ARTURA - SOME PEOPLE FALLING (New Model Label, 2022)
post-rock
Artura, originale creazione “aperta” di Matteo Dainese (originario del Friuli), fantasiosa ben oltre il precedente Il Cane, giunge all’operazione ardita di “Some People Falling”. Dainese raduna una ventina di amici vocalist provenienti dal sottosuolo dei soundsystem (Carlitos, Vale & Nadja, Bikini Bandits, Junkologist, Resistence In Dub, etc) per farli declamare, recitare, rappare o cantilenare, quindi deformarli trasformandoli in blocchi vocali da maciullare sopra jam elettroniche. Buoni esempi del procedimento sono “Tg Services”, un tentativo di dissoluzione di un vecchio funk-hop, e “This Alternation”, lamento alieno in levare con serenata mediterranea e rumori di segheria. A parte “La fortuna di Hopkins” che incrocia un inno folk a maestose fanfare marcianti, e la cullante narcolessia di “Without The Ticket”, prossima al post-rock canonico, Dainese va oltre con la lenta ma penetrante “Sehen Wir” e soprattutto la rarefatta “Nascondino”, con interazioni tra turntable, distorsioni psichedeliche e ottoni jazz, fino a spingersi nella musica concreta del found sound in “Erano anni”. Squadra ben affiatata di multistrumentisti (Dainese, Deison, Casasola, Cisilino) e un Dj (Cic 1) per un caso - raro per il rock italiano - di follia (dis)organizzata. Dainese spinge il modo di conduzione da mixtape del precedente “Massive Scratch Scenario” (2019) fino a proclamarsi eccentrico master of ceremonies che fa una crew e poi la disfa secondo lacerti sonici e scratch vecchio stampo, ma anche un corredo di digitalismi dissonanti che va dall’urticante al luminescente. Se nella via mostra problemi e limiti (stenta a raccogliere le forze per impennarsi), vi compensa una sorta di trilogia “iberica” di chiusa, anche emblema ultimo di un multilinguismo sottotraccia: “Que Mierda De Navidad”, ritornello epico con finale concertino di pura cacofonia, “Onpoc”, ritornello squillante inacidito in mezzo al caos bombarolo, e “Nos Bolsos”, danza sincopata con archi e scoppi (Michele Saran, 6,5/10)
FOR THE STORMS - THE GRIEVING PATH (Time To Kill, 2022)
alt-metal
Sostituito nel reparto chitarre Simone Mazzardi con Fabio Pierani, i tre ex Shantak (Nicola Belotti, voce, Federico Albini, basso, Matteo Spada, batteria), di Brescia, riprendono slancio e aggiungono monumentalità al loro death-doom cambiando nome in For The Storms e ri-debuttando con “The Grieving Path”. Il nuovo arrivo ruba subito la scena nei 13 minuti di “For The Storms To Come”, sia nel primo semplice tema melodico portato stentoreamente, che nella sezione centrale d’arpeggio folk, che nell’assolo epico finale. L’altra mini-suite, “A Downfall”, ha comunque sia maggior impatto - il growl ferito si amalgama per bene al getto della distorsione - che maggior destrezza fantasiosa: inciso di pianoforte, arpeggio post-rock, e anche una poesia declamata in un vuoto ambient che, per contrasto, aumenta la pressione della furia. La ballata a mo’ di psicodramma gotico di “Tombless” acquisisce tastiere sinfoniche e un passaggio mellifluo da tardi Type O Negative, mentre contrappunti cameristici affiorano nel death-metal progressivo di “Just Another Skull”, la più breve ma pure la più torrenziale. Lo strumentale di chiusa, “Unbound”, potrebbe suonare come ridondante allenamento post-metal ma anche qui scappa il colpo gobbo, una coda di leziosa variazione neoclassica. La creatività episodica, non sistematica, che non sposta né ribalta stereotipi - ma di buona classe nel riproporli dottamente agghindati e decorati -, ne fa comunque uno dei migliori dischi metal italiani del decennio 20. Concept in cinque stadi sull’elaborazione del dolore (rifiuto, rabbia, compromesso, depressione, accettazione) dove ciascuno in realtà contiene un po’ degli altri. Edito dalla romana Time To Kill Records, già uscito via Bandcamp a fine 2021 (Michele Saran, 6,5/10)
KIMERICA - FANTASMI (Lost Generation, 2022)
songwriter
Kimerica (Erica Noventa, padovana di nascita e milanese d’adozione) a parte un paio di singoli spuri esordisce con l’album “Fantasmi”, subito presentato da “Coro per la fine del mondo”, creazione sofisticata synth-pop (basso sinuoso, scratch digitali, percussioni) e poi precisato da “I tuoi fantasmi” (battito industrial, rap basso e sprint nel ritornello). Ancora da antologia sono ulteriori sofisticate variazioni della sua ricetta, quali il dub-hop robotico ma oscuro con scintille vocali “Guarda come me ne vado”, il tormentato trip-hop bilingue “Not Anymore”, il “lento” sentimentale sanremese su battito trap-pop di “Lasciami entrare”. Anche sonorizzatrice della lectura dantis “Amor c’ha nullo amato amar perdona” (2016), quindi collaboratrice dell’emergente Federica “Faith Kiddo” Baraldi, la Noventa cantautrice gioca con la carta della coerenza anti-frivolezza: per una volta si apprezza un vero legame tra titolo e tono d’insieme, realmente fantasmagorico. In parte co-scritto con Marcello Realdon e supportato da Michele Scalzo, basso e chitarra, e Metello Bonanno, batteria, per una buona metà appare come un aggiornato bignami del moderno pop elettronico femminile italiano in cui gli arrangiamenti valgono più delle canzoni. Sciroppino perlopiù inassimilabile l’altra metà - litanie inespressive o proprio scipite -, ma c’è anche la mezza-melodia tragica di “In un’altra vita” (Michele Saran, 6/10)
KOROBU - FADING | BUILDING (Locomotiv, 2022)
new wave
Tutto a Bologna: l’ex Buzz Aldrin Gianlorenzo “Giallo” De Sanctis, evoluto elettronicamente in Hvsband, incontra due quarti dei My Own Parasite, Alessandro Rinaldi e Christian Battiferro, per dare luogo ai Korobu. Il risultato è “Fading | Building”, un disco di pop elettronico vagamente da fattucchieria stregonesca. “Weird Voices” è una cantilena da sabba synth-pop con fibrillazioni elettroniche, e “Roads” esaspera l'espressionismo in una canzone-raga tutta d’un fiato tra fitte percussive e un filo d’organo. L’andatura sinuosa di “Dropped Pleasure” incrocia alla buona i modi del trip-hop e del folk-rock. I numeri maggiori sono comunque “Tongue On Tongue”, canto mitologico-equatoriale post-Barrett a districarsi tra cadenze arcaiche e lamentazioni ultraterrene, e “Even Today”, di certo la più tumultuosa, dall’inciso minaccioso e insistente, la voce ancor più dissolta, ridotta a pochi lemmi. In bella evidenza in quest’opera prima di supergruppo a un tempo spaventosa e timorosa (album scorciato o Ep allungato?) sta l’elemento ritmico, lascivo quanto pervasivo. Un grado sotto viene l’influenza dello storico rock germanico, fin nella strumentazione d’antiquariato presa dall’East German National Broadcasting, che frutta anche un fenomenale rattrappimento del canto. Immagine di copertina a cura dell’ottimo street artist Ericailcane. Primo parto di una rinata Locomotiv Records (Michele Saran, 6/10)
GHOST HORSE - IL BENE COMUNE (Hora, 2022)
avant-jazz
Gli scafati Hobby Horse (Dan Kinzelman, sax, Joe Rehmer, basso, Stefano Tamborrino, batteria) raddoppiano a sestetto, con base tra Toscana e Umbria, a nome Ghost Horse con l’aggiunta di nuovi fiati (Glauco Benedetti, tuba, Filippo Vignato, trombone) e una chitarra baritona (Gabrio Baldacci) per l’opus numero due “Il bene comune”. Bel colpo, pur limitato a breve bozzetto, è il tema cool da jazz orchestrale di “Fulfillment” scartavetrato da informi trii e duetti in corsa. Di nuovo il cool-jazz, ma stavolta mixato con dinamiche post-rock, innerva “Q”, dapprima lentissimo e poi sprintato di ritmo grazie a un assolo di chitarra distorta e manipolata elettronicamente (e un suggestivo accompagnamento di ottoni mugghianti). L’album perde spinta negli ultimi pezzi - non è chiaro se volutamente o meno -, ossia “Warsaw”, introdotto da un lungo assolo di basso che strimpella il motivo da ballad sognante Glenn Miller-iana poi reso sarabanda misteriosa, e l’esteso pezzo eponimo, corale in mezzopiano con variazioni e stacchi, un numero di ambient-jazz per la verità un po’ svogliato, prossimo a sembrare una jam session suonicchiata a oltranza e non editata. Disco scarrocciante come il debutto “Trojan” (2019). Scaltro, elegante e pure innovativo quando fiati, chitarra e ritmi interagiscono, invece loffio e tendenzioso quando gigioneggia nella retromania, il vecchiume vintage (le big-band anni 30), un’ossessione pur ben mimetizzata sottopelle in un bel affiatamento di squadra. Tanto diseguale quanto splendida anche la cura d’insieme. Seguito di una collaborazione live con i Kill The Vultures (2021) (Michele Saran, 6/10)
JOYCUT - THEBLUWAVE (Pillow Case, 2022)
electronic
Il terzo “PiecesOfUsWhereLeftOnTheGround” (2013) aveva segnato un punto di svolta nel percorso dei JoyCut del potentino-bolognese Pasquale Pezzillo, dal bandismo wave degli inizi a una più sottile composizione strumentale orientata al ritmo. Ben nove anni dopo il mastodonte di 75 minuti “TheBluWave” completa la transizione verso un suono puramente elettronico, techno e post-techno. “TheFirstSong” e “KOMOREBI” sono costruzioni ponderose, minuti e minuti di progressioni di soffi, ritmi e abbellimenti, con un costrutto melodico quasi nullo. Più calibrata, varia e ricca la ben più breve “Darwin” (esotismo e coro alieno), ma fanno meglio anche i quasi 8 minuti di “BLUTOKYO”, un ribattere di synth su temi estatici, efficace nel rendere un’idea di suite progressiva, pur di nuovo generica e disinfettata. Idem per “Francis&Violet”, nube ambient-techno di droni organistici, stroboscopie vaganti, in tele cristalline di tastiere e percussioni. Una palese eccezione, sia pur breve, arriva con i cacofonici impulsi distorti di “Siberia”. Corroborato dagli ormai fidi Gael Califano e Giannicola Maccarinelli della nuova formazione, con cui aveva anche progettato la sonorizzazione dell’opera multimediale in sei atti “Komorebi” (2017) di Asato Sakamoto, è l’esito estremo della sensibilità ambientalista (“eco-wave”) di Pezzillo, prossimo al predicozzo post-new age senza peso Greta Thunberg-iano, dedicato come non mai prima nella sua quasi ventennale avventura ai possibili disastri dell’emergenza climatica, alla catastrofe a venire. E’ un concept sull’acqua in tutti i sensi, annacquato, sofisticato in sovraccarico come tattica per camuffare la scarsità musicale, con un dubbio: i momenti più rilevanti sono quelli sulla carta meno rilevanti? Il motivo di piano cullato da aurore elettroniche di “Novembre13”, che sembra uscito da “Another Green World” di Eno, e in parte pure “ThePlasticWhale”. Pezzi tremendi a compensare questo splendore: “Lisantrope”, “Antropocene”, “Ungaretti”. Vieppiù inutile la suddivisione in quattro parti se non per l’entusiasmante verbosità, “TheBluWave-TimesWhenSilenceIsAPoem-TheIceHasMelted-AndBleedingGlaciersFormOurTears”. Cd e Lp in confezione “sostenibile” eco-packaging (Michele Saran, 6/10)
VALERIA CALIANDRO - MINIATURE (Black Candy, 2022)
songwriter
Valeria Caliandro giunge a “Miniature”, un piccolo ciclo di elegie e dediche amorose orientate al suo pianoforte che ha nel ritornello dolente e angelico di “Miniatura” il suo esempio probabilmente più basico. A donare spessore sono semmai l’immagine marina di “Terraferma” con bonaccia di synth e archi, e l’incanto funereo nella lentissima “La finestra”, mentre per l’incorporea “Firmamento” per giunta utilizza una bossa intessuta dai pizzicati. Quando l’affare si fa tedioso, come in “Nuova York” e “Un cuore così bianco”, l’arrangiamento si rapprende in piccoli concertini di sfogo finale, ad aggiungere il tocco emotivo mancante. A dieci anni dall’aggressivo Tori Amos-iano esordio a nome Vilrouge, “Immacolato caos” (2012), la pratense accentua semmai la direttrice introversa del predecessore “La seducente assenza” (2017), che la produzione di Lorenzo Buzzigoli e, specialmente, l’apporto di strumentisti portentosi, Jacopo Ciani (viola, violino, sega e synth), Sara Soderi (violoncello, basso) e Diego Sapignoli (percussioni, batteria) traslano fin quasi alla musica da camera. Ne esce una personalità artistica complessa, una pianista dotta (si sentano “Overture” e “Interludio”), una poetessa discreta, una compositrice un po’ fissata con i tempi ternari, una cantautrice ingarbugliata di verboso lirismo. Alla fine della fiera ciò che conta, la musicalità, regge sì e no. Ha però una sua magia. Comparse in duetto di Paolo Benvegnù e Eugenio Sournia (Michele Saran, 5,5/10)
DJSTIVO - DOPO LA NOTTE (Totally Imported, 2022)
rhythm’n’blues
Riccardo Sindona, Lorenzo Locorotondo, Marco Conti e Pietro Vicentini formano i Djstivo nel 2018 a Milano. Quattro anni dopo presentano “Dopo la notte”, loro primo lungo (ma di soli 26 minuti in totale). Manifesti soul-hop di una qualche dirompenza sono “Corri” (cantilena con glockenspiel risvoltata a hip-hop nevrotico) e “Nella festa”. Quanto segue però tende a disattenderli: “Low” è una chillout con piano jazz, la sua seconda parte “Low II” e la più vispa, crooneristica “5 minuti” riportano semmai ai gruppi vocali anni 50, e lo stornello acustico di “Sotto ‘o sole vene e va” sembra riecheggiare persino Modugno e Murolo. “Una poesia celestiale” cerca se non altro di remixarli in un rave generico. Aperitivo, più che “digestivo”, analcolico e poche bollicine, strutturato con sentimentalismo d’annata, amore cieco per il passatismo e qualche spezia d’improvvisazione (la cartolina dixie di “New York ‘44”). Preceduto dall’Ep “Tranquillo” (2020) (Michele Saran, 5/10)
SEGNALI DI RIPRESA - SACRIFICE (Marche Di Fabbrica, 2022)
techno-rock
Base nelle Marche, i Segnali Di Ripresa iniziano incollando una quantità abnorme di adesivi sonori di fonti televisive, spezzoni di parlati, sigle e quant’altro, su un funk-wave strumentale di buona fattura nel debutto “Prima Visione” (2009). Il singolo “Navigatore” (2013) replica il trucco con le voci sintetiche dell’apparecchio, mentre l’Ep “Internet Cafe” (2014) abbandona quest’indole graffitara per spersonalizzarsi nella musica da ballo elettronica. Dopo un’altra pausa “Sacrifice” raduna più idee o abbozzi d’idee frattanto emersi. “Letters”, “Colours” e “Numbers” tentano - scarsamente - la strada del revival dell’italodisco più sintetica (“Colours” e “Numbers” l’impreziosiscono, sia pur schizofrenicamente, con brevi ma interessanti jam esotiche). Una componente ancor più esotica, al limite della posa indù, viene con l’uso del flauto in “Animals”, il rave di “Finale” e la dance fantasmagorica del pezzo eponimo (che ingloba di tutto, fino alla trap). Altra schizofrenia sta in “War”, canzone techno-trance alla Underworld che capitola in un assolo quasi glam. Preludio e interludio sono due creazioni che - non fossero ridotte a frammenti - avrebbero forse portato a qualche verace contaminazione electro-folk, ossia “Initiation”, un remix techno dello spaghetti prog, e “Lands”, innesto di ambient-techno e saltarello (“Roots” invece esagera la cosa di nuovo sulla pista da ballo). Primo disco in parte cantato di un trio (Claudio Baldassarri, voce e synth, con Alessandro D’Angelo, elettronica e flauto, e Vincenzo Sciarroni, chitarra) che nell’essenza però rimane un team strumentale continuamente indeciso se divertire o ricercare. Pastrocchiato, ma nel marasma d’incongruenze capitano anche degli intrusi: qualche sprazzo innovativo e scelte eccentriche di produzione (su tutte lacerti tagliuzzati di tabla e organetto). Video: “Colours” e “Roots” (Michele Saran, 5/10)
ENRICO FAZIO ENSEMBLE - GIROTONDO (We Insist!, 2022)
free improvisation
Enrico Fazio, contrabbassista, compositore e bandleader torinese, raduna una decina di giovani strumentisti sperimentali per un Ensemble dedito a un “Girotondo”: Mario Arcari (oboe), Giancarlo Locatelli (clarinetto basso), Alberto Mandarini (tromba), Francesco Aroni Vigone (sax contralto), Valeria Sturba (theremin), Adalberto Ferrari (clarinetto), Gianni Virone (flauto), Gianpiero Malfatto (eufonio), Emanuele Parrini (violino), Marco Tardito (sax baritono). I dieci si scambiano duetti in progressione, di modo che ciascuno strumentista improvvisi due volte, ma il risultato suona piuttosto spento nella sua rarefatta post-tonalità d’arredamento, da “La prostituta e il soldato” a “La cameriera e il giovanotto”, passando per “Il soldato e la cameriera”, tutti peraltro fin troppo estesi, al limite della logorrea di note: un po’ d’anima emerge solo dal più breve, lo scattante doppio monologo assurdista di clarinetto e flauto ne “Il marito e la donna galante” (e nella prefinale cacofonico di “L’attrice e il conte”). Deludente anche Sturba all’elettronica in “Il giovanotto e la giovane signora” e “La giovane signora e il marito”. Fazio inanella un nuovo progetto ai vari 5tet, 7tet e Critical Mass, ricalcato da “Reigen” (1897) di A. Schnitzler e fondato su un situazionismo anemico, tediosamente neutro. Lavoro minore pur di collegiale organicità (Michele Saran, 4,5/10)