“Era soprattutto la canzone di Tony Banks, poi però una volta ho suonato la linea di piano alla chitarra ed è venuta fuori così, come un uccello in volo sul mare. È una melodia tormentata e ogni volta che la suono mi fa sentire bene. Alla fine, ogni membro della band ha colorato gli spazi dello schizzo iniziale del pianoforte di Tony, è stato un prodotto di gruppo”. Il racconto che Steve Hackett ci ha fornito a proposito della genesi(s) della suite “Firth Of Fifth” spiega meglio di ogni altro giro di parole che cosa sia stato “Selling England By The Pound”: una straordinaria opera corale, una reazione a catena in cui ogni componente del gruppo, stimolato dai compagni, è riuscito a esprimere tutta la sua creatività. Un album storico, che in questi giorni compie mezzo secolo. Ci teniamo sul vago non a caso: la data originale di pubblicazione del disco è un vero mistero, al quale c’è anche chi ha dedicato un lungo approfondimento. Potrebbe essere stata il 28 settembre, come riportato da alcuni, oppure il 5 o il 12 ottobre, come sostengono altri. Tutti muniti di buone argomentazioni. Quel che è certo è che anche cinquant’anni dopo “Selling England By The Pound” resta un capolavoro del progressive e del rock tutto, un saggio di straordinaria creatività ad opera del quintetto inglese nato a Godalming, nel Surrey, sei anni prima. Cinquantatré minuti e quarantuno secondi di fantasia musicale, in perfetto equilibrio tra la vocazione prog di opere precedenti come “Nursery Crime” e “Foxtrot” e quella propensione più pop che sarebbe emersa successivamente, con l’avvicendamento al timone tra Peter Gabriel e Phil Collins, e qui già rintracciabile nel singolo – e futuro cavallo di battaglia live - “I Know What I Like”. Con un sound pieno e vibrante, migliorato nelle successive ristampe in cd del 1994 e del 2007.
Sente oggi il peso dei suoi cinquant’anni? Ovviamente sì. Sarebbe assurdo, ad esempio, pretendere di ricondurlo alla modernità post-progressiva di un “Red” dei King Crimson. “Selling England By The Pound” è una testimonianza storica di uno stile musicale rigorosamente sigillato negli anni 70, in tutte le sue colorate sfumature. Eppure, riascoltando quei brani, anche nelle recenti performance live del loro più indomito interprete, il succitato Hackett in versione solista, si riesce ancora a cogliere appieno la freschezza dello spirito creativo che animava quei Genesis a metà del cammino, sempre sotto la guida illuminata dell’arcangelo Gabriel, ma decisi a far emergere appieno tutte le loro individualità: da un ispiratissimo Tony Banks, che inserisce i primi suoni sintetizzati, pur senza abbandonare il pianoforte, il mellotron e l’onnipresente organo, a un più misurato Phil Collins, abile nel dosare sarabande ritmiche e fasi di quiete prima della tempesta, da un Mike Rutheford instancabile puntello sonoro col suo basso pulsante a un incontenibile Steve Hackett, che troverà proprio nello struggente volo di chitarra di “Firth Of Fifth” uno dei suoi assoli più memorabili.
E poi c’è lui, il maestro di cerimonie Peter Gabriel, che ha ulteriormente affinato la sua arte vocale e la sua abilità nel concepire testi immaginifici, in cui si mescolano storia, religione e attualità, dipingendo nella fattispecie un affresco a tinte fosche di una Britannia in piena decadenza, economica, politica e morale. È questo il vero filo rosso, se non vero e proprio concept, che tiene insieme gli otto brani, legati da un titolo, traducibile in italiano come "vendesi Inghilterra un tanto al chilo", tratto da un manifesto del Partito Laburista, che denunciava la "svendita" del paese per meri interessi finanziari ed economici.
Non a caso gli show della successiva tournée si apriranno con una sorta di breve monologo in cui Gabriel declama: “My name is Britannia, this is my song called Dancing with the moonlit knight” prima di intonare a cappella i versi “Can you tell me were my country lies?” (“Puoi dirmi dov'è il mio paese?”) interrogandosi sulla crisi del mito della Old Britannia che andava sfaldandosi in quegli anni, tra antiche glorie e recenti disfatte. Non certo una nostalgia nazionalista o revanscista, quella di Gabriel, quanto la denuncia di come la società consumistica stesse logorando il tessuto sociale britannico, inaridendone lo spirito. Insomma, quasi una versione più matura dell’utopia sixties del Village Green di kinksiana memoria e del suo impotente grido d’allarme contro la civiltà industriale. Così la mitologia delle battaglie medievali si trasforma in una rissa tra gang in lotta nell'East End di Londra (“The Battle Of Epping Forest”) per il predominio nei traffici illeciti, mentre l’eterna love-story tra Romeo e Giulietta, convertiti in due proletari della working class, prova a forzare gli argini angusti di un’alienante routine quotidiana nel buio di un “Cinema Show”. Ma il tema della svendita, materiale ed etica, dell'Inghilterra riaffiora in "Aisle Of Plenty" sotto forma di un bizzarro elenco di offerte speciali di un supermarket.
“Selling England By The Pound” è anche una perfetta dimostrazione del senso del divertissement lessicale di Gabriel, che si diletta a giocare con le parole in un versificare a volte all’apparenza incomprensibile, ma in realtà perfettamente decifrabile (in Italia aiutò in tal senso la presenza delle traduzioni di Armando Gallo nella versione originale del 33 giri). La succitata “Firth Of Fifth”, ad esempio, prende il nome dal fiordo sul quale si affaccia Edimburgo e dove sfocia il fiume scozzese Forth (pronunciato come “fourth”, quarto) così - con metafora fluviale del tempo che scorre - i Genesis immaginano la nascita di un nuovo fiume, il quinto (“Fifth”). In “Dancing With The Moonlit Knight”, invece, col termine "unifaun" si allude all’Inghilterra di un tempo, mentre "Queen of Maybe" gioca ironicamente sull'assonanza con "Queen of May". In bilico tra satira sociale e giochi lessicali (senza frontiere) anche la buffa vicenda di un giardiniere scansafatiche di nome Jacob che si accontenta di ciò che gli piace e a cui piace solo ciò che conosce (“I know what I like and I like what I know”); mentre la frase “It’s scrambled eggs” (“Abbiamo uova strapazzate”) in “Aisle Of Plenty” non è nient’altro che la sardonica replica alla domanda sulla cena lasciata in sospeso da “Supper’s Ready”, suite conclusiva di “Foxtrot” (1972).
In un album ineccepibile dalla prima all’ultima nota, non può non essere perfetta anche la copertina, la prima dei Genesis dai tempi di “Trespass” (1970) a non esser firmata dal fido illustratore Paul Whitehead. È il ritratto di una figura maschile dal colorito verdastro che sonnecchia su una panchina mentre una donna con ombrellino parasole gli tende la mano; a fianco della panchina un forcone e un tosaerba, dietro, due file parallele di siepi che si allungano verso l’orizzonte. Trattasi di “The Dream”, dipinto di Betty Swanwick, una “Miss Marple del pennello”, secondo Peter Gabriel, “piena di vita, molto acuta e maliziosa”. Impossibilitata a creare una nuova opera in poco tempo, la pittrice rielabora per i Genesis un suo quadro esposto alla Royal Academy a Londra, aggiungendovi una falciatrice, in riferimento al testo di “I Know What I Like”. Una iconografia assolutamente in linea con lo spirito narrativo del disco, destinata a rimanere tra le cover art più celebri della storia del rock.
I Genesis, con le loro sonorità romantiche e barocche, avevano già ampiamente dimostrato il loro talento. Ma nel 1973 riescono a consacrarsi in maniera definitiva, suggellando uno stile che resterà tra i più influenti e imitati dell’intera galassia prog. Più rifinito e accurato dei predecessori, anche grazie alla produzione di John Burns, “Selling England By The Pound” riuscirà a sfondare nel Regno Unito, dove scalerà le classifiche fino al terzo posto (con "I Know What I Like” primo singolo della band a varcare le soglie della Top 30), mentre negli Stati Uniti – come sempre assai poco ricettivi nei confronti del prog – si fermerà in settantesima posizione.
La critica, invece, quasi all’unanimità, gli tributerà entusiastici peana, destinati – come spesso si confà ai capolavori – ad aumentare con il passare degli anni, a scapito di quei pochi scettici di allora, che finiranno tardivamente col ravvedersi. E se è vero che quella stagione e quello spirito sembrano ormai sepolti sotto la naftalina del tempo, oggi più che mai, in tempi di Brexit e di pericolose derive sovraniste, il grido “Can you tell me were my country lies?” risuona forte come e più di allora.
(Claudio Fabretti)
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