“I vecchi musicisti sono i nuovi supereroi”, titolava qualche mese fa un articolo di Rivista Studio. Mentre la grande abbuffata dei cinecomic sembra al tramonto, saranno gli eroi della pop music il nuovo serbatoio di blockbuster del cinema hollywoodiano?
In principio fu “Bohemian Rhapsody”, con la sua operazione di rilancio del genere grazie al poker di statuette agli Oscar del 2019; poi sono arrivati “Rocketman”, “Elvis”, “Back To Black”… tra poco toccherà anche a Bruce Springsteen sbarcare sul grande schermo nel prossimo “Deliver Me From Nowhere”, con il volto della star di “The Bear” Jeremy Allen White.
La nostalgia, del resto, sembra essere una delle poche certezze rimaste nella frammentazione del nostro presente: quando il futuro comincia a scomparire – come riflette il sociologo Grafton Tanner nel suo ultimo “Nostalgoritmo” – la nostalgia diventa il rifugio più rassicurante. Per essere sicuri di riempire gli stadi, non c’è niente di meglio dei concerti-anniversario dedicati a qualche pietra miliare del passato; per comprare un vinile o un cd, è più facile lasciarsi convincere dalla deluxe edition di un album che si conosce già a memoria; persino in una webzine come OndaRock, alla fine dei conti, le pagine più visitate sono sempre quelle in cui si parla dei famigerati dinosauri del rock…
Le neuroscienze parlano di “urto della reminiscenza”: la tendenza a memorizzare meglio le esperienze vissute nell’intervallo temporale della giovinezza. “Ne discende che la musica ascoltata quando eravamo adolescenti e ventenni”, scrive Stefano Pistolini sul Foglio, “continuerà ad accompagnarci facendo scintillare la nostra memoria”. Con qualche effetto collaterale non proprio secondario.Il moltiplicarsi dei biopic musicali è appunto uno di questi: il business della nostalgia, nella maggior parte di casi, porta i fan a comprare il biglietto del cinema a prescindere, senza curarsi troppo della qualità della pellicola in sé. In più, calarsi nei panni di un’icona musicale è una di quelle sfide che, per un attore, possono portare dritte ai riconoscimenti che contano (o, per dirlo alla maniera più caustica di Tarantino, “i biopic sono solo delle grosse scuse per far vincere un Oscar agli attori”…): è successo con il Freddie Mercury di Rami Malek, vedremo se succederà anche con il Bob Dylan di Timothée Chalamet. Perché “A Complete Unknown”, il film di James Mangold dedicato al songwriter di Duluth da poco arrivato anche nelle sale italiane, non fa mistero delle sue ambizioni da Oscar (come confermano del resto le 8 nomination che ha raccolto).
L’idea di Mangold (già dietro la cinepresa per “Walk The Line – Quando l’amore brucia l’anima”, il biopic su Johnny Cash uscito ormai vent’anni fa) è nata da un libro scritto da Elijah Wald nel 2015, “Dylan Goes Electric” (“Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica”, nell'edizione italiana), che racconta la leggendaria svolta elettrica dylaniana di metà anni Sessanta. A farne un (imperdibile) documentario ci aveva già pensato Martin Scorsese nel 2005 con il suo “No Direction Home”. Ora è la volta della fiction – anche se la fiction, in questo caso, ha l’intento più o meno esplicito di farsi imitazione diretta della realtà: per tornare all’articolo di Lorenzo Peroni su Rivista Studio da cui siamo partiti, “nei biopic musicali c’è questa idea, insalubre, per cui la recitazione debba essere legata a un’operazione di mimesi, di possessione perfino”. “A Complete Unknown” non fa eccezione alla regola, con una promozione tutta concentrata a mostrare quanto Chalamet sarebbe indistinguibile rispetto al Dylan originale (anche se il suo talento, in realtà, si è visto più nelle riletture poco canoniche di alcune pagine minori del canzoniere dylaniano proposte al “Saturday Night Live” che non nelle copie fedeli della colonna sonora del film).
Mr. Zimmerman, da parte sua, non ha mai amato troppo indulgere sulla nostalgia. Basti pensare che il suo ultimo tour lo ha dedicato alla riproposizione integrale non di uno dei suoi capolavori del passato, ma dell’ultimo “Rough And Rowdy Ways”. E chi ha avuto il privilegio di vederlo sul palco non ha avuto certo ragioni per dispiacersene… Ma alla sceneggiatura di “A Complete Unknown” pare che Dylan abbia dato non solo la sua approvazione, ma addirittura il suo contributo: stando a quanto ha raccontato Edward Norton (che nel film interpreta Pete Seeger), Dylan avrebbe imposto una sola condizione: inserire nella trama almeno un episodio totalmente inventato. Il che, bisogna ammetterlo, suona terribilmente dylaniano… E poi Dylan, che negli ultimi tempi si è messo all’improvviso a postare di suo pugno su X (ovviamente nel suo inconfondibile stile sfuggente), ha dato un imprimatur esplicito alla pellicola: “C’è un film su di me che uscirà presto, intitolato 'A Complete Unknown' (che titolo!). Timothée Chalamet è il protagonista. Timmy è un attore brillante, quindi sono sicuro che sarà completamente credibile nei panni di me. O di un me più giovane. O di un altro me”.
Certo, al di là di qualche battuta azzeccata, il copione di “A Complete Unknown” non sfugge ai cliché e alle forzature del genere, dagli immancabili sguardi di meraviglia ostentati appena Dylan/Chalamet comincia a cantare, fino all’esile triangolo amoroso inscenato con Joan Baez e Sylvie Russo (Suze Rotolo, nella realtà). Ma il cuore di un film del genere non sta nell’intreccio (inevitabilmente prevedibile, e anche con qualche grosso fraintendimento), e nemmeno nell’imitazione un po’ calligrafica dell’iconografia dylaniana. Piuttosto, il suo fascino sta nel rendere visibile la materia leggendaria, l’epica dei racconti tramandati dalla mitologia del rock: un imberbe Dylan che va a visitare Woody Guthrie in ospedale, le serate hootenanny nei locali del Greenwich Village, persino la vulgata della furia di Pete Seeger al festival di Newport del 1965...
Insomma, se per Hollywood i cantanti sono i nuovi Avengers, Dylan è senza dubbio il Captain America della situazione. E allora, lasciando da parte qui i documentari (dallo storico “Don’t Look Back” del 1967 al più recente “Rolling Thunder Revue: Martin Scorsese racconta Bob Dylan” del 2019) e concentrandoci proprio sulla fiction, proviamo a immergerci nel suo personalissimo cinematic universe, ripercorrendo cinque film fondamentali che hanno portato Dylan sul grande schermo in passato, come soggetto o come autore. Nella speranza che “A Complete Unknown”, alla fine, funzioni più come iniziazione per i neofiti che come lusinga per i nostalgici.
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PAT GARRETT & BILLY THE KID
(Sam Peckinpah, 1973)
Contrariamente a quanto si pensa di solito, non è stato Sam Peckinpah il primo a far vestire a Dylan i panni dell’attore: già nel 1962, il regista inglese Philip Saville aveva deciso di fargli interpretare un film. Si era imbattuto in quel ragazzo del Minnesota sul palco di un locale del Greenwich Village e qualche mese dopo lo aveva fatto venire a Londra per girare una commedia per la Bbc intitolata “The Madhouse On Castle Street”. Il film, in cui Dylan interpretava uno studente anarchico di poche parole (cantando anche una ancora inedita “Blowin’ In The Wind”), andò in onda nel gennaio del 1963, ma oggi non c’è più modo di vederlo: nel 1968, la pellicola è rimasta vittima della pulizia degli archivi della Bbc (a questa storia, nel 2005, è stato dedicato il documentario “Dylan In The Madhouse”). E quindi, per esplorare il rapporto tra Dylan e il cinema, a noi non resta che prendere le mosse dal classico “Pat Garrett & Billy The Kid”.
L’idea di presentare Dylan a Peckinpah si deve allo sceneggiatore Rudy Wurlitzer: a quanto pare, il regista de “Il mucchio selvaggio” non sapeva nemmeno chi fosse, ma rimase subito conquistato sentendolo cantare. Peccato che musica e recitazione non siano esattamente la stessa cosa… A Dylan (oltre alla colonna sonora) viene affidata la parte di un enigmatico membro della banda di Billy The Kid di nome Alias. Nel 1973, nel pieno di una crisi creativa che si interromperà solo con “Blood On The Tracks”, Dylan si trasferisce per tre mesi con la moglie a Durango, in Messico, per prendere parte alle riprese: un’esperienza infernale, tra liti familiari e tensioni con il cast. Il suo ruolo nel film viene progressivamente ridotto, viste le doti non proprio eccelse di attore (“Non c’era nessuno in quella storia che fosse il personaggio che ho interpretato”, ammette). Eppure, approfittando della notorietà della sua immagine, la figura che gli viene ritagliata intorno riesce ad assumere un’aura enigmatica e indecifrabile.
Garrett scocca un’occhiata nella direzione di Alias mentre si sta affidando alle cure del barbiere e gli chiede chi sia: “È una buona domanda”, risponde Alias con un tono obliquo. Una presentazione più dylaniana di questa sarebbe difficile da immaginare… “Alias è un osservatore”, spiega Wurlitzer. “Lui, più di ogni altro nel film, è consapevole della leggenda di Billy”. Senza nome, senza pistole, senza radici: il personaggio di Alias finisce per contribuire a quel senso di fatalità che fa di “Pat Garrett & Billy The Kid” un western amaro e crepuscolare. La scena: Beans
Cappello nero, abito nero, sigaro stretto tra i denti: Pat Garrett sta aspettando i compagni di Billy The Kid nell’angolo di un saloon. Quando arrivano, li tiene sotto il tiro della sua pistola e comincia a interrogarli con arroganza. “Giovanotto”, dice rivolto ad Alias. “Voglio che tu vada laggiù, a quello scaffale di scatolame, e che tu ci faccia una bella lettura, forte, in modo che si possa sentire tutti”. Alias inforca gli occhiali dalla montatura dorata e comincia a leggere le etichette: “Spinaci, fagioli, stufato di manzo…”. È il sottofondo un po’ surreale del tesissimo confronto tra Garrett e i compagni di Billy, che si risolve con l’inevitabile dose di piombo. Dopo la sparatoria, Alias rimette occhiali scrollando le spalle: “Barbabietole, spinaci, prugne…”. “Giovanotto, quando vedi Billy, digli che abbiamo bevuto insieme”.
La canzone: Billy
È ovviamente “Knockin’ On Heaven’s Door” la canzone simbolo della colonna sonora di “Pat Garrett & Billy The Kid”. Ma la palma della più western del lotto spetta a “Billy”, una ballata fuorilegge alla “John Wesley Harding” che viene proposta in tre differenti versioni all’interno dell’album (più qualche ulteriore take reperibile nella “50th Anniversary Collection” dylaniana dedicata al 1973). “There’s eyes behind the mirrors in empty places/ Bullet holes and scars between the spaces/ There’s always one more notch and ten more paces/ Billy, and you’re walkin’ all alone”.
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RENALDO AND CLARA
(Bob Dylan, 1978)
“L’alienazione portata all’estremo”: è così che Dylan definisce il suo più ambizioso, straniante, torrenziale progetto cinematografico. “La nuda alienazione dell’io interiore contro quello esteriore”. Durante il picaresco viaggio della “Rolling Thunder Revue”, nel corso del 1975, Dylan decide di cimentarsi come ideatore, regista e attore di un “film post-esistenzialista”, accumulando ore e ore di riprese girate in maniera più o meno amatoriale insieme al carrozzone dei suoi compagni di viaggio. Nel 1977, Dylan si dedica al montaggio della pellicola, adottando come sempre una tecnica tutta personale: come racconta Allen Ginsberg, Dylan classifica ogni scena su dei cartoncini divisi per tematiche, associando a ogni cartoncino i colori dominanti o le immagini ricorrenti. E poi si diverte a rimescolare tutto.
Il risultato è un film di quasi quattro ore intitolato “Renaldo And Clara”, che si presenta come una via di mezzo tra un diario del tour e un’opera di fantasia. Da un lato, il film raccoglie vari spezzoni di concerto ed episodi tratti dai vagabondaggi della “Rolling Thunder Revue”: Dylan e Ginsberg in visita alla tomba di Kerouac, l’incontro con il capo indiano Tuono Rotolante, la gente di Harlem intervistata sul caso di Rubin Carter (il pugile ingiustamente accusato di omicidio al centro della sua “Hurricane”).
Dall’altro lato, Dylan affida ai propri sodali il ruolo di attori, facendo improvvisare loro una serie di scene dalla trama piuttosto labile, incentrate su una sorta di bordello condotto da un’anziana maîtresse zingara e – soprattutto – sull’ambiguo triangolo tra Dylan/Renaldo, la Donna in Bianco, effigie della morte interpretata da Joan Baez (ma a volte anche dalla moglie di Dylan, Sara), e Clara, che dovrebbe invece rappresentare la libertà e che ha il volto di Sara.
Oltre al tono dilettantesco della recitazione e all’eccessiva lunghezza del film, a rendere la visione ancora più difficoltosa contribuisce il fatto che la pellicola non segue una narrazione cronologica, ma procede per suggestioni simboliche, cromatiche e ideali. Una sorta di percorso iniziatico in cui si fa sentire l’eco degli insegnamenti del pittore Norman Raeben, il grande maestro del Dylan di metà anni Settanta: “Questo film crea e contiene il tempo”, afferma deciso Dylan. “Abbiamo fermato il tempo, lo abbiamo afferrato”. Ma a parte i fan di stretta osservanza, ben pochi sono disposti a rimanere per ore in un cinema per tentare di risolvere l’ennesima sciarada dylaniana. E il film si rivela un clamoroso flop. La scena: Sunset
La sera è fatta di riflessi d’oro e di zaffiro, lungo la costa del Rhode Island. Il gruppo è riunito in cerchio intorno alla tavola: qualcuno parla di meditazione, qualcuno strimpella una chitarra. Dylan indossa il suo cappello piumato, soffia distrattamente in una tromba. Allen Ginsberg, barba scura e veste candida, comincia a intonare un mantra: tutti lo seguono nel canto, mentre lui ondeggia, saltella, guida un girotondo. La luce del tramonto brilla sull’acqua, lo sguardo di Dylan si perde verso l’orizzonte. Con la sua tromba si avvia verso il mare, il resto della compagnia dietro di lui. Uno scampolo zingaresco che racchiude tutto lo spirito della “Rolling Thunder Revue”: l’ingenuità e l’amicizia, l’alcol e la musica, la mistica e l’America.
La canzone: It Ain’t Me, Babe
Non sono io: potrebbe esserci una sintesi migliore del Dylan della “Rolling Thunder Revue”? Non sono io quello che stai cercando. “La maschera è più importante del volto”, afferma Dylan a proposito di “Renaldo And Clara”. E il primo piano che indugia su di lui mostra la faccia dipinta di bianco, come gli artisti della commedia dell’arte. Una maschera, appunto. L’anima folk di “It Ain’t Me, Babe” – l’inno anti-etichette scritto una decina di anni prima per “Another Side Of Bob Dylan” – si fa più irrequieta che mai, tra gli scintillii della chitarra di Mick Ronson e la vitalità del basso di Rob Stoner. “No no no no, it ain’t me babe!”, proclama Dylan con uno slancio febbrile. Impossibile non lasciarsi trascinare.
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HEARTS OF FIRE
(Richard Marquand, 1987)
Dura la vita delle vecchie rockstar. Billy Parker si è ritirato dalle scene e gira con un pick-up scassato, senza uscire quasi mai dalla sua fattoria in Pennsylvania. Stivali da cowboy e zazzera arruffata, non vuole più sentire parlare dei giorni in cui stava sotto i riflettori. Fino a quando non si imbatte in Molly, aspirante cantante con il fuoco della giovinezza nel cuore.
Come attore, Dylan non è molto migliorato nel tempo. In compenso, il film a cui partecipa nel 1987, “Hearts Of Fire”, è persino peggio della sua recitazione nei panni di Billy Parker: uno scontatissimo triangolo con Fiona Flanagan e Rupert Everett, in cui Richard Marquand (il regista de “Il ritorno dello Jedi”) e Joe Eszterhas (lo sceneggiatore di “Flashdance” e poi di “Basic Istinct”) sciorinano tutti i più triti luoghi comuni sul mondo della musica rock. Nell’idea originale alla base della sceneggiatura, Billy Parker avrebbe dovuto essere un rocker fuorilegge, una sorta di rapinatore romantico, ma anche questo minimo tentativo di deviare dalla prevedibilità dell’intreccio viene soppresso nella versione finale.
“Hearts Of Fire” funziona bene, però, come metafora del Dylan di metà anni Ottanta. Con una buona dose di autoironia, Bob si sente davvero come Billy: un reduce, un sopravvissuto, uno straniero (destino più o meno comune, in quegli anni, alle grandi icone rock degli anni Sessanta). Sempre combattuto tra stare al gioco e tirarsene fuori. “Non ero sparito dalla scena ma la strada si era ristretta, si era quasi interrotta”, confesserà anni dopo nella sua autobiografia. “Lo specchio aveva fatto un giro su se stesso e io vedevo il futuro, un vecchio attore che rovista nei bidoni della spazzatura fuori dal teatro dove una volta aveva trionfato”.
Dylan non si presenta nemmeno alla prima di “Hearts Of Fire” a Londra. Nei cinema degli Stati Uniti il film non arriverà mai, stroncato dalla reazione del pubblico inglese. Ci vorrà parecchio tempo perché il songwriter americano decida di misurarsi di nuovo con il grande schermo. Nel frattempo, il suo legame con Hollywood (a parte l'utilizzo del vecchio repertorio per scene cult come quella de “Il grande Lebowski” sulle note di “The Man In Me”) sarà affidato soprattutto alle canzoni originali per le colonne sonore: “Band Of The Hand”, al fianco di Tom Petty e degli Heartbreakers, inaugura il filone nel 1986 a supporto del film omonimo (da noi “I 5 della squadra d’assalto”), “You Belong To Me” accompagna “Assassini nati” di Oliver Stone segnando la rinascita dylaniana degli anni Novanta, ma è con “Things Have Changed” (per “Wonder Boys” di Curtis Hanson) che Dylan arriva a conquistare nel 2001 l’Oscar per la migliore canzone originale. Il miraggio del cinema si è ufficialmente riacceso. La scena: Eggs
Molly va a trovare Billy nella fattoria dove si è rintanato ad allevare galline. Un sacco di galline. Billy la accoglie sistemandosi svogliatamente e le mostra un frigorifero pieno di uova. Un sacco di uova. “Vuoi delle uova?”, le chiede con un mezzo sorriso beffardo. E senza darle neppure il tempo di rispondere richiude il frigorifero. È un perfetto esempio dei siparietti surreali che costellano “Hearts Of Fire”. La dylanista Rebecca Slaman (@ithrewtheglass su X) ne ha fatto una t-shirt già diventata iconica tra i fan: perché oggi non c’è niente di sacrilego nel trasformare Dylan in un meme, anzi. I seguaci del culto, più o meno dalla generazione millennial in poi, si sono liberati della pedanteria dei loro predecessori (ascoltare il podcast Jokermen per credere...). L’ironia è una virtù molto più dylaniana.
La canzone: The Usual
In “Hearts Of Fire” – altro paradosso – a latitare sono proprio le canzoni di Dylan (e di certo “I Had A Dream About, Baby”, da “Down In The Flood”, non migliora il bilancio). A metà degli anni Ottanta, il songwriter americano si trova in uno dei punti più bassi della sua carriera. Così, il meglio delle performance del film viene dalla cover di un brano di John Hiatt, “The Usual”. Dylan, camicia a scacchi e chitarra elettrica a tracolla, la canta sul palco di un locale da quattro soldi, sputando i versi con un sorriso tagliente. Nella fiction, si tratta della grande hit di Billy Parker. Nella realtà, l’interpretazione di Dylan riesce a riscattare il rock plastificato di un arrangiamento fin troppo figlio dei tempi.
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MASKED AND ANONYMOUS
(Larry Charles, 2003)
Sundance Film Festival, 2003. Dylan si presenta con un’improbabile parrucca bionda e un cappellino di lana calcato sulla testa: è il protagonista di un nuovo film, ma come al solito si diverte soprattutto a spiazzare le aspettative. Una ventina di anni dopo, Timothée Chalamet imiterà il suo look per la prima newyorkese di “A Complete Unknown”… si parlava di memificazione, no?
“Masked And Anonymous”, il film presentato al Sundance Film Festival, è l’ennesimo fallimento cinematografico dylaniano. Anzi, il migliore dei suoi fallimenti. A differenza di “Renaldo And Clara”, Dylan rinuncia a improvvisarsi regista. A differenza di “Hearts Of Fire”, non si limita a recitare come attore. Ma la sua impronta è dappertutto, e non sempre si tratta di un’impronta felice.
Per comparire nel nuovo progetto di Dylan, i grandi nomi di Hollywood fanno la fila: da John Goodman a Jeff Bridges, da Penélope Cruz a Val Kilmer, da Mickey Rourke a Jessica Lange. Il cast stellare, però, non basta. E non basta nemmeno la regia di Larry Charles (che troverà il successo qualche anno più tardi grazie a “Borat” con Sacha Baron Coen). Il punto debole è la sceneggiatura, che Charles scrive a quattro mani con Dylan stesso (sotto lo pseudonimo di Sergei Petrov).
Dylan, tanto per cambiare, interpreta una vecchia rockstar decaduta, Jack Fate. Che è anche il figlio del Presidente, il leader di un regime dittatoriale di stampo sudamericano che sembra avere soppiantato la democrazia statunitense in un prossimo (distopico) futuro. La vicenda ruota intorno alla scarcerazione di Fate per consentirgli di prendere parte a un concerto di beneficenza, mentre il Presidente si trova sul letto di morte. Al di là di questa sinossi essenziale, però, la trama si sviluppa in realtà in maniera tutt’altro che lineare, limitandosi in sostanza a fare da collante per una serie di incontri e scambi di battute immancabilmente criptici.
In un rutilante scenario di rivoluzionari corrotti e amanti segreti (in cui non manca nemmeno un circo sorrentiniano con i sosia di Giovanni Paolo II, Gandhi e Lincoln mescolati a illusionisti, lottatori e ventriloqui), il potenziale sprecato è parecchio: c’è un ironico gioco di specchi con l’icona dylaniana (come quando gli organizzatori del concerto pretendono da Jack Fate che le sue canzoni siano “riconoscibili”), ci sono spunti di satira politica e fatalismo esistenziale che avrebbero meritato ben altro sviluppo (“Gli esseri umani, soli con i loro segreti, mascherati e anonimi: nessuno li conosce davvero”). In un universo parallelo, “Masked And Anonymous” avrebbe potuto essere un capolavoro. La scena: Prison
Jack Fate sale in manette sul furgone che deve riportarlo in prigione, lanciando un ultimo sguardo verso il cielo. Nelle strade restano solo povertà, disillusione e qualche brandello di bandiera. Fate guarda dritto in camera con un sorriso disincantato sulle labbra: “A volte non basta conoscere il senso delle cose, a volte dobbiamo sapere quali cose non hanno affatto un senso”, recita la voce fuori campo. In sottofondo, si insinua una splendida versione di “Blowin’ In The Wind” (registrata dal vivo a Santa Cruz nel 2000). “Ho smesso di cercare di capire tanto tempo fa”, conclude Fate. Forse è l’unica via per arrivare alla comprensione vera.
La canzone: I’ll Remember You
Al contrario di “Hearts Of Fire”, le canzoni sono il punto forte di “Masked And Anonymous”: un pugno di superlative interpretazioni al fianco della band del “Never Ending Tour” (nella finzione cinematografica, i Simple Twist Of Fate, cover band di Jack Fate), riprese sul palco di un vecchio teatro. La più sorprendente è la rilettura essenziale e commossa di “I’ll Remember You” (dal sovraprodotto “Empire Burlesque” del 1985), che purtroppo non compare nell’album ufficiale della colonna sonora. George Receli accarezza con le spazzole una scatola di birra messicana, Charlie Sexton ricama con la chitarra acustica intorno al contrabbasso di Tony Garnier. E la voce di Dylan si piega in un tono di ruvida dolcezza.
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IO NON SONO QUI
(Todd Haynes, 2007)
“Poeta, profeta, fuorilegge, imbroglione, star di elettricità”. Persino cadavere e martire. Per cercare di rappresentare le moltitudini della maschera dylaniana, ci voleva un’idea come quella del regista Todd Haynes: sei diversi personaggi, ognuno interpretato da un attore differente, chiamati a mettere in scena altrettante fasi della carriera di Dylan. Richard Gere e Christian Bale, Heath Ledger e Ben Whishaw; ma anche Cate Blanchett e il quattordicenne afroamericano Marcus Carl Franklin. “Dylan ha rifiutato così tante volte la proiezione pubblica di chi dovrebbe essere, e in così tanti modi diversi, che la cosa più sensata è farlo diventare un gruppo di persone”: così Haynes spiega l’ispirazione del suo “Io non sono qui”, il film che nel 2007 prova per la prima volta a mettere in scena la biografia del songwriter di Duluth.
Il titolo viene direttamente da uno dei brani più misteriosi dei “Basement Tapes” dylaniani, “I’m Not There”, una confessione a fior di labbra sul trovarsi sempre da un’altra parte. È proprio questo il filo conduttore del film di Haynes: se in “Velvet Goldmine”, nel 1998, il regista californiano aveva già provato a esplorare con successo il mondo del rock, stavolta la sua ricerca diventa più visionaria ed evocativa.
“Haynes ha realizzato un’agiografia ironica, la legenda aurea di un santo di cui si raccontano sei vite, lasciando intendere che altre ancora se ne potrebbero raccontare”, scrive Alessandro Carrera a proposito del film. “Quella di Dylan ha già cessato di essere una vita per trasformarsi in una passion play che tutti possono recitare. Dylan è tutti, e tutti possono essere Dylan per quindici minuti. Soprattutto perché Dylan, proprio poiché è sempre un altro, non può mai rappresentare se stesso”.
Se le parti che giocano a imitare “Don’t Look Back” finiscono per risultare sin troppo parodistiche, sono quelle che si prendono più libertà narrativa a riuscire nell’impresa di cogliere meglio le sfaccettature dylaniane: dal ragazzino di colore che si inventa una biografia immaginaria sotto il nome di Woody Guthrie fino al maturo Billy che cerca di fuggire dal mondo nascondendosi nella città di Enigma, i Dylan spuntati da qualche universo parallelo raccontano più cose del vero Dylan di quanto potrebbe mai fare il realismo di un racconto lineare. La scena: Sermon
Quando il predicatore si avvicina al microfono, tutti gli occhi si rivolgono verso di lui. Qualcuno si sistema meglio sulle sedie pieghevoli, qualcuno stringe un crocefisso tra le dita. I bambini giocano in fondo al salone della congregazione. “Eravamo tutti arrotolati nella tasca del diavolo”, comincia a proclamare il predicatore. “Non sto parlando del diavolo con il forcone e le corna, sto parlando di un diavolo spirituale, nel cuore della notte… e deve essere vinto!”. Un tempo era un cantante famoso, ma poi ha scelto di seguire la sua chiamata. Ed ecco il pianoforte, mentre la voce si leva in un inno: “I’m pressing on, I’m pressing on”. Le coriste sostengono il canto, l’assemblea comincia a battere le mani: “I’m pressing on, to the higher calling of my Lord!”. Dylan e la sua conversione, spiegati in una scena.
La canzone: Goin’ To Acapulco
La colonna sonora di “Io non sono qui” affida la rilettura del canzoniere dylaniano a un parterre alternativo davvero reale (Sonic Youth, Mark Lanegan, Cat Power, Sufjan Stevens, Stephen Malkums, solo per menzionarne alcuni). Un connubio che raggiunge il vertice quando nell’immaginaria città di Enigma salgono sul palco di un gazebo Jim James e i Calexico. Il cantante ha il volto dipinto di bianco sotto il cappello polveroso, proprio come il Dylan della “Rolling Thunder Revue”. Accanto a lui, la bara di una fanciulla vestita di bianco, incorniciata di fiori. E al suono di una banda di ottoni, “Goin’ To Acapulco” (altro tesoro nascosto dei “Basement Tapes”) si trasforma in uno struggente canto funebre. Perché il mistero della morte – ce lo ha spiegato proprio Bob Dylan – è il grande segreto custodito dalle canzoni folk.
17/01/2025
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