maria von Hausswolff - è una commovente ode alla forza dei legami familiari; mentre la strumentale "Rising Legends" evapora in appena due minuti e mezzo come una quieta dissolvenza finale.
L'ora e un quarto di "Iconoclasts" giunge dunque come la definitiva consacrazione per Anna von Hausswolff, che per l'occasione si mostra più misurata anche sul piano vocale, attenuando le grida e le invocazioni lancinanti del passato. Smessi i panni di vestale gotica, l'artista svedese si confronta a viso aperto con temi universali - la perdita, la fede, l'amore, la vecchiaia, la depressione, la disillusione di fronte a un mondo "pieno di male", come canta in "Facing Atlas". E lo fa con una vulnerabilità nuova. Alla fine, forse, proprio in questo risiede la sua iconoclastia più profonda: nel coraggio di spogliarsi del mito per cercare, finalmente, l'umanità.
01/11/2025