15/07/2017

U2

Stadio Olimpico, Roma


Questo non è solo un concerto, è un sigillo inesorabile del tempo che passa. Trent’anni dall’uscita di “The Joshua Tree”, quel disco degli U2 che suonava un po’ diverso dagli altri, strano, forse troppo americano per chi si era pasciuto della wave celtica di “October”, “War” e “The Unforgettable Fire”, ma che in pochi mesi divenne il più esaltante trip musicale dell’anno 1987. Trent’anni anche da quella storica performance del Joshua Tree Tour al Flaminio di Roma (27 maggio 1987), preceduta da un torrido pomeriggio di rock a tutto spiano in (ottima) compagnia di Lone Justice, Big Audio Dynamite e Pretenders. Un’esibizione che suggellò la consacrazione mondiale di Bono & C. davanti a 45mila spettatori in delirio e fece temere addirittura un terremoto agli abitanti delle case circostanti, per la combinazione dei 100mila watt dell’impianto con il ritmato saltellamento dei presenti. Allora il biglietto costava 27.000 lire. Oggi, per assistere alla celebrazione del trentennale di quell’evento, serve qualche dolorosa (e in alcuni casi, ingiustificabile) addizione nel nuovo conio. Non per chi vi scrive, però, che per una volta riscopre i privilegi del mestiere, accomodandosi in una tribuna stampa come al solito suddivisa tra vecchi leoni che di andare in pensione non ne vogliono sapere e (non più troppo) giovani colleghi eternamente destinati alla successione.

U2 Joshua Tree Tour 1987

Quando Noel Gallagher irrompe sul palco con un “Ciao Roma” attaccando “Everybody's On The Run”, sembra quasi un’invasione di campo. Che diavolo c’entrano gli Oasis con gli U2? Non ci sono certo quelle affinità elettive che univano i 4 gruppi del Flaminio, semmai una rivalità tra i rispettivi fan, divisi da epoche e stili diversi. Però ascoltare in sequenza hit planetarie come “Champagne Supernova” e “Wonderwall” da una band di spalla fa un certo effetto. Noel con i suoi High Flying Birds se la cava bene: generoso, ma non invadente. Sa che l’attesa e il pubblico non sono per lui, ma raccoglie i meritati applausi anche dai non-fan degli Oasis. I fan dei Waterboys come il sottoscritto, invece, hanno il loro momento di commozione quando sono proprio le note di “The Whole Of The Moon” ad annunciare l’entrata dei quattro (ex) ragazzi irlandesi. Scivolano dalla passerella al palco centrale, a forma di Joshua Tree. Mullen va di rullante ed ecco “Sunday Bloody Sunday” ad accendere la miccia dei sessantamila dell’Olimpico. Sempre la solita botta di adrenalina, c’è poco da fare. Ma l’avvio è sobrio: il palco alle spalle della pedana è spento, solo qualche faro bianco a illuminare le sagome dei quattro. E quattro sono le canzoni scelte idealmente come radici dell’Albero di Giosuè: dopo l’acclamato requiem per la Domenica di sangue di Derry, arrivano una struggente “New Year's Day”, una dilatata, sofferta “Bad”, in cui Bono cita anche la “Heroes” di Bowie, e l’altro colpo da ko di “Pride” che infiamma lo stadio in nome dell’amore. Quattro pietre miliari sulle quali gli U2 hanno edificato la loro scalata alla vetta del rock mondiale.
Bono alterna l’inglese a un italiano maccheronico, raccontando la bellezza della notte romana (“La più bella di sempre”), della città che ospita le spoglie del suo poeta preferito, John Keats. E non rinuncia ai suoi soliti sermoni logorroici: “Anche se sono tempi di paura, conserviamo la compassione, la fede, la pace”. In estrema sintesi.

U2 live a Roma

Ma è tempo di dare il via alla sezione centrale di questo concerto tripartito, quella interamente dedicata a “The Joshua Tree”, il grande salto verso la Terra promessa, all'ombra di quel cactus gigante che cresce nella Death Valley, ribattezzato proprio Joshua dai primi mormoni giunti in America e scelto, su suggerimento dell'amico fotografo Anton Corbijn, come icona del disco. Il palco finalmente si accende: il maxischermo allungato alle spalle della band rimanda la forma dell’albero - ora nera ora rosso sangue - quindi le immagini di quei paesaggi desertici dove i tronchi spogli lottano ogni giorno per la vita in mezzo alla siccità. Un racconto per immagini in bianco e nero, che immortala l’America rurale e profonda, con i suoi orizzonti sterminati solcati dalle highway. “The Joshua Tree” era quella terra di sogni e contraddizioni, vista con gli occhi infervorati d’eccitazione e idealismo di quattro ragazzi appena usciti dal ghetto irlandese per affacciarsi sul palcoscenico mondiale. Oggi, che al ciuffo impomatato di Ronald Reagan si è sostituita la chioma cotonata di Donald Trump, sembra quasi che il tempo si sia fermato, mentre Bono continua a gridare “Outside it’s America” (“Bullet The Blue Sky”).
Ma resta soprattutto la potenza di quei brani: esplosiva, al solito, “Where The Streets Have No Name”, incipit del disco come del live del Flaminio, con la chitarra di The Edge che fende il buio della notte, metallica e lacerante come sempre; sofferta “I Still Haven’t Found What I’m Looking For”, prima di quella “With Or Without You” passata agli annali come la hit del disco ma che al sottoscritto continua ad apparirne, semmai, il punto più debole.

U2 live a Roma

Che Bono abbia perso buona parte della sua potenza vocale è ormai pacifico: schiva i toni alti e viaggia col mestiere, aiutato dalla tecnologia che rende più sintetico e impastato il timbro sfrontato di un tempo. Però ha buon gioco nell’improvvisarsi crooner, con armonica a corredo, per una sorniona “Running To Stand Still”. Più dura, invece, scalare le vette di una “Red Hill Mining Town” sempre commovente, ma orbata nella coda di quei vocalizzi vertiginosi; in compenso ci sono i fiati della versione 2017: una banda di paese suona alle spalle del leader, nel video ma anche nella realtà. Poi l’altro colpo di teatro: si spegne lo schermo, bisogna girare il disco, perché, come ricorda Bono, “il vinile aveva due facciate”. Prima del Lato B, però, arriva l'ammonimento anti-nostalgia: “Alcuni di questi pezzi potrebbero essere addirittura più rilevanti oggi rispetto a trent'anni fa”. E come dargli torto, ascoltando “In God's Country”, ovvero il lato oscuro del sogno a stelle e strisce, ammantato di toni biblici e marchiato dai riff incandescenti di The Edge. È lui, ormai, il vero marchio dell’U2-sound formato live, ben puntellato dalla solida sezione ritmica Clayton-Mullen jr.
Scivola via il blues di “Trip Through Your Eyes”, quindi è già tempo di un’altra collina da scalare: “One Tree Hill”, uno degli apici del disco, solitamente assente nelle loro scalette live, forse anche perché richiede altri voli pindarici all’ugola di Bono, che fa quel che può, con i vocalizzi stratosferici dell’originale che finiscono evaporati in un magma chitarristico.
Le canzoni del Joshua Tree sembrano rigenerarsi proprio come le radici dell’albero. Si va fino in fondo, con una straniante “Exit” e una sommessa “Mother Of The Disappeared”, per fare la festa al disco ma anche al presidente: “Sei un bugiardo Trump”, recita lo spezzone di un vecchio film western proiettato sullo schermo. L’Italia, invece, fa la parte della buona: “Grazie alla guardia costiera, salvate un sacco di vite ogni giorno”, grida Bono. E ancora: “Siete fantastici, siete una famiglia, proprio come gli U2”.

U2 live a Roma

C’è ancora un po’ di tricolore nel ritorno in scena, sotto forma della voce registrata dell’amicone italiano Luciano Pavarotti, ad assecondare la trasformazione della sempre struggente “Miss Sarajevo” in “Miss Syria (Sarajevo)”, mentre ai roghi degli Slavi del Sud si sostituiscono le immagini dei villaggi bombardati del Medio Oriente e del campo profughi di Zaatari, in Giordania. La terza e ultima fase del concerto è un mix di vecchi e nuovi successi, da una sovraeccitata “Beautiful Day” a una “Vertigo” che sfocia in “Rebel Rebel” per un altro omaggio al Duca Bowie, fino una “Elevation” che riscuote un’inopinata ovazione. La melodia stonesiana di “Ultraviolet (Light My Way)” (dall’altro capolavoro “Achtung Baby”) diviene invece lo sfondo per una assortita (anche troppo) galleria di donne-eroine dei diritti, da Anna Frank a Virginia Woolf, fino alle Pussy Riot e a due esponenti nostrane (Rita Levi Montalcini ed Emma Bonino). C’è ancora tempo per rischiarare la notte dell’Olimpico con gli accendini virtuali sulle note della immancabile “One”, prima della chicca finale, l’inedito “Little Things”, che comparirà nel nuovo, imminente album (“è praticamente pronto”, annuncerà Bono nel backstage).

U2 live Roma

Se l'acustica si è rivelata a due facce - distorta nelle tribune, più accettabile sul prato - non si può negare che stavolta gli U2 abbiano ripudiato le baracconate da PopMart Tour, spostando il fuoco sulla musica: compatta e potente, come nello spirito originario di “The Joshua Tree”. Semmai, sono stati loro un po' più ingessati sul palco, rispetto agli standard di un tempo, ma ce ne faremo una ragione. Così anche i reduci del Flaminio possono andarsene soddisfatti: il ricordo non è stato macchiato e il rituale celebrativo s’è compiuto nel modo più dignitoso possibile, stanti le attuali potenzialità della band irlandese. Che sia stato stanco, inutile o pateticamente nostalgico, lasciamolo stabilire ai soliti polemisti in servizio permanente effettivo, gli stessi che hanno inchiodato Bono alla foto assieme all’ex-nemico George W. Bush, ignorando il fatto che nella sua “seconda vita” l’ex-presidente più odiato sia diventato un campione della solidarietà, impegnato a salvare con il suo fondo le vite di milioni di africani. La cronaca, invece, racconterà dell’idillio ritrovato sotto il Joshua Tree tra i 120mila della due giorni romana e i quattro dublinesi. Perché all’ombra di quell’albero, in fondo, sono custoditi valori ben più profondi di quelli legati a un semplice senso di appartenenza musicale.