AUTOMATIC FOR THE PEOPLE (1992)
DRIVE
“L’unica cosa da fare è non farci caso”. Così sentenziò Peter Buck, di fronte alla notizia di quei dieci milioni di copie venduti a fine ’92 che “messi in fila, coprirebbero la distanza tra Athens e Atlanta”, come gli aveva suggerito il fratello.
I Rem, insomma, restavano sempre i Rem. Non potevano mai diventare la risposta americana agli U2, come sognava la Warner. Così, invece di capitalizzare il trionfo di “Out Of Time” in giro per il globo, avevano deciso che per l’intero 1991 non avrebbero suonato dal vivo. Anche se poi si sarebbero concessi qualche apparizione selezionata, soprattutto in tv.
L’intransigenza, del resto, doveva pagare qualche pegno al compromesso. Così, dopo aver sfidato per anni Mtv e la logica commerciale dei videoclip, Stipe e compagni si ritrovavano con il video più trasmesso in America (“Losing My Religion”) e, dopo aver preso di mira le multinazionali con le loro campagne ecologiste, dovevano fare i conti con le esigenze commerciali di una delle più potenti major del mondo.
In bilico su un crinale sottile, i Rem fanno incetta di premi agli Mtv Music Awards, ma si rifiutano di esibirsi e ritirano i premi indossando vistose magliette con scritte tipo “Rainforests” (“Foreste pluviali”), “Love knows no color” (“L’amore non conosce colore”) e “Hand Gun Control (“Limitazione del porto d’armi”), come a voler sottolineare in ogni caso la loro diversità.
I quattro, insomma, non sembrano esattamente portati per divenire delle star. Buck, alle prese con una dolorosa crisi matrimoniale, mostra a più riprese la sua riluttanza ai rituali dello showbiz, come quando si presenta ai Grammy Awards in pigiama verde, facendo poi sapere di essersi recato alla premiazione solo per far contenta la madre. Berry inizia a dare segni di insofferenza e trascorre molto più tempo a pescare e a giocare a golf che in studio, dove le session per pianificare ogni dettaglio si fanno sempre più snervanti. Mills se la cava con l’ironia e si mostra il più affabile con i fan, ma certo non possiede il physique du rôle della rockstar. Più di tutti, però, a non reggere la pressione sembra proprio Michael Stipe. Sempre più introverso, lunatico e chiuso nel suo ruolo di “incompreso”, il cantante dei Rem appare trasformato anche fisicamente: capelli diradati, emaciato e magrissimo. Facendo due più due con i suoi orientamenti sessuali e con le sue battaglie a favore dei malati di Aids, in tanti alimenteranno voci su una sua presunta sieropositività o malattia, in alcuni casi dandolo addirittura per moribondo. E lui non farà niente per smentire, stringendosi in un rigoroso silenzio, che durerà per almeno due anni. Forse, era solo un modo per tenere desta l’attenzione dei media su una causa a cui teneva particolarmente. “La Casa Bianca fermi l’Aids” era la scritta che campeggiava sulla sua maglietta ai Grammy del 1992. Freddie Mercury era morto qualche mese prima.
Fatto sta che, a dispetto del giocoso titolo, ispirato dallo slogan di un ristorante soul food di Athens, “Automatic For The People” è decisamente l’album più pensoso e funereo della band georgiana. Il ripiegamento verso il formato-ballata si compie definitivamente, in una sorta di proseguimento ideale dell’album precedente. Ma stavolta non ci sono shiny happy people a snebbiare la mente. Perché temi come il dolore, la memoria e la morte sono sparsi a piene mani tra i versi di canzoni mai così cupe e introverse. Un’austerità quasi da camera si sposa a solenni arrangiamenti orchestrali, che portano la firma di John Paul Jones dei Led Zeppelin e Knox Chandler degli Psychedelic Furs. Così, se in passato a dare l’incipit ai dischi erano state quasi sempre song ritmate ed energiche, stavolta il registro cambia bruscamente, nel nitore spettrale degli arpeggi di “Drive”. Un solo di chitarra orchestrale che resterà nella leggenda e che nasce come omaggio a Brian May dei Queen: “Si tratta di una chitarra Les Paul collegata a un grande Marshall, sovraincisa sei volte e suonata con una monetina”, spiegherà Buck. Attorno a quello stratagemma si snoda una litania scarna e commovente, che Stipe declama con piglio fatalista, rifratto dall’eco, prima che una furiosa chitarra elettrica e una melodrammatica sezione d’archi prendano il sopravvento.
“Drive” è l’archetipo di questo nuovo sound dei Rem, prevalentemente acustico, dimesso, quasi mai uptempo. Paradossale il titolo, che esprime movimento in un brano che invece gira intorno a se stesso, restando fondamentalmente statico. E molto significativo anche il video, con lo stage-diving di Stipe tra le mani imploranti di una folla compatta, come un corpo unico: una rappresentazione plastica del nuovo rapporto tra l’icona pop e il suo pubblico.
Il testo, invece, risulta piuttosto eccentrico rispetto ai temi centrali dell’album: Stipe rivolge una nuova esortazione ai kids a non farsi ingannare dai politici, tracciando però un quadro non esattamente idilliaco della condizione giovanile, tra droghe e degrado.
Smack, crack, bushwhacked
Tie another one to the racks, baby
Hey kids, rock and roll
Nobody tells you where to go, baby
What if I ride? What if you walk?
What if you rock around the clock?
Tick-tock. Tick-tock
What if you did? What if you walk?
What if you tried to get off, baby?
Hey, kids, where are you?
Nobody tells you what to do, baby
Hey kids, shake a leg
Maybe you’re crazy in the head, baby
Eroina, crack, ti hanno teso un’imboscata
Metti qualcun altro alla gogna, baby
Ehi ragazzi, ballate il rock’n’roll
Nessuno ti dice dove andare, baby
E se io guidassi? E se tu camminassi?
E se tu ballassi tutta la notte?
Tic-toc, Tic-toc
E se tu lo facessi? E se tu camminassi?
E se cercassi di scendere, baby?
Ehi ragazzi, dove siete?
Nessuno ti dice cosa fare, baby
Ehi, ragazzi, datevi una mossa
Forse sei tutto matto, baby
Versi che tornano a essere piuttosto sconnessi ed enigmatici, con un accenno ironico a “Rock On”, l’inno glam-rock di David Essex, più assonanze onomatopeiche e giochi di parole, come “bushwhacked”, che sta per “darsi alla macchia” ma si riferisce alle trappole dell’era Bush: “Stipe says: don’t get bushwhacked” fu l’annuncio che il cantante fece pubblicare alla vigilia delle elezioni poi perse da Dukakis nel 1988. Tre anni dopo, il verso sarà invece una sorta di auspicio fortunato per il trionfo di Bill Clinton, che riporterà i Democratici alla Casa Bianca dopo 12 anni. The Times They Are a-Changin’.
TRY NOT TO BREATHE
Un respiro trattenuto. Per cercare di immaginare, forse, come sarà la morte. “Try Not To Breathe” introduce uno dei temi-cardine del disco, attraverso l’accorato testamento spirituale di un anziano, che si prepara alla fine, con la consapevolezza di aver vissuto un’epoca e con un unico desiderio: quello di essere ricordato.
I will try not to breathe
I can hold my head still with my hands at my knees
These eyes are the eyes of the old, shiver and fold
I will try not to breathe
This decision is mine. I have lived a full life
And these are the eyes that I want you to remember. Oh
Proverò a non respirare
Posso tenermi la testa ferma tra le ginocchia con le mani
Questi sono gli occhi di un vecchio, tremolanti e piegati
Proverò a non respirare
Sta a me decidere. Ho vissuto una vita piena
Sono questi gli occhi che voglio che tu ricordi. Oh
La serenità è quella di chi giunge al capolinea dopo una lunga strada, con la coscienza di aver “vissuto una vita piena” e di voler ora non essere più d’ingombro. Resta però da affrontare l’ultimo brivido: bisogna trattenere il respiro, per vincere quell’angoscia che prelude all’inabissamento finale. Con la speranza della memoria, come ideale ponte tra questo e l’altro mondo.
I need something to fly over my grave again
I need something to breathe
I will try not to burden you
I can hold these inside. I will hold my breath
Until all these shivers subside
Just look in my eyes
I will try not to worry you
I have seen things that you will never see
Leave it to memory me. I shudder to breathe
Ho bisogno di qualcosa che voli ancora sopra la mia tomba
Ho bisogno di qualcosa per respirare
Proverò a non esserti di peso
Posso tenere tutto dentro. Tratterrò il respiro
Fino a quando tutti questi brividi finiranno
Guardami negli occhi
Proverò a non farti preoccupare
Ho visto cose che tu non vedrai mai
Lasciamele in ricordo. Tremo a respirare
Una meditazione contrita, a tempo di valzer, tra nuove, superbe armonie vocali dell’asse Stipe-Mills, con Buck che sfodera una delle sue partiture acustiche più commoventi, appena increspata dai feedback nel bridge e da una voce distorta in lontananza, con una solenne frase d’organo a suggellare la fine. Difficile immaginare – com’è stato fatto da alcune parti – un riferimento diretto alla vicenda del Dottor Morte, Jack Kevorkian, strenuo assertore dell’eutanasia. Il testo suggerisce invece una riflessione più ad ampio raggio su mortalità e memoria, attraverso un ritratto di senilità al crepuscolo.
Ma se il tema del brano è “metafisico”, l’origine del titolo è ben più prosaica: durante le registrazioni, infatti, Buck era stato ripreso dall’ingegnere del suono John Keane per aver tenuto il microfono della chitarra troppo vicino alla bocca. “Ok, proverò a non respirare”, era stata la sua risposta.
THE SIDEWINDER SLEEPS TONITE
Dopo quell’abisso di malinconia mozzafiato, Stipe riemerge dalle tenebre e ritrova la radiosità perduta. Almeno con questo euforico intermezzo yodel, che nel titolo fa il verso all’evergreen di origine africana “The Lion Sleeps Tonight”, portato al successo dai Tokens negli anni Sessanta. Un riferimento che rimane anche nel verso iniziale, con un serpente al posto del leone, ma anche con uno scenario decisamente differente. Il protagonista della storia, infatti, è un senzatetto che “dorme arrotolato”, proprio come un serpente (ma l’allusione potrebbe essere anche al filo attorcigliato del telefono).
This here is the place I will be staying
There isn’t a number. You can call the pay phone
Let it ring a long, long, long, long time
If I don’t pick up, hang up, call back, let it ring some more
If I don’t pick up, pick up... The sidewinder sleeps, sleeps, sleeps in a coil
Call me if you try to wake her up. Call me if you try to wake her
Questo è il posto dove starò
Non c’è un numero di telefono. Puoi chiamare la cabina
Lascialo squillare per molto, molto, molto, molto tempo
Se non rispondo, riattacca, richiama, lascia squillare ancora un po’
Se non rispondo, rispondo... Il serpente dorme, dorme, dorme arrotolato
Chiamami se cerchi di svegliarla. Chiamami se cerchi di svegliarla
Dopo “Talk About The Passion”, un’altra istantanea di vite al margine, con accenti però molto più scanzonati. Se non proprio deliranti. Come ricorda Buckley, il ritornello (“Call me if you try to wake her up”) “fu volutamente scritto da Stipe perché risultasse incomprensibile e, con le sue nove sillabe ficcate in sette tempi, ricorda il delirio di un pazzo”. In un clima festoso da filastrocca, scatenato dagli archi, dall’organo swingante e dai cori, il sidewinder respinge al mittente le zuppe (“Baby, instant soup doesn’t really grab me”) invocando qualcosa di “più sostanzioso” (“I need something more substantial”). Uno stravagante mix di richieste che mescola fantasia e realtà.
A can of beans or blackeyed peas, some Nescafe and ice
A candy bar, a falling star, or a reading of Doctor Seuss
Una scatola di fagioli o di piselli, un po’ di Nescafé con ghiaccio
Una barretta, una stella cadente o una lettura del Dottor Seuss
Anche il serpente è un simbolo di morte, oltre che di peccato, ma qui Stipe preferisce giocare su un testo mordace e pungente, rifuggendo ogni retorica e setacciando, ancora una volta, i ricordi d’infanzia: il Dottor Seuss è infatti un noto autore di libri per bambini, che inventò personaggi come il Grinch o The Cat In The Hat (citato nella strofa successiva del brano) e che sarà prossimamente interpretato sul grande schermo da Johnny Depp in un apposito biopic.
EVERYBODY HURTS
Ma la festa finisce subito. Perché con “Everybody Hurts” il disco ripiega nuovamente nella narrazione introspettiva di dolore e desolazione. Le esili terzine del piano elettrico sorreggono una melodia robusta, intonata da Stipe con piglio da soulman e con la potenza lacerante di un lamento funebre, fino al culmine del pathos, con l’irruzione degli archi e della chitarra elettrica. Dal testo, però, trapela un messaggio di speranza, un invito a non mollare, di fronte alla sofferenza e alla disperazione che a volte possono spingere anche a farla finita. Perché la notte non dura per sempre. “Mia sorella è insegnante, e una ragazza che conosceva, di 15 anni, aveva tentato il suicidio”, spiegherà Stipe a Robert Hilburn del Los Angeles Times, svelando lo spunto autobiografico del testo. Uno spirito che – come ricorda Buckley - riecheggia quello di “Don’t Give Up”, il celebre duetto tra Peter Gabriel e Kate Bush del 1986, ma che riporta alla mente – non si sa quanto consapevolmente – anche un altro celebre suicidio della storia del rock, quello inscenato da Ziggy Stardust in “Rock’n’Roll Suicide”. “Just turn on with me, and you’re not alone”, e “gimme your hands, ’cause you’re wonderful”, cantava Bowie. “No, no, no, you’re not alone” gli fa eco Stipe. Ma la grandeur di quell’inno glam è stemperata in un’austerità quasi cameristica. Tutto il dolore del mondo condensato in pochi, semplicissimi versi.
When the day is long and the night, the night is yours alone
When you’re sure you’ve had enough of this life, well hang on
Don’t let yourself go, everybody cries and everybody hurts sometimes
[...]
Everybody hurts. Take comfort in your friends
Everybody hurts. Don’t throw your hand. Oh, no. Don’t throw your hand
If you feel like you’re alone, no, no, no, you are not alone
Quando il giorno è lungo e la notte, la notte sei solo con te stesso
Quando sei certo di averne fin sopra i capelli di questa vita, beh, tieni duro
Non mollare, tutti piangono e tutti soffrono a volte
[...]
Tutti soffrono. Cerca conforto nei tuoi amici
Tutti soffrono. Non gettare la spugna. Oh, no. Non arrenderti
Se pensi di essere solo, no, no, no, tu non sei solo
Un testo di una semplicità disarmante, rispetto agli standard del primo Stipe, unito a una musica mai così zuccherosa, che declina tutte le convenzioni del pop melodico con l’estetica remmiana. Funzionerà, nonostante le insidie. “Non ho paura di esprimere le mie emozioni, ma ogni tanto si corre il rischio di apparire insulsi o sdolcinati”, ammette Stipe a Paul Zollo. “Non mi piace essere lagnoso nelle canzoni. E non mi piace essere mal interpretato. Per esempio “Everybody Hurts” fu proprio un bel colpo, perché avrebbe potuto facilmente essere considerata patetica, sdolcinata, languida e sciocca, ma per qualche motivo alla maggior parte delle persone non sembra così”.
SWEETNESS FOLLOWS
Un altro commosso requiem, sotto forma di “un vecchio blues con strani accordi jazz infilati nel mezzo”, secondo la definizione di Buck. Dopo il tenebroso tema di “New Orleans Instrumental No. 1”, “Sweetness Follows” acuisce l’intensità, sfregiando la melodia centrale con i feedback della chitarra e i graffi di un violoncello distorto (a cura di Chandler), mentre l’organo a pompa incede solenne.
Torna il tema della morte, ma questa volta nell’ottica della perdita per chi rimane. Il racconto di un figlio che deve dare sepoltura ai genitori è lo spunto per una riflessione sulla memoria e sul rischio dell’insensibilità.
Readying to bury your father and your mother
What did you think when you lost another?
I used to wonder why did you bother
Distanced from one, blind to the other?
Listen here my sister and my brother
What would you care if you lost the other?
I always wonder why did we bother
Distanced from one, deaf to the other
Oh, oh, but sweetness follows
Pronto a seppellire tuo padre e tua madre
Che cosa hai pensato quando hai perso qualcun altro?
Mi sono sempre chiesto perché ti preoccupavi
Distante da uno, cieco verso l’altro?
Ascoltate qui, fratello e sorella
Cosa ve ne importerebbe se uno perdesse l’altro?
Mi sono sempre chiesto perché vi preoccupavate
Distante da uno, sordo verso l’altro
Oh, oh, ma la dolcezza arriverà
Ancora una volta, dunque, l’esortazione è a liberarsi del cinismo e dell’indifferenza, che ci rendono “distanti”, “ciechi” e “sordi”, anche all’interno di un nucleo familiare. Un invito a recuperare la pienezza degli affetti. La perdita di una persona cara può così divenire l’occasione per ritrovare, citando Francesco De Gregori, quella dolcezza cui tutti abbiamo diritto.
“Sweetness Follows” potrebbe apparire un episodio minore nell’album, ma si svela, al contrario, come una delle sue tracce più rappresentative, perché ne incarna appieno lo spirito, spettrale e dolente, eppure legato a un filo di speranza.
MONTY GOT A RAW DEAL
Il primo (e meno celebre) dei due omaggi cinematografici presenti nell’album. “Monty” è l’affettuoso diminutivo di Montgomery Clift, il noto attore americano “bello e dannato” degli anni Cinquanta, già ricordato dai Clash nell’album “London Calling”. Un personaggio che – agli occhi di Stipe – incarna sì la fama e il mito, ma anche la dissipazione del successo tra alcol e droghe, nonché un’altra vittima di quel maccartismo già stigmatizzato in “Exhuming McCarthy”. Il suo destino è stato segnato e alla fine “gli è andata storta”: “Monty Got A Raw Deal”. Ne scaturisce un bozzetto che inizia composto e austero, con l’intro classicamente arpeggiata di Buck, e lambisce poi sfumature esotiche con le tinte orientaleggianti del refrain e i ricami stranianti di un bouzouki.
Come su “Man On The Moon”, l’espediente narrativo è una sorta di dialogo immaginario col protagonista.
Monty, this seems strange to me
The movies had that movie thing
But nonsense has a welcome ring
And heroes don’t come easy
Now, nonsense isn’t new to me
I know my head, I know my feet
But mischief knocked me in the knees
Said, just let go. Just let go
Monty, tutto ciò mi sembra strano
I film sono film
Ma il nonsense ha qualcosa di piacevole
E gli eroi non si trovano facilmente
Ora, il nonsense non mi è nuovo
Mi conosco dalla testa ai piedi
Ma i guai mi hanno preso alle ginocchia
Lascia stare, ti dico. Lascia stare
Al di là dell’omaggio, trapela un’empatia che spinge all’immedesimazione. Ironicamente, Stipe passa alla prima persona ammettendo di conoscere bene l’arte del nonsense e ribadendo tutte le insidie dello stardom. Così alla rievocazione del destino infausto di Monty (“buried in the sand”, sepolto nella sabbia, e “strung up in a tree”, appeso a un albero) si unisce una sorta di (auto?)ammonimento a non farsi accecare dai fuochi fatui della celebrità.
You don’t owe me anything
You don’t want this sympathy [waste your breath]
Don’t you waste your breath [waste your breath]
For the silver screen
Tu non mi devi niente
Tu non vuoi questa empatia [sprecare il tuo fiato]
Non sprecare il tuo fiato [sprecare il tuo fiato]
Per il cinema
Non c’è bisogno di eroi, insomma, sembra suggerire Stipe, sottolineando una volta di più il disagio per gli obblighi della celebrità e per l’abbraccio ossessivo e soffocante del pubblico. Un pubblico che i Rem stavano incrementando canzone dopo canzone.
IGNORELAND
Il vero corpo estraneo del disco. Tutto il furore rock sopito si ridesta all’improvviso per un’invettiva politica sguaiata contro l’era repubblicana di Reagan e Bush, giunta ormai al crepuscolo. È l’unico episodio dichiaratamente politico dell’intero lavoro (se si eccettua il gioco di parole “bushwhacked” in “Drive”) e, inserito oltre tutto all’ultimo minuto, finisce con lo stonare. Troppa la foga, troppa l’irruenza nel voler sparare tutte le cartucce senza più metafore nella fondina. Con quella linea di basso distorto che doveva menare le danze e invece nel missaggio finale era stata relegata sul fondo.
Destinatari della sparata non erano solo gli odiati Repubblicani, ma anche lo stesso pubblico statunitense, succube della propaganda televisiva. Per colpa loro l’America era diventata “Ignoreland”, la terra dell’ignoranza.
These bastards stole their power from the victims of the Us v. Them years
Wrecking all things virtuous and true
The undermining social democratic downhill slide into abysmal
Lost lamb off the precipice into the trickle down runoff pool
Questi bastardi hanno rubato il potere dalle vittime degli anni del “Noi contro Loro”
Distruggendo tutto ciò che era virtuoso e onesto
La spinta social-democratica è finita giù negli abissi
Come un agnello perduto spinto nel burrone dalla teoria del “trickle down”
Secondo Stipe, Reagan e Bush hanno sfruttato la Guerra Fredda per conservare il potere, favorendo la corruzione e gli interessi del grande capitale. “Trikle down” è infatti un gioco di parole che evoca una vecchia politica economica repubblicana, secondo la quale aumentando la ricchezza nelle classi alte, questa poi ridiscende automaticamente fino agli strati più poveri della popolazione.
Uno Stipe furibondo snocciola tutti gli anni delle elezioni (1980, ’84, ’88, ’92) imprecando contro “the sound-bite gluttons”, i “coglioni che hanno abboccato al richiamo”. Almeno per il 1992, però, si sbaglierà...
Più sfogo liberatorio, che inno politico alla maniera di “Cuyahoga” o “Begin The Begin”, “Ignoreland” termina con una sorta di auto-difesa.
I know that this is vitriol. No solution, spleen-venting
But I feel better having screamed. Don’t you?
So che è vetriolo. Nessuna soluzione, solo uno sfogo
Ma mi sento meglio ora che ho urlato. E tu?
Ma, al di là delle giustificazioni, resta un brano fuori posto all’interno di una scaletta della quale non doveva far parte. La stessa band, di fatto, finirà col prenderne le distanze.
MAN ON THE MOON
Dopo l’eccentrico pannello d’amor perverso in salsa jazz di “Star Me Kitten”, ecco un nuovo omaggio. Il destinatario è un personaggio meno celebre di Montgomery Clift ma che proprio attraverso questa canzone sarà riscoperto e rivalutato, fino all’omonimo film “Man On The Moon”, diretto da Milos Forman e interpretato da uno strepitoso Jim Carrey, nel quale il brano dei Rem fungerà anche da colonna sonora.
L’uomo sulla luna è Andy Kaufman, geniale e sfortunato comico (ma lui preferiva definirsi song and dance man) degli anni Sessanta, specializzato in un demenziale anti-humor che ha più di un punto di contatto con l’amato nonsense di Michael Stipe. La band georgiana gli dedica un ricordo affettuoso e stralunato, che – come ricorda Milena Ferrante – era nato con la stessa imprevedibilità degli scherzi di Kaufman: “Berry stava semplicemente strimpellando un accordo di Do sulla chitarra, quando, mentre si voltava per prendere una birra, la mano gli era scivolata al terzo tasto. Gli altri ne furono talmente entusiasti che la sequenza fu utilizzata per la strofa”.
Il folk-rock scintillante di qualche album prima è la cornice ideale per una ballata che suona già “classica” al primo ascolto (e lo resterà, divenendo anche un must dei concerti), con le sue movenze sornione, che danzano tra samba e calypso, con l’interpretazione beffardamente elvisiana di Stipe e con l’impennata solistica di Buck ad aggiungere un tocco di epicità in più.
Proprio la parodia di Elvis era una specialità dell’incompreso Kaufman, la cui sconcertante collezione di successi e flop viene ripercorsa nel testo. Non senza una punta di amaro disincanto sul “gioco della vita” e sulle sue verità illusorie.
Mott the Hoople and the game of Life. Yeah, yeah, yeah, yeah
Andy Kaufman in the wrestling match. Yeah, yeah, yeah, yeah
Monopoly, Twenty one, checkers, and chess. Yeah, yeah, yeah, yeah
Mister Fred Blassie in a breakfast mess. Yeah, yeah, yeah, yeah
Let’s play Twister, let’s play Risk. Yeah, yeah, yeah, yeah
See you in heaven if you make the list. Yeah, yeah, yeah, yeah
Hey, Andy did you hear about this one? Tell me, are you locked in the punch?
Hey Andy are you goofing on Elvis? Hey, baby. Are we losing touch?
If you believed they put a man on the moon, man on the moon
If you believe there’s nothing up my sleeve, then nothing is cool
I Mott The Hoople e il gioco della vita... (già...)
Andy Kaufman nell’incontro di wrestling... (già...)
Monopoli, Black-Jack, dama e scacchi... (già...)
Il signor Fred Blassie nel casino della colazione... (già...)
Giochiamo a Twister, giochiamo a Risiko... (già...)
Ci vediamo in paradiso, se ce la fai a entrare nella lista... (già...)
Hey Andy, questa l’avevi mai sentita? Dimmi, sei rimasto stretto nella morsa?
Hey Andy, stai dicendo buffonate su Elvis? Hey, baby. Stiamo perdendo il controllo?
Se hai creduto che hanno portato un uomo sulla Luna, un uomo sulla Luna...
Se credi che non ti stia nascondendo niente, allora non ci siamo proprio...
A parte la misteriosa presenza dei Mott The Hoople, cult-band britannica dell’era glam resa celebre dall’inno generazionale “All The Young Dudes”, firmato da Bowie, gli altri riferimenti alludono a eventi reali della vita di Kaufman, come le parodie di Elvis degli esordi e la memorabile epopea del wrestling: con la complicità di Fred Blassie, si dichiarò sul ring primo campione inter-sessi, ingaggiando dal 1979 al 1983 una sfilza di quattrocento combattimenti (reali, a quanto pare) con donne! Nella riesumazione della vecchia tesi secondo cui l’uomo sulla Luna sarebbe solo una leggenda metropolitana, usata come arma di propaganda al tempo della Guerra Fredda, Stipe sembra invece voler ammonire ancora una volta sui pericoli della mistificazione, inserendo una questione politica all’interno di una canzone sempre in bilico tra realtà e nonsense, in cui si affacciano nuove celebrità in ordine sparso: Mosè, Isaac Newton, Charles Darwin...
Un omaggio sentito e commosso, in ogni caso, che proseguirà negli anni, quando Stipe ribadirà la profonda influenza del non-humor di Kaufman sulla sua poetica fuori dagli schemi.
NIGHTSWIMMING
C’erano una volta, ad Athens, quattro ragazzi, un gruppo di amici e serate goliardiche, che si concludevano con nuotate sotto le stelle, nelle acque placide del lago Ball Pump. “Era a pochi chilometri dalla città, ci andavamo con pochi amici a fare il bagno nudi dopo la chiusura dei locali. C’eravamo noi, Paul Butchart, DeLoris, i Love Tractor e la ragazza di cui parlava “Camera”, Carol Levy. Tra il 1979 e il 1981 c’erano soltanto 50-75 persone interessate a questa musica. Andavamo alle feste, andavamo nei locali e andavamo al Ball Pump, dove c’erano sempre alcune di quelle stesse 50 persone”. Era il Perfect Circle dei tempi della giovinezza e dell’innocenza. Prima che gli spettri delle droghe e dell’Aids si allungassero su una generazione intera.
Nel ricordo di Mills, riportato da Buckley, c’è l’essenza di “Nightswimming”, una ballata sospesa, di memorie e nostalgia.
Nightswimming deserves a quiet night
The photograph on the dashboard, taken years ago
Turned around backwards so the windshield shows
Every streetlight reveals the picture in reverse
Still, it’s so much clearer
I forgot my shirt at the water’s edge
The moon is low tonight
Per una nuotata notturna ci vuole una notte tranquilla
La foto sul cruscotto, scattata anni fa
Capovolta in modo da riflettersi sul parabrezza
Ogni lampione rivela la foto al contrario
Ma è così chiara lo stesso
Ho dimenticato la camicia sulla riva
La luna è bassa stanotte
La prima sequenza è idilliaca: la notte quieta, illuminata solo da sparute luci di lampioni, le acque appena increspate del lago e quella vecchia foto sul cruscotto. Ma sono ricordi ingialliti, ormai, dal logorio dell’età adulta e di tutte le sue paure. Quanto costa superare i trent’anni e mettersi alle spalle quei giorni di libertà e spensieratezza? Qual è il prezzo di una celebrità che ha stravolto per sempre abitudini e stili di vita?
Nightswimming deserves a quiet night
I’m not sure all these people understand
It’s not like years ago
The fear of getting caught
Of recklessness and water
They cannot see me naked
These things, they go away
Replaced by everyday
Per una nuotata notturna ci vuole una notte tranquilla
Non sono sicuro che tutta questa gente capisca
Non è più come anni fa
La paura di venire sorpresi
Dell’avventatezza e dell’acqua
Non possono vedermi nudo
Tutte queste cose passano
Rimpiazzate dalla quotidianità
Una linea di piano ciclica, discendente, che ricorda proprio quella di “Perfect Circle”, è l’architrave di una ballata resa ancor più struggente dal distendersi soffuso e fremente degli archi e dall’interpretazione commossa di Stipe. Scritta nel 1990, col titolo di “Night Swim”, doveva far parte di “Out Of Time”, ma ha trovato la sua dimensione ideale tra i solchi oscuri e malinconici di “Automatic For The People”.
Vogliamo ricordarli così, i quattro amici di Athens: felici ed emozionati, mentre nuotano nel lago sotto la luna, ancora ignari del futuro luminoso che li attende.
FIND THE RIVER
Quasi una serenata country alla Fred Neil. In punta di piano, con un coro solenne e il respiro della fisarmonica a donare profondità. La scomparsa di John Seawright, poeta di Athens morto in seguito a un’emorragia cerebrale mentre il gruppo era in tour, ispira un epitaffio acustico di palpitante intensità. Un inno alla bellezza e alla vita, dove la ricerca del fiume è l’ennesima metafora esistenziale.
The river to the ocean goes
A fortune for the undertow
None of this is going my way
There is nothing left to throw
Of ginger, lemon, indigo
Coriander stem and rose of hay
Strength and courage overrides
The privileged and weary eyes
Of river poet search naivete
Pick up here and chase the ride
The river empties to the tide
All of this is coming your way
Il fiume va verso l’oceano
Una fortuna per la risacca
Niente di tutto questo va dalla mia parte
Non c’è più niente da gettare
Di zenzero, limone o indaco
Gambi di coriandolo e rose di fieno
La forza e il coraggio superano
Gli occhi stanchi e privilegiati
Del poeta del fiume che cerca la semplicità
Sali qui e parti per il viaggio
Il fiume si adatta alla marea
Tutto va dalla tua parte
Ancora una volta le suggestioni della natura si mescolano alla memoria e alle riflessioni. Un flusso di ricordi, colori, profumi. È la ricerca dell’infinito, quell’anelito eterno che spinge ogni individuo all’illuminazione spirituale. Un percorso ineluttabile, come quello del fiume verso l’Oceano.
La registrazione finale è praticamente la versione demo del pezzo. “Cerchiamo di fare delle strofe che siano interessanti come i ritornelli”, racconta Mills a Buckley. “Anche se non avevamo ancora testo e melodia, volevamo che fosse ugualmente interessante. Credo sia per questo che nelle nostre canzoni c’è tanta profondità”.
E in effetti è proprio questo il segreto di “Automatic For The People”: canzoni certosinamente curate dal punto di vista musicale, già formate e vibranti ancor prima di acquisire testi e ritornelli. Un disco che, ad ascoltarlo oggi, sembra un greatest hits, per quanti classici riesce a contenere in una sola tracklist. Eppure non c’era una hit spacca-classifiche come “Losing My Religion” o un refrain appiccicoso come quello di “Shiny Happy People”. La scelta deliberatamente anticommerciale di un singolo come “Drive” testimoniava l’esigenza dei Georgiani di mitigare l’euforia del successo con una riflessione più profonda sulla loro identità. Come scrive Paul Evans su Rolling Stone, “più tristi e più saggi, ora, i sovversivi di Athens rivelano una visione della realtà più oscura, che però brilla di una nuova e complessa bellezza... Un mondo interiore fatto di ricordi, perdite e struggimento”.
Una dimensione più sobria e austera, dunque, di cui gli scatti in bianco e nero di Anton Corbijn inseriti nel booklet saranno la trasposizione estetica più fedele. Ma anche il loro pubblico era più maturo, e capì. Pur vendendo in America quasi la metà delle copie di “Out Of Time”, il disco si piazzerà subito al n. 2 delle chart Usa, fermato solo dal gigante country Garth Brooks, e spopolerà anche nel resto del mondo, guadagnando la vetta delle classifiche britanniche e la Top Ten in mezza Europa, oltre che in Canada e Australia. Anche la critica lo incorona. Rolling Stone gli attribuisce le ambitissime cinque stelle, riviste britanniche come Nme, Select e Vox lo benedicono col massimo dei voti. Anche per Buck e Mills resterà il miglior album in assoluto della band. Certamente è il più compatto e armonioso. Non riconoscerne la centralità nel grande romanzo americano dei Rem, più che miopia, è malafede.