HUGE MOLASSES TANK EXPLODES - II (Retro Vox, 2020)
wave, nu-gaze, psych
Perfettamente calibrati sul sound degli Interpol, gli Huge Molasses Tank Explodes escono con il secondo disco, a tre anni dell’omonimo esordio. Il nome della band milanese prende spunto dal così detto “Disastro della melassa”, avvenuto a Boston nel 1919, quando un enorme serbatoio esplose inondando la parte nord della città e causando diversi morti. Fa impressione, canzone dopo canzone verificare quanto la scrittura e le esecuzioni di “II” si approssimino allo stile della band newyorchese guidata da Paul Banks, sin dalla doppietta iniziale “Unpainted Sky”/“Dream Within A Dream”. Ma le evidenze nu-nu-wave si bagnano, completandosi, cammin facendo, nelle influenze dreamy-shoegaze di “Giving Up The Ghost”, che arriva subito dopo la mostruosa cavalcata kraut-psych “So Much To Lose”. Fossero una band americana o anglosassone, sarebbero a strapparsi i capelli in mezzo mondo. Non lasciamoli passare senza accorgerci di loro (Claudio Lancia, 7,5/10)
MICHELE PIANO - NÏNDE (autoproduzione, 2020)
new age
Pugliese dal Gargano, poi trasferito in Lombardia, Michele Piano espone senza fretta giri armonici a un tempo semplici e complessi, regolari e free-form, in “Nïnde”. Gli 8 minuti dell’eponima “Nïnde” si spandono in accordi di pianoforte che, nella vena di Satie e Eno, a ogni ribattuta svegliano qualche nuovo impercettibile microrganismo armonico. La melodia su scale discendenti di “Fuci Copi”, candidamente struggente, gira all’infinito su sé stessa mentre scompare tra tocchi fatati in un vortice rarefatto. Tra sfarfallii elettronici si staglia appena un’altra melodia impalpabile, a tratti un’ode funebre nella vena di Purcell, quella di “Mitta”, ma il pezzo rassomiglia una volta di più a un fragilissimo organismo in balia degli elementi. Più meccanicamente minimalista suona “Vileno”, ma pure sviluppando con naturalezza un intrico di sibili mantrici. In bonus c’è una sorta di medley, “Oro12/Palmegane”: la prima parte è il suo primo vero acuto artistico, un inno angelico sfrigolante nell’Empireo, qualcosa che neanche la Enya strumentale ha mai tentato (la seconda è una più anonima sonata cibernetica). Pianista, nomen omen, diplomato con eccellenza e didatta ad appena vent’anni, Piano aggiunge anche un palmares come compositore (già testato nella musica da camera di “Textures” e “Looking-Back Rag”, oltre a colonne sonore). Il disco, il suo esordio solista appena accompagnato dai tocchi della chitarra di Francesco Tamburrano, può essere inquadrato in triplice modo: come poesia sonora, come sublime meditazione e come immaginario. Spesso superbo nei primi due, al terzo sopperisce l’artwork di Sandro Army (Michele Saran, 7/10)
PALMER GENERATOR, GREAT SAUNITES - PGTGS (Bloody Sound Fucktory, 2020)
post-rock
Split tra due delle migliori realtà del post-rock italico degli ultimi anni, Palmer Generator e Great Saunites, “PGTGS”. “Mandrie” dei Palmer, 20 minuti in due parti improvvisato in presa diretta, attacca con un tema d’anthem eroico ripetuto all’unisono e ben scandito dalla batteria; presto attaccano variazioni e improvvisazioni, una per strumento, insieme trasformando in corsa anche il fervore psichedelico che ne fa da traccia, anche nei momenti di catarsi eterea. Il tema, così, si ritrova maciullato e sfilacciato in orditi dissonanti, impalpabili, meccanici e carnali insieme, fin quando ogni frattura drammatica converge in un commovente frasario spirituale, il loro ultimo suggello stilistico. “Zante” dei Saunites, 17 minuti, è una collaborazione con Paolo Cantù che cerca una declinazione del rock modale esotico, una risaia di eventi sonori a tratti Bosch-iana ma più tendente alla sfocatura indistinta (più fonti, dal fiatismo d’avanguardia al chitarrismo twang, radunate attorno allo scalpiccio della batteria). Nella seconda metà il pezzo acquisisce una più definita fisionomia free-jazz mistica alla Sanders: qui invece emergono i limiti d’improvvisatori liberi. “Mandrie” è il capolavoro dei Palmer, un maniacale, intenso spettro sonoro con pochi precedenti nostrani, forse proprio solo la loro “Natura” (2018), in grado di risvegliare la gloria dei Rodan, laddove “Zante” s’inserisce nella ricerca estetica a più mani dei Saunites (tra cui “Radicalisme Mècanique” con Novellino) diventando un nuovo apice d’ambizione, pur mancando di reale direzione. Master di “Rico” Gamondi, artwork di Mattia Palmieri. Co-prodotto con Brigadisco e Il Verso Del Cinghiale. Solo vinile e digitale (Michele Saran, 7/10)
IRBIS 37 - UN ALTRO CIELO (Undamento, 2020)
R&B, hip-hop
IRBIS 37 nasce nel 2017 in Bovisa, a Milano nord, dall’incontro tra il rapper Irbis (Martino Consigli) e i producer Logos.lux (Davide Fanelli) e d.Noise (Giorgio Miccolupi). Bastano pochi minuti dentro “Un altro cielo”, disco d’esordio dopo una serie di Ep minori, per capire che siamo di fronte a un progetto già maturo nei mezzi e nella scrittura. Una belle voce, soul anche sotto i layer dell'autotune, si arrotola e snoda su partiture eleganti in equilibrio tra R&B gentile e trap, con quella malcelata propensione all’accordino jazz tipica di chi nell'adolescenza è cresciuto a pane e Odd Future. Quello di Irbis è un hip-hop melodico, ed è fatto molto bene, che canta di vita e amore, e soprattutto del grande scenario che fa da sfondo a queste storie: la città. In un’epoca in cui il rap milanese non sembra più capace di raccontare la metropoli (pur continuando a raccontare bene il quartiere), tra le canzoni di “Un altro cielo” si può invece percepire la plasticità degli edifici, dei grattacieli, la vastità dei viali e il profumo delle piazze deserte alle due di notte. In ambito rap italiano, solo Guè Pequeno con “Vero” era riuscito tanto bene a catturare questo tipo di atmosfera languida, seppur facendo leva su un immaginario ben diverso. Uscito per la Undamento, stessa etichetta di Frah Quintale (vero protagonista del crossover pop-rap di oggi), questo debutto potrebbe già essere il disco urban dell'anno, se non altro di questi primi mesi. Una canzone su tutte? “OsaOsa”, per un ascolto che è caldamente consigliato dopo le 22, possibilmente se state viaggiando in macchina (Tommaso Benelli, 7/10)
LILAC WILL - TALES FROM THE SOFA (Romolo Dischi, 2020)
indie-folk
Arrivano da Latina i Lilac Will, trio formato da Francesca Polli, Vincenzo Morinelli e Giulio Gaudiello, autori di un folk caldo e introspettivo, che li avvicina a certe atmosfere prossime ai New Bohemians di Edie Brickell (se avete la mia età) o alla più recente Any Other (se avete un bel po’ di anni in meno). Insomma, trattasi di sonorità intergenerazionali, dal sapore vagamente hippie, in grado di scavallare epoche e mode. Delicati (“Black Show”), a tratti fragilissimi (“Woods”, “Show Me How”), in altri frangenti moderatamente uptempo (“Goggles”, “Tales”), con le chitarre acustiche sempre in bella mostra (“May”), in questo esordio i Lilac Will mettono in sequenza dieci preziose tracce da stringere forte al cuore. La giusta dose di leggera malinconia che sta accompagnando queste giornate di marzo mai tanto casalinghe. In “Tell Me You Love Me” si segnala la presenza della chitarra di Roberto Angelini (Claudio Lancia, 7/10)
MICHELANGELO SCANDROGLIO - IN THE EYES OF THE WHALE (Auand, 2020)
third stream
Contrabbassista jazz senese, Michelangelo Scandroglio offre un primo saggio come bandleader e compositore tramite “In The Eyes Of The Whale”. Il bandleader emerge in eleganti parate di bravura come la lunga “I Kill Giants” e “Noah” (in queste più direttore d’orchestra, contando gli ospiti). Al compositore si devono invece accreditare i 9 minuti di “When The Glimpses Are True”, schizofrenicamente spartiti tra ossessivo incubo jazz-core e melliflua balladdissonante, ma anche le rifiniture del brano eponimo (inizia come un notturno pianistico e sfuma in concertazioni jamda camera) e “Disappearing”, piccola saga in due parti, in mesto dialogo tra piano e ottoni. Il giovane Scandroglio (classe 1996) predispone un quartetto dalle sonorità talvolta ispide eppure fluidamente affiatato, non così coraggioso ma nemmeno pretenzioso, sostenuto, più che dal suo basso, dal pianoforte sul filo dell’atonalità di Alessandro Lanzoni e la batteria illusionista di Bernardo Guerra. Sotto il segno dei suoi due maestri, Ares Tavolazzi, jazz, e Gabriele Ragghianti, classica, in profondità è infatti un disco di tributo a due mondi, l’improvvisazione e il contrappunto, che aspira a conciliare in una forma nient’affatto adulterata d’armonia disarmonica. Tromba: Hermon Mehari. Ospiti: Michele Tino, Peter Wilson e il sax Dolphy-iano di Logan Richardson (Michele Saran, 6,5/10)
THE MÜRGEN - EDUCATIONAL HAZARD (autoproduzione, 2020)
dark, alternative metal, industrial
Torna, a tre anni di distanza da "Homonymic", la creatura di Luca Candellero e Alessandro Marchetti alle prese con un personalissimo "pericolo educativo" in forma sonora. Il duo milanese ha fatto tesoro di un periodo casalingo forzato (causa infortunio di entrambi) per modellare undici tracce che si muovono ancora una volta tra atmosfere dark, alternative metal, industrial e un vocabolario prettamente anni novanta, debitore in primis di Alice In Chains, Manson e NIN. Rispetto all'episodio precedente, risulta evidente una maggiore coesione dal punto di vista dei suoni, probabilmente agevolata dalla sintonia di vicende personali in fase compositiva, che tiene unito un insieme di tracce più ("Vogue", "In My Mouth", "Where Is Me") o meno (l'iniziale "Blood") efficaci dal punto di vista della scrittura. Il vertice del disco rimane però agganciato ai due momenti in cui le atmosfere si dilatano, come la suadente "Ashes" (impreziosita da passaggi vocali memori di Peter Murphy) e la ballad à la Pearl Jam in chiave psichedelica di "Harmacy". Un promettente passo avanti (Paolo Ciro, 6,5/10)
IL SILENZIO DELLE VERGINI - FIORI RECISI (I Dischi Del Minollo, 2020)
trip-hop
Progetto del chitarrista milanese Armando Greco, Il Silenzio Delle Vergini inizia con un mini, “Colonne sonore per cyborg senza voce” (2017), proprio dominato dalla sua chitarra, psichedelica e draculesca, come certi Savage Republic di mezzo. L’Ep “Su rami di diamante” (2018) con Cristina Tirella, voce recitante e basso, opta per un meno greve post-rock chitarristico-elettronico, così nel primo lungo “Fiori recisi” la formula si sistematizza in trame cangianti ad accompagnare monologhi, conversazioni, poesie, a partire da caroselli come la title track e “Non ho più paura”, ma soprattutto nel crepuscolarismo di “Il treno dei desideri”, reading che ibrida il De André di “Leggenda del re infelice” e le voci artificiali di Loquendo. Vengono in mente gli Air maliziosi di “Moon Safari” nella melodia cristallinamente passatista e attentamente costruita di “Cuore di farfalla”, mentre nei dub esosi di “Gambino” e “Necessità” Greco vagabonda a zig-zag tra Fatboy Slim e Nine Inch Nails. Anche lo spettro dei toni suona distintamente variabile: da una quasi psichedelica “Cenere”, di droni angelici, a una “Mental Code” che assurge a esacerbazione drammatica dell’intero album, attraverso una batteria tempestosa, una distorsione che è più una radiazione, e voci come bisbigli nel pandemonio. Il disco sancisce la stabile collaborazione con Tirella, con cui Greco ha co-scritto peraltro il soggetto del corto “Seconda ripresa” (2019) di Bruce Beltempo con Gabriele Lazzaro, di cui “Il treno dei desideri” (primo singolo) fa da colonna sonora. Greco, bravo direttore d’orchestra, nei ritmi spesso creativi più che altrove e nella scelta, e coagulazione, dei collaboratori, offre un acquerello decadente di parole notevole per la divulgazione di contenuti lirici con registri di radiodramma sofisticato. Co-prodotto con (R)esisto e Massaga Produzioni (Michele Saran, 6,5/10)
RAREŞ - CURRICULUM VITAE (Needn’t, 2020)
songwriter
Rareş Gabriel Cirlan debutta con “Curriculum Vitae” accompagnato, oltre che dal suo basso, dagli amici Denoise, la chitarra di Giuseppe Vio, le tastiere di Novecento e la batteria di Marcello Della Puppa. Le sue scevre ballate si pongono in antitesi all’ipersaturazione della trap, pur condividendone, nei modi e nelle forme, qualche aspetto. Emergono soprattutto le più impegnative, dalla costruzione ampia o con il respiro più profondo, come la struggente, innervata di gospel “Distanze danze”, con sciami di rumore bianco provenienti dal wurlitzer (idem per i venticelli e le maree mediterranee nella filastrocca di “Marcellino”), e il monologo solitario contrappuntato soltanto dai ghirigori sommessi della chitarra di “Mamme banane”. Nonostante cerchi di mostrarsi al mondo con numeri funky e qualche sparuto tocco di psichedelia chitarristica, l’album continua a dare il meglio nei momenti pianamente confessionali, da una “Miruna” che sembra anelare ai paradisi Tim Buckley-iani a un battito beduino con velati miasmi in dissonanza in “Vene più”. Cocktail analcolico di postmoderna cultura adolescenziale. Cirlan, giovane rumeno adottato dal veneziano (Marghera), improbabile prototipo di soulman anti-comunicativo (canto smozzicato, modulato al punto da mangiarsi parole già slegate e mezze in slang), diffonde un’intima indolenza, la nostalgica noncuranza per il mondo digitale: corretta dunque la rustica, analogica produzione di Marco “Halfalib” Giudici che esalta il secondo “canto” della chitarra di Vio. Si avvicina pericolosamente al dandismo macchiettistico, ma con la classe del caso (Michele Saran, 6/10)
SENHOR MUTRIO - FALSO D’AUTORE (autoproduzione, 2020)
alt-pop
Trio palermitano formato nel 2009 dal cantautore Samuele Spilla (chitarra e voce) con Antonio Mancino (basso, cori) e Dario La Neve (batteria), Senhor Mutrio ripropongono, nel secondo “Falso d’autore”, il loro talento istrionico a spasso per i ritmi dal mondo. La canzone eponima è così una dichiarazione programmatica d’ironia seriosa, sciolta in un finale fraseggio wah degno del Santana più palustre. Nei loro vagabondaggi spicca a mani basse “Mavascass”, rumba focosa con affilata sezione fiati e vigoroso canto a due. Scritto, come il debutto “Monte Cuccio n° 5” (2016), quasi per intero da Spilla. Ha qualche numero di danzante piccante sarcasmo (i tre strumentalmente sanno essere macchina da guerra), pur derivativo di Daniele Silvestri, ma per la maggiore è sdilinquito e illanguidito con qualche inciampo sentimentale buonista. Deludono anche i funk (troppo leggerini “Luna” e “Goffredo”) e la chanson di chiusa attuffata in archi e bandoneon (“Rembrandt”). Niente male gli assoli di trombettistici di Alessandro Presti (Michele Saran, 5/10)