30/09/2014

Marissa Nadler

Superbudda, Torino


Riecco Marissa, finalmente.
In città non la si vedeva da un lustro abbondante: nemmeno un intervallo di quelli incolmabili, eppure di capitoli nuovi la sua carriera ne ha messi in fila diversi altri, nel frattempo. Dal tour di “Little Hells”, già tra le pagine più audaci e colorate del suo catalogo, la sirena di Boston si è concessa il lusso di una ricca vacanza verso lidi più radiosamente country-pop (l’eponimo del 2011), ha ritrattato a tempo di record con un ritorno pure convincente alla sua cifra più classica (“The Sister”) per poi abbracciare una felice soluzione di compromesso tra essenzialità gotica ed eleganti tessiture armoniche (il recente “July”), trovando il tempo – come se non bastasse – per un paio di uscite minori, riletture di brani altrui non di rado curiose ma mai davvero imprescindibili.
Il merito di questa sua nuova apparizione a Torino, in coda a una serie di date italiane in località decisamente più vivaci in fatto di concerti, va attribuito in toto al team che cura da un paio di stagioni la rassegna delle “Rowing Sessions” e che ha trovato nell’accogliente loft del Superbudda (all’interno degli storici magazzini Docks Dora) la casa ideale per le proprie proposte musicali, un barbaglio di luce che fa ben sperare nella fine di questo prolungato inverno live torinese. Indipendentemente dall’astinenza dei più appassionati, la risposta del pubblico si è fatta sentire forte e chiara nonostante la serata di pioggia battente: poco meno di duecento i presenti, spazi saturati con discreto anticipo e, almeno dalle quattro chiacchiere scambiate prima dell’inizio, molti profani arrivati sin qui sulla fiducia, ignari della caratura dell’artista coinvolta ma pronti in tutto e per tutto a lasciarsi stupire.

marissanadler_iImmaginavamo più reduci dall’ultima apparizione in zona della trentatreenne americana, anche perché in quella circostanza – primavera 2009, Spazio 211 – si rasentarono gli estremi del puro miracolo. Avrebbe dovuto trattarsi di una cosa a due con Greg Weeks, suo produttore in “Songs III: Bird On The Water” e compagno (con Ilya E. Monosov) nella meravigliosa, arcana parentesi del progetto Mountain Home, ma il leader degli Espers diede buca. La stessa Marissa, messa al tappeto da un’influenza di quelle toste, si presentò sul palco in condizioni a dir poco precarie e con relativa scorta di fazzoletti sempre a portata di mano, dopo aver fatto la spola tra bagno e camerino un’infinità di volte. Beh, a dispetto di queste premesse così poco incoraggianti, la cantante sfoderò una prova da pelle d’oca, indimenticabile per intensità e pulizia, senza risparmiarsi neanche un po’.
E’ con questo ricordo piacevole, custodito in un piccolo scomparto della nostra memoria da elefanti e rispolverato a piacimento ogniqualvolta ci vada di tessere le lodi della Nadler con un suo potenziale estimatore, che arriviamo sorridenti al Superbudda, pronti a bissare e rinverdire quel bagaglio di emozioni ipotizzando contingenze finalmente ottimali. Che tuttavia non ci sono. Marissa, ci viene riferito, è arrivata tardi, stanchissima, da Milano, dove si è prodigata in svariati impegni promozionali e di moda. Ha da poco chiuso un soundcheck dei suoi, distinguendosi anche per il perfezionismo prossimo al maniacale nella sfera tecnica. Che una musicista di classe purissima come lei non voglia lasciare nulla al caso lo interpretiamo comunque come l’ennesimo buon auspicio.

marissanadler_ivE poi si comincia. Le luci vengono abbassate sino alla modalità “catacomba”, su espressa richiesta della statunitense. Ad accompagnarla, bellissima anche in una mise un pizzico più audace e meno tetramente estenuata, non c’è una band, a differenza dell’altra volta. Nello spazio davanti a noi adibito a palco è preceduta da una fanciulla bionda dall’aria nordica, la polistrumentista Janel Leppin (del duo Janel & Antony), che potrà pure apparire poca cosa in quanto a supporto, salvo smentire gli scettici alla prima occasione utile. E’ infatti il suo violoncello a farsi carico di innalzare la severa architettura del brano di apertura, una “1923” che scopriamo ben più dilatata in chiave estatica rispetto alla già flemmatica versione di studio, seguendo un orientamento che troverà numerose conferme nel corso dell’esibizione.
Sono però i centellinati interventi vocali a rinforzo, così mirabilmente avviluppati all’inconfondibile mezzo soprano della Nadler da presentarsi alle nostre orecchie come la sua naturale ombra sonora, a colpire subito la nostra attenzione e a destare in noi un senso di entusiasta meraviglia. Al suono del nylon sottilmente pizzicato dalle lunghe dita della musicista non occorre altro per trovare la perfetta configurazione di umbratile incanto, che è poi la più formidabile tra le prerogative espressive della cantautrice. Questo autentico capitale di misurate suggestioni trova sviluppi ancora più appaganti nella successiva “Dead City Emily”, uno dei gioielli di “July”. Marissa regala l’ennesima pagina memorabile grazie al suo fingerpicking da manuale, esaltato in limpidezza da un campo di gioco persino più proibitivo quale la sua fidata dodici corde è a tutti gli effetti. I veri brividi li si deve però ancora alle magie della sua collega, esemplare nel conferire inquietudine e profondità nel finale elettrico particolarmente minaccioso e distorto, che vede come protagonista il suo strumento d’elezione.

marissanadler_iiiNon si sente volare una mosca. Siamo rapiti, ma il bello è che questa condizione ci accomuna ai nostri vicini di pavimento (eh sì, perché a parte qualche fortunato con sedia o cuscino, o quelli rimasti in piedi nelle retrovie, gli spettatori a ridosso della scena sono piazzati per terra a gambe conserte) come in una sorta di trasognato vagheggiamento collettivo, quasi fossimo tutti dei novelli Ulisse inchiodati al legno della nostra immaginaria imbarcazione ed esposti mesmericamente, non senza compiacimento da parte nostra, ai melodiosi arabeschi delle due sirene statunitensi. L’allegoria, pure un po’ trita, non potrebbe essere più calzante quando le due splendide voci si ritrovano per darsi manforte nel suadente idillio di “Firecrackers”, episodio tra quelli magari più facili del repertorio di Marissa, ma che in contesti simili comportano una quasi inevitabile resa senza condizioni in chi ascolta. Lento, animato da una dolce malia sospesa, il gioco si ripete con il medesimo risultato tra le pieghe seducenti di “Drive” prima che l’atmosfera, sottilmente, torni a incupirsi con la espersiana “Anyone Else”.
Tutto pare perfetto, il nitore dell’acustica ci sorprende in positivo, eppure la cantante non accenna a darsi pace e palesa a più riprese, con cenni discreti ma inequivocabili, la sua insoddisfazione ai malcapitati fonici. Complici la stanchezza e il carattere pignolo della prim’attrice, anche queste sommesse lamentele troveranno ulteriori repliche fino al congedo, nelle varianti “troppo alta”, “troppo bassa” e “non sento lei” soprattutto, pareggiate se non altro dagli applausi scroscianti del pubblico al termine di ogni canzone, e dai ringraziamenti sibillini ma sinceri della ragazza, un paio di volte anche in uno zoppicante italiano.

marissanadler_viBasta chiudere gli occhi perché queste infinitesime note stonate si dissolvano. Ed è lo stesso espediente a regalarci l’illusione che siano prodotti da Josephine Foster i gorgheggi flautati della pazzesca “Was It A Dream”. Dolci sortilegi. Che Marissa ribadisce anche abbandonando tutte e tre le fidate chitarre e aggrappandosi alla sola voce (con la Leppin al synth) in una versione abbreviata, ma micidiale come da copione, di “I’ve Got Yor Name”, sempre dalle parti della Emily Dickinson del Colorado.
Fin qui “July” l’ha fatta da padrone, e che sia un po’ un peccato lo dicono chiaramente anche gli unici, esemplari recuperi dal passato (tutt’altro che remoto, ad eccezione dell’antidiluviana “Fifty Five Falls” che chiuderà lo spettacolo) proposti in scaletta.
In un simile quadro, “The Wrecking Ball Company” e soprattutto l’ipnotica“Your Heart Is A Twisted Vine” dimostrano una dignità da instant classic senza tempo, austeri e sublimi, dai quali ci lasciamo cullare come bambini pronti a perdersi in un sogno. Ultimi foschi riverberi del violoncello, ultima danza della mano sinistra di Marissa, dalla tastiera dell’acustica all’anca e ritorno, mentre la destra disegna meraviglie sopra la buca con le unghie affilate. Il trionfo sancito dalla platea adorante legittimerebbe un ritorno sotto gli smorti riflettori a dir poco sacrosanto, invece dagli altoparlanti parte la musica preconfezionata. Ci facciamo sentire ancora più forte e la battaglia tra noi e il jingle di turno dura un minuto buono. Sembra cosa da pazzi non dar retta a un così genuino fervore ma la Nadler non ne ha più, ci diranno, e accusa gli incolpevoli tecnici di averla fatta sgolare a causa di un’equalizzazione non ottimale. Dettagli che nessuno di noi ha colto, ma poco importa: un puntiglio che produca arte tanto incantevole può mai passare per una colpa? No, sinceramente.