Un caldo pomeriggio romano, 27 maggio 1987. Allo stadio Flaminio l'attesa è palpitante per l'evento live dell'anno: arrivano gli U2, sull'onda del successo planetario di "The Joshua Tree", ma l'antipasto è quasi altrettanto ricco, con i Big Audio Dynamite di Mick Jones (Clash) e i Pretenders di Chrissie Hynde. Ventiquattromila lire sono un prezzo irrinunciabile per un biglietto che ti regala tutto questo e che, per tanti reduci, resterà una reliquia dell'intero decennio. Quando il sole è ancora alto e picchia duro sugli spalti del Flaminio, però, s'intrufola sul palco un'altra band, la prima della lunga maratona musicale. C'è una ragazzina bionda scalmanata che imbraccia una Telecaster e si sgola al microfono, con un drappello di musicisti risucchiati nel suo cono d'ombra.
Il pubblico, però, pensa solo a Bono Vox: fischia e lancia persino qualche bottiglietta di plastica sul palco, come da (triste) copione riservato a tanti, sventurati gruppi spalla. Lei, la ragazzina, non si scompone, rispedisce a calci sul prato le bottigliette e continua imperterrita a dimenarsi e a sbraitare i suoi infuocati sermoni cowpunk.
Non tutti, però, restano indifferenti a quel misto di innocenza post-adolescenziale e furia felina. Perché la ragazzina, Maria McKee, e la sua band, i Lone Justice, hanno già pubblicato un paio di album che hanno fatto colpo in chi, nel cuore dei plasticati Eighties, subiva anche il fascino di quell'America rurale e primordiale, tanto selvaggia nell'impeto (punk), quanto malinconica e struggente nelle melodie (cow, o meglio country).
E allora occorre riavvolgere il nastro e tornare indietro di cinque anni...
È il 1982 e a Los Angeles, California, la diciottenne Maria Luisa McKee e l'amico chitarrista Ryan Hedgecock infiammano i club con le loro reinterpretazioni di classici country e rock (Gram Parsons, Rose Maddox, George Jones, Kitty Wells). Sono poco più che una cover-band, infatti, i primi Lone Justice. Ma Maria ha già al suo attivo un hit, "A Good Heart", trascinato addirittura al n.1 delle classifiche britanniche da tal Feargal Sharkey (ex-Undertones). Chissà, se l'avesse cantato lei, forse, la sua carriera avrebbe preso tutta un'altra piega. Una ballata in verità non memorabile, ma dal sicuro impatto catchy, che raccontava della sua relazione con Benmont Tench, tastierista di Tom Petty & The Heartbreakers. Quando la riproporrà in un suo album (Late December, 2007) sarà proprio troppo tardi. Troppo tardi per diventare quella diva che avrebbe dovuto essere e che, inspiegabilmente, non è mai diventata.
Ma i Lone Justice qualche ambizione ce l'hanno, grazie soprattutto all'ingresso di un veterano come Marvin Etzioni (al basso), di un altro chitarrista, Tony Gilkyson (futuro X), e dell'ex-batterista di Emmylou Harris, Don Heffington, che portano in dote al duo McKee-Hedgecock la solidità necessaria. Le idee, invece, ci sono sempre state: una rilettura con piglio punk e rockabilly della tradizione country-roots americana. A distinguerli dalla pletora di band cowpunk (Beat Farmers, Blasters, Los Lobos, Green On Red) sono un talento melodico preso in prestito dalla miglior tradizione cantautorale e, soprattutto, una voce strepitosa: quella, per l'appunto, della biondissima McKee. Un'ugola insieme squillante e profonda, dolce e infervorata, che riesce perfettamente ad assecondare tutte le sfumature di quest'ampia gamma sonora. Cresciuta a pane e musica - il fratellastro Brian Mclean è infatti il chitarrista dei Love, la madre una fan sfegatata dei Doors - Maria non è proprio una che passa inosservata: è giovane, esuberante e bella. Di una bellezza acerba e sensualissima, con quell'ovale incorniciato dai riccioli biondi, quella spruzzata di lentiggini e quegli occhi celesti assassini. Uno di quei visi che ti immagini campeggiare su innumerevoli poster nelle camerette degli adolescenti dal cuore spezzato. Inclusa, probabilmente, quella di chi scrive, se mai un poster di Maria McKee fosse stato messo in vendita in quegli anni nei negozi italiani.
È, insomma, la frontgirl perfetta di una band che ha tutto per emergere. Anche ai migliori, però, serve una raccomandazione. E per i Lone Justice garantisce un'autorità country nazionale come Linda Ronstadt: è lei a procacciare alla band un contratto con la Geffen, che la ingaggia e, in men che non si dica, la trasforma in next big thing dell'anno 1985. Attese (e promozione) ben riposte, perché i nostri hanno in serbo un ottimo album d'esordio per il quale si mobilitano alcuni pezzi grossi del rock born in the Usa: Steve Van Zandt aka Little Steven, leggendario chitarrista di Bruce Springsteen, il produttore Jimmy Iovine e buona parte degli Heartbreakers, incluso naturalmente Tench, più un'Annie Lennox in incognito, che regala qualche cameo vocale.
Well, you know so many
Ways to be wicked
But you don't know one little thing
About love
("Ways To Be Wicked")
Liturgie cowpunk
È un disco fresco e dirompente, Lone Justice (1985). Trasuda tutta l'esuberanza vocale della spiritata McKee, magistralmente assecondata dal rodato ensemble, con un suono che sposa le radici country, roots e soul a un piglio rock molto vicino a quello del miglior Tom Petty, non a caso autore anche di una delle tracce più riuscite, l'esplosiva "Ways To Be Wicked", una struggente storia di cuori infranti infuocata dalle chitarre e dal timbro sensuale della cantante: sarebbe calzata a pennello a Stevie Nicks e chissà se l'allora compagna dell'Heartbreaker ne sarà stata gelosa. È invece il duo Tench-Van Zandt a firmare con McKee l'altro hit del disco, il singolo "Sweet, Sweet Baby" (I'm Falling)", un blue-eyed soul interpretato con vigore degno della "madrina" Linda Ronstadt e con Annie Lennox a dar man forte ai back vocals. Ma le vicende sentimentali hanno un ruolo marginale nei testi: a prevalere è soprattutto l'ispirazione religiosa, palese in salmodie country come la dolente "Don't Toss Us Away", scritta dalla McKee con il fratellastro MacLean e tradotta ancora una volta in hit da altri (nella fattispecie, Patty Loveless), o come il commiato commosso di "You Are The Light", enfatizzato da una declamazione quasi gospel e da un'armonica dylaniana.
L'accento southern della McKee riscalda i vibranti roots-rock di "Pass It On" e "After The Flood", spaccati di un'America rurale e profonda, che si interroga sulle tradizioni e si prepara a rialzarsi anche dopo una catastrofe, mentre lo scalpitante cowpunk di "Soap Soup And Salvation" ironizza sul soprannome dei supporter dell'Esercito della salvezza, impegnati nell'assistenza (e nel forzato tirocinio spirituale) degli homeless. Un'ironia ancor più caustica, quella di "Working Late" che, sempre su cadenze cowpunk, ritrae una casalinga disperata ante-litteram in attesa che il suo uomo torni dal lavoro ("Steaks are getting cold on the table/ I've got the tv on to ‘that's incredible'/ In the yellow oven is hot apple pie/ So why isn't he home on time?").
Completano il quadro due episodi minori, come l'iniziale rockabilly di "East Of Eden", con il suo call & response un po' stucchevole, e il rock da Fm di "Wait ‘til We Get Home".
L'abbondanza di tastiere, in puro Petty-style, e il sound potente (marchio di fabbrica di Iovine) sono forse gli unici elementi che agganciano il disco alla sua epoca. Mentre il decennio Ottanta è ancora ebbro di suggestioni futuriste e patinati ritornelli synth-pop, i Lone Justice riportano indietro l'orologio del tempo, rispolverando un'America color seppia, agreste e lirica, imbevuta di valori, tradizioni e spiritualità. A vederla dall'altro lato della medaglia, però, anticipano clamorosamente quell'esplosione alt-country che infiammerà i 90, consacrandosi così antesignani (più o meno trascurati) di tutti i vari Jayhawks, Uncle Tupelo e Wilco prossimi venturi.
Frutto precoce o fuori tempo, fatto sta che Lone Justice si rivela lontano dai gusti del pubblico del periodo: nonostante il massiccio sforzo promozionale, infatti, non va oltre il numero 52 di Billboard e anche i singoli "Sweet, Sweet Baby (I'm Falling)" (n. 73) e "Ways To Be Wicked" (n. 71) deludono le aspettative commerciali della Geffen. Di tutt'altro segno, però, i riscontri della critica, che non risparmierà gli encomi. Jimmy Guterman di Rolling Stone arriverà addirittura a inserire Lone Justice nella sua lista degli album migliori di sempre con questa motivazione: "Revealed an astonishingly mature new band and a block-buster talent in irrepressible singer and primary songwriter Maria McKee".
Appare sempre più evidente, però, che la vera attrazione dei Lone Justice sia la loro cantante, sulla cresta dell'onda anche per la partecipazione alla (ottima) colonna sonora del film "Streets Of Fire" di Walter Hill, con una ballatona da acchiappo immediato come "Never Be You", scritta dal suo mentore Tom Petty.
Così il nucleo originario dei Lone Justice si dissolve in fretta (Etzioni, in particolare, intraprenderà una discreta carriera solista), lasciando la McKee al timone di una formazione di fatto tutta nuova, con Shane Fontayne (chitarra), Greg Sutton (basso), Bruce Brody (ex-Patti Smith Group) alle tastiere e Rudy Richman alla batteria. È questa la line-up che entra in studio per incidere il secondo e ultimo album della loro breve esperienza.
You're struggle with darkness has left you blind
I'll light the fire in your eyes
Let me be your shelter
From the storm outside
("Shelter")
Shelter (1986) si distingue subito per un suono meno grezzo e più professionale, ma Iovine, spalleggiato in cabina di regia da Van Zandt (autore anche di alcuni brani), calca un po' troppo la mano e l'iper-produzione rischia di minare la freschezza della formula. McKee resta però una forza della natura, capace di gettarsi a squarciagola nell'appassionata ode sentimentale di "Shelter" ("You're struggle with darkness has left you blind/ I'll light the fire in your eyes/ Let me be your shelter/ From the storm outside"), trascinata dalle schitarrate di Little Steven, e di incendiare di pathos una stupenda ballata come "Dreams Come True (Stand Up)" che, da sola, fa mangiare la polvere a nugoli di attuali folksinger in gonnella. Un pezzo clamoroso, a riascoltarlo anche 24 anni dopo, con quell'intro sontuosa di tastiere, quelle chitarre minacciose sullo sfondo e quei gorgheggi struggenti del finale: peccato che, invece, resterà confinato nell'affollato limbo dei capolavori incompresi degli anni 80.
McKee si conferma la miglior erede di Stevie Nicks, ma anche un'autrice forbita, in grado di far vibrare di nuovi echi country l'intensa "The Gift" e di pennellare con classe da veterana l'elegia pianistica di "Dixie Storms".
Sono numeri di un soft-rock che, stemperata l'irruenza cowpunk dell'esordio, si fa più riflessivo e maturo, abbandonando anche le immagini bibliche e virando verso la sfera dei sentimenti e delle emozioni individuali.
Ma se la cifra migliore dell'album è nelle ballate (apprezzabile anche "Wheels", nonostante l'impaccio di quei cori un po' goffi), non mancano nuove iniezioni di adrenalina: l'iniziale "I Found Love" è quasi un gospel-rock, con chitarre roboanti e un drumming implacabile ad assecondare il canto infervorato della McKee (quasi un'Aretha Franklin country), mentre la tempestosa "Inspiration" riscopre l'anima soul con un'altra interpretazione al cardiopalmo.
Altre volte, però, la formula mostra un po' la corda: "Reflected (On My Side)" e "Belfry" rinnovano stancamente un canovaccio ormai logoro, mentre è quasi imbarazzante il vuoto d'idee di un pezzo come "Beacon".
Nonostante qualche passo falso e un suono un po' troppo carico, che paga pegno a certe produzioni springsteeniane degli 80, Shelter conferma comunque tutte le qualità della band e, soprattutto, della sua leader, alla quale non possono non spalancarsi le porte di una carriera solista. L'insoddisfacente esito commerciale (n. 65 l'album, n. 47 il singolo "Shelter") e le reazioni stavolta più fredde della critica accelerano un processo ormai irreversibile. Quando "affrontano" il pubblico del Flaminio nella primavera del 1987, i Lone Justice sono, di fatto, già una band fantasma. Lo scioglimento ufficiale viene sancito qualche mese dopo. A testimoniare la loro breve parabola provvederanno anche un live (Bbc Radio 1 live in concert, registrato nel giugno 1986 con la formazione di Shelter e pubblicato nel 1994 da Windsong) e l'antologia This World Is Not My Home (con alcuni inediti d'inizio carriera).
Poi, la gloriosa sigla Lone Justice andrà in soffitta, condannata a un ingrato destino di oblio (più o meno) universale. Resterà però per Maria McKee un'altra chance di fare fortuna. Da sola e con un repertorio folk-country di cui proprio la "Dixie Storms" di Shelter può considerarsi l'ideale punto di partenza.
Show me heaven
Incoraggiata dalla Geffen, che le rinnova la fiducia, Maria tenta di capitalizzare il piccolo spicchio di fama acquisita contribuendo ai back vocals nel debutto omonimo di Robbie Robertson del 1987 (comparirà anche nel video di "Somewhere Down The Crazy River") e radunando attorno a sé un nutrito e prestigioso cast per il suo album d'esordio.
Prodotto da un guru degli studios come Mitchell Froom (Suzanne Vega, Elvis Costello, Crowded House, Paul McCartney e mille altri), Maria McKee (1989) ospita infatti ben 17 musicisti, tra i quali Jerry Marotta alla batteria (già al fianco di Peter Gabriel) e Tony Levin al basso (già con Gabriel e King Crimson), il drummer Jim Keltner, il chitarrista folk Richard Thompson e il violinista Steve Wickham (Waterboys), più vecchi compagni di band come Brody, Sutton e Fontayne.
Alle prese ancora una volta con una produzione un po' troppo marcata, McKee affina ulteriormente il suo stile di canto, perdendo un po' di quell'acerba irruenza del periodo-Lone Justice, ma guadagnando in compostezza e profondità di timbro. Sospesa tra Patsy Cline e Janis Joplin, Van Morrison e Aretha Franklin, l'ex-enfant prodige del cowpunk cerca una nuova via al suo talento. Riuscendo ancora a graffiare, come quando si incammina sugli impervi sentieri folk-rock di "Am I The Only One" (ripresa poi dalle Dixie Chicks) o ruggisce da tigre gospel nel vibrante soul di "More Than A Heart Can Hold", o ancora si sgola nel quasi-talking blues di "The Property Is Condemned" e nel rodeo country di "Drinking In My Sunday Dress".
Paradossalmente, sono proprio le ballate countryeggianti, che dovrebbero essere la sua nuova specialità, a risultare più sfocate ("To Miss Someone", "Nobody's Child", "Has He Got A Friend For Me", "Breathe", pur impreziosita dai ricami di Thompson). Fa eccezione una suggestiva "Panic Beach" che strizza l'occhio alla classicità di Carole King, ma anche ai vocalizzi della contemporanea Tori Amos.
Griffato da una splendida copertina, che ritrae il volto angelico della McKee come in un cammeo ottocentesco, l'album non scatena entusiasmi, ma pone le premesse per una carriera solista di tutto rispetto, che trova anche un insperato slancio un anno dopo in un nuovo brano, "Show Me Heaven", inserito nella colonna sonora del film "Days Of Thunder", con Tom Cruise e Nicole Kidman (che proprio su questo set inizieranno la loro storia). Niente più di una nuova ballata sentimentale, piuttosto patinata e decisamente al di sotto dei suoi standard, eppure - come spesso accade - riuscirà laddove le precedenti prodezze avevano fallito, conquistando la vetta delle chart britanniche per ben quattro settimane e diventando praticamente il suo più grande hit. Gli scherzi del destino.
La scalata delle classifiche, però, non la fa cedere alle lusinghe di quel soul-pop mellifluo destinato a spopolare nei Nineties (e oltre). La futura Little Diva - trasferitasi nel frattempo in Irlanda, dove frequenta U2 e Hothouse Flowers - continua a seguire pervicacemente la propria strada, armata della sua Telecaster e avvolta nei suoi vestitini a fiori, così candidamente lontani dalle mise d'ordinanza delle rockstar.
Il successivo album You Gotta Sin To Get Saved (1993) segna così una nuova svolta: in cabina di regia sale George Drakoulias, produttore di Black Crowes e Jayhawks, e il suono vira decisamente in territori country-rock anni Settanta. Non cambia, invece, l'affollamento in studio di registrazione, con quasi trenta musicisti impegnati in un mix di cover e inediti.
Il cambio di rotta si avverte fin dalla copertina: un bel bianco e nero che immortala un'imbronciata Maria "on the road". E, gettati alle ortiche gli artifici di Froom, prevale un'impronta in presa diretta, quasi da jam session, con un nuovo entusiasmo corale che ha fatto parlare di "una versione matura dei Lone Justice".
In realtà, la protagonista è ancora - e più che mai - la McKee, irresistibile nel padroneggiare (e sopravanzare) la veemenza di un giovane Van Morrison in vena di romanticherie nella stupenda cover di "The Way The Young Lovers Do", trasformata in un nuovo, impressionante tour de force vocale, e nell'altra, convincente versione di "My Lonely Sad Eyes", risalente al periodo-Them.
Ma ancor più della potenza, sorprende ancora la versatilità della cantante, che si consacra ormai country-singer provetta ("Only Once", "Precious Time"), ma si conferma anche magistrale interprete di inni soul mozzafiato, dalla trascinante ouverture di "I'm Gonna Soothe You" alla dolente "I Forgive You" fino ai cori gospel di "Why Wasn't I More Grateful (When Life Is Sweet)". Più convenzionale la cover di "I Can't Make It Alone" di Carole King, mentre la conclusiva title track sfodera un invasato country-rock a suon di handclapping che sembra uscito da una serata di danze folli attorno al fuoco nella prateria.
You Gotta Sin To Get Saved è il disco solista in cui la McKee appare più a suo agio, forse perché sostenuta da una band esplosiva (di cui sembra più che mai avvertire il bisogno), forse perché quando la scrittura non è in grado di coniugare qualità e quantità, qualche bella cover aiuta. Fatto che sta che però, per un altro paradosso di questa storia, in pieno revival alt-country, proprio lei che ne era stata una pioniera non riesce a far breccia in un pubblico che probabilmente l'ha già dimenticata. E nel decennio dell'esplosione del rock al femminile delle varie Alanis Morissette, Sheryl Crow e compagnia cantante, lascia sbigottiti l'idea che un talento simile sia potuto passare in secondo piano.
This one is for the girl who says those voices in her head
Never leave her alone...
You're not crazy
("Life Is Sweet")
Show me hell
Ogni tanto, però, arriva in soccorso qualche film e quando si tratta di un capolavoro come "Pulp Fiction" (1994) il vantaggio è ancor più tangibile: "If Love Is A Red Dress (Hang Me In Rags)" vede la McKee alle prese con un bel blues quasi solo per voce e chitarra, fischiettato nel ritornello, uno di quei languidi soft-rock solcati da un fuoco sotterraneo che tanto piacciono a Quentin Tarantino. Condividerà in piccola parte il successo di una colonna sonora consegnata ormai agli annali del cinema.
Quando però nel 1996 torna in studio, Maria McKee non sembra più la stessa. La ragazzina solare ed esuberante dei Lone Justice, la raffinata chanteuse country&soul dei primi due album solisti hanno lasciato posto a un'artista profondamente inquieta, sull'orlo di un crollo nervoso. "Avevo una relazione finita in un vicolo cieco, soffrivo di crisi maniaco-depressive e non ne potevo più del music business", spiegherà. Fatto sta che, di fronte alle dodici nuove tracce, i discografici della Geffen restano pietrificati.
Il titolo Life Is Sweet (1996) è paradossale per un album cupo e claustrofobico, in cui la McKee urla le sue frustrazioni in faccia al mondo intero, spronata da chitarre sempre più cattive e distorte, molto più vicine al grunge che al country. Un album che rinuncia ai colori pastello degli anni 80, fin dalla copertina primo Novecento, un ingiallito ritratto di gruppo in bianco e nero, cui si aggiunge, sul retro, l'immagine di una McKee dimessa in penombra.
Se la produzione è decisamente più spartana (alla consolle è la stessa McKee, con Bruce Brody e Mark Freegard a dar man forte) e anche la pattuglia dei musicisti più sparuta (solo sei elementi, inclusa la leader), gli arrangiamenti e le orchestrazioni sono tutt'altro che gracili: chitarre sparate a tutto volume (a cura della stessa McKee), basso, tastiere e una pomposa sezione d'archi forgiano un sound d'una magniloquenza che lambisce l'art-rock e il glam fragoroso di David Bowie & The Spiders From Mars.
Aleggia, sui testi, un senso di dramma incombente, se non espressamente di suicidio, fin dall'iniziale, durissima "Scarlover": "My brain has derailed my hands are benailed/ You fall across my body like a death shroud/ Your wound was plain like mine no ragged edges well defined". Si possono amare anche le cicatrici, insomma, farne la propria veste perfetta: "This Perfect Dress", un'altra meravigliosa allucinazione - fisica, psichica, mortifera - cantilenata disperatamente con le chitarre western a ronzare vorticose nel cervello. Una follia che alimenta continue ossessioni: dal tema del "doppio" della ziggyana (nei riff e non solo) "Absolutely Barking Stars" ("I'm her twin I live in the other half/ I'm tearing at the seam but it never comes apart") alla crisi di nervi dell'abrasiva "I'm Not Listening", con il suo grido di dolore disperso in un vortice di chitarre e violini ("If I'm a phoenix if I'm a demon or a sage or a fake/ Or if I'm gutless leave me alone and let me be this/ You've nearly killed me once") fino alle visioni mistiche di "Smarter" ("Jesus Christ came down from the aerial Transmission") con un'altra bella apertura melodica, trafitta da lancinanti feedback à-la Mick Ronson.
Più apparentemente tranquilla e cantautorale, la seconda parte del disco riserva però nuovi sussulti, dalla feroce autocommiserazione di "What Else You Wanna Know" ("I hate what I am.../ Sometimes I wish I wasn't born") al giogo morboso e mortale di "Human" ("And I'm alone now with my compulsions.../ I don't exist without a lover-fix/ And I'm nothing without a heart overstuffed to the brim of bursting/ With murder in its wake ") fino alla raggelante doppietta "Life Is Sweet"/"Afterlife": una ninnanna sinistra à-la Lisa Germano, sussurrata con un filo di voce e straziata nel finale da un tempestoso crescendo strumentale per archi e chitarre. Dalle cicatrici mentali di "Scarlover" alle voci che frusciano ossessive nella testa, il cerchio del disagio psichico si chiude: "This one is for the girl who says those voices in her head/ Never leave her alone.../ You're not crazy". E meno male che la vita è dolce... "Afterlife", allora, è l'unico commiato possibile. Con i riverberi delle chitarre inghiottiti dal mixer.
Sono canzoni che vivono di suggestioni. S'insinuano sottopelle come un veleno che non dà scampo. Ma richiedono un ascolto profondo ed empatico. Solo fermandosi banalmente alla superficie, infatti, si può giungere alla conclusione demenziale di People, che liquiderà il disco come "il più brutto dell'anno", o della Geffen, che, sbigottita, chiuderà alla McKee le porte di una collaborazione che durava da più di un decennio. Life Is Sweet è il suo "Geek The Girl": una drammatica seduta di autocoscienza, un gesto disperato e temerario che, pur nella sua confusione, nel suo miscuglio di livida bellezza e febbricitante approssimazione, rivela appieno un talento cristallino, cui il mondo musicale pare aver voltato le spalle. Resterà, di fatto, il suo "disco maledetto", ma anche il suo preferito. La postuma rivalutazione di fan e critici (su Rate Your Music, ad esempio, è oggi il suo album con la valutazione più alta) riscatterà ciò che allora fu un autentico suicidio commerciale.
Non è un caso, allora, che alla pubblicazione dell'album segua un lungo periodo di silenzio, durante il quale la cantautrice di Los Angeles taglierà tutti i ponti con l'industria discografica, alla ricerca di un completo controllo creativo sulla sua opera. Alla Geffen, allora, non resterà che rispolverare i Lone Justice, pubblicando This World Is Not My Home (1999), una raccolta dei loro successi, uniti a dieci tracce ancora inedite, risalenti in gran parte al primo periodo della band, tra le quali le cover del traditional "Rattlesnake Mama", della "Working Man Blues" di Merle Haggard e della "Sweet Jane" dei Velvet Underground, con Bono ospite al microfono.
Non mi sono mai sentita tanto gratificata, sia come artista, sia come professionista. Non voglio dover dire male delle major, ma a un certo punto quel sistema può diventare sfiancante e non senti più il desiderio che un mentore ti prenda sotto il suo controllo e ti guidi.
(Maria McKee)
Indiependence days
Quando si riaffaccia in studio, sette anni dopo, Maria McKee è ancora un'altra donna: pacificata e sicura di sé. Come scrive Gianluca Testani sul Mucchio Selvaggio, "l'avevamo lasciata ragazza e l'abbiamo ritrovata signora, di quelle che si capisce subito che da giovani avevano fatto impazzire caterve di coetanei e che da adulte hanno trovato una serenità familiare, una pace dei sensi, sostituendo il fuoco della ribellione con l'eleganza della maturità".
Questa ritrovata serenità si riflette anche nella determinazione di riannodare a modo suo i fili della sua carriera. Ha creato una nuova band e scritto 14 nuove canzoni di suo pugno. Con il marito Jim Akin ha anche fondato la piccola etichetta Viewfinder ed è sotto le sue insegne che ora pubblica High Dive (2003). "Non mi sono mai sentita tanto gratificata - rivelerà - sia come artista, sia come professionista. Non voglio dover dire male delle major, ma a un certo punto quel sistema può diventare sfiancante e non senti più il desiderio che un mentore ti prenda sotto il suo controllo e ti guidi".
Prodotto da Akin (anche bassista, chitarrista steel, cantante e tastierista), l'album suggella una nuova svolta, all'insegna di un baroque pop non meno sorprendente e ambizioso, avvolto in soffici trame d'archi e fiati, con un canto che ha smussato le tonalità più selvagge, facendosi più composto anche se non meno intenso. La ripresa del dittico "Life Is Sweet"/"Afterlife" che concludeva il precedente album acquista così in grandiosità pop, finendo col dissolvere quel suo grumo d'angoscia in un tripudio broadwayano. Ritornelli ariosi, intrisi d'umori country-rock (la fischiettante "To The Open Spaces", la younghiana "In Your Constellation") si alternano a numeri quasi da rock-opera ("My Friend Foe") e a bozzetti di un pop a tinte pastello che Maria pennella con la grazia d'una Jackie DeShannon (la bacharachiana title track) e l'eleganza d'una Carole King ("Be My Joy", "From Our Tv Teens To The Tomb") sostenuta da possenti arrangiamenti orchestrali (pianoforte, archi e un gruppo di fiati da camera).
È un disco forbito, High Dive, dai mille risvolti e rimandi. Il fantasma familiare dei Love si aggira tra le tessiture psych di "Love Doesn't Love", che decolla poi su cadenze soul à-la Supremes; il padre nobile di tutti i crooner, Scott Walker, assiste compiaciuto i gorgheggi accorati di "We Pair Off" e "Worry Birds"; mentre la trionfale "Non-Religious Building" rimette a lucido le chitarre sontuose degli Who di "Baba O'Riley" per un nuovo testo-shock ("Suicide!... / All of me/ Frozen like lobotomy/ When my lover gets a hold of me/ Closing in like sodomy").
Sono esercizi aggraziati e un po' calligrafici, riscaldati però dalle interpretazioni passionali della McKee, chanteuse sempre più eclettica, che negli anni ha sviluppato anche uno stile teatrale degno del miglior Bowie. La grandeur strumentale, del tutto inedita nelle produzioni precedenti, a volte seduce, a volte indulge in qualche birignao di troppo.
I tormenti e le cicatrici di Life Is Sweet bruciano ancora sottotraccia (vedi, appunto, i testi), ma hanno trovato un senso in una dimensione umana più profonda e universale.
Nello stesso 2003 la Geffen, forse pentita di aver scaricato così un simile talento, pubblica l'antologia 20th Century Masters - Millenium Collection, con una buona selezione dei suoi cavalli di battaglia di quel primo periodo. Ma ormai il dado è tratto: il Live In Hamburg (2004) suggella questa fase di indipendenza creativa con dieci interpretazioni dal vivo di altrettanti brani tratti dagli ultimi due dischi.
Per il suo quinto album in studio, invece, Maria McKee torna alle radici folk e country con undici nuove canzoni, più una cover della "Barstool Blues" di Neil Young, spogliata della sua veste elettrica e trasformata in una stralunata ballad pianistica. Ed è proprio nelle ballate il cuore di Peddlin' Dreams (2005), uscito ancora per la Viewfinder, con la produzione di Jim Akin e un sound stavolta molto più scarno, prevalentemente acustico. La McKee canta e suona la chitarra, accompagnata da percussioni, pedal steel e piano. E a brillare è soprattutto la sua voce, improntata stavolta a un mood sommesso e malinconico che tinge l'acquerello country di "Season Of Fair", storia di un amore perduto punteggiata dagli arpeggi dell'acustica e dalle frasi d'organo, o si strugge in dolenti pannelli acustici (la splendida "Drowned And Died", le non meno intense "Turn Away" e "My One True Love") o, ancora, si sublima tra le chitarre polverose e i colpi di spazzole della title track.
Sono storie di sconfitti, di disperazione e disillusione, come quella di "Sullen Soul", la traccia più sostenuta dell'album, che completa l'omaggio a Neil Young con le sue vibrazioni elettriche. Il mid-tempo dell'elegante "People In The Way", per piano e tromba, e il bozzetto agreste di di "Appalachian Boy" rinnovano un senso di nostalgia e di rimpianto, mentre "Everyone's Got A Story" sembra una "Shelter" svestita dei suoi lustrini eighties e la conclusiva "(You Don't Know) How Glad I Am" suona quasi come una parodia stilizzata del country-pop di Patsy Cline.
Non manca qualche passaggio a vuoto (il valzer scipito di "The Horse Life"), ma, nel suo genere, Peddlin' Dreams ha molto da insegnare a tante scalpitanti, nuove leve folk-country. E, pur senza strafare, aggiunge un altro solido tassello a una carriera sempre più ricca e sempre più sottovalutata.
Che non sia mai diventata una vera diva rimane incomprensibile. E se non l'ha fatto quando possedeva tutto - ugola, viso, piglio - è impensabile che possa riuscirci ora che si concede solo la libertà di fare musica per sé. Resta l'immenso affetto di chi l'ha aveva amata, e ora può riamarla di nuovo. Gli altri non sapranno mai cosa si perdono.
(Gianluca Testani, Il Mucchio Selvaggio)
È un periodo di intensa prolificità per la McKee, che dopo un nuovo disco dal vivo (Live - Acoustic tour 2006), torna subito in studio per registrare Late December (2007). È l'ennesima testimonianza della sua attitudine a volersi continuamente smarcare dall'opera precedente: così, abbandonati i languori country di Peddlin' Dreams, riaccende le luci della sua immaginaria Broadway, riprendendo gli spunti pop di High Dive, con accenti ugualmente teatrali ma con arrangiamenti meno carichi. Ecco allora riemergere addirittura quella "A Good Heart" data in pasto vent'anni prima al carneade Sharkey - per la gioia sua e delle classifiche - qui trasfigurata in un contagioso inno gospel. Non meno travolgente è "No Other Way To Love You", un soul Motown anni 60, mandato in gloria dal suo potente vibrato a tutta gola. E "Destine" è l'ideale tema centrale di questo musical webberiano, con la sua intro brechtiana piano-voce, presto scaraventata in un art-rock al calor bianco, che strizza l'occhio a Roxy Music e Queen dei 70's: l'ennesimo capolavoro vocale di una cantante che ormai non ha più niente da dimostrare, come conferma anche la title track, quasi un omaggio al white soul di Laura Nyro, con robusti accordi di piano e schiocchi di dita ad accompagnare una lenta declamazione gospel.
L'eterea "My First Night Without You" si riallaccia idealmente alle ballate rustiche del disco precedente e introduce a una seconda parte di tracklist più marcatamente teatrale, ma anche meno riuscita, dove si alternano tonalità da rock-opera ("Scene Of The Affair") e pose da cabaret alla Kurt Weill ("Cat In The Wall") oltre alla fragorosa (e inconcludente) cavalcata rock di "One Eye On The Sky (One On The Grave)". Chiude una "Starving Pretty" che tenta una fusione a freddo tra le due anime - country e pop - in una sorta di ode universale per tutti gli artisti che vivono di stenti in ogni angolo della Terra: "Lean on me, baby/ we're going to make it/ we're paperthin/we're gonna win...".
Late December è un album raffinato e ambizioso, sebbene parzialmente irrisolto e involuto, soprattutto nella seconda parte. Venuta un po' meno quella freschezza melodica che aveva contraddistinto i predecessori, si fa leva soprattutto sugli arrangiamenti sofisticati e su una voce che è più che una garanzia. Ma non sempre basta.
L'ultimo atto, al momento, è il Live At The Bbc del 2008, un marchio di qualità a coronamento di una carriera solista ormai più che ventennale, che le è valsa il soprannome (più beffardo che lusinghiero, a ben vedere) di Little Diva.
La vita nuova
Nel 2020 McKee rompe un silenzio di 13 anni pubblicando La vita nuova, un’opera catartica, “un’elegia del desiderio”, secondo le sue stesse parole. Trasferitasi a Londra dopo un periodo convulso, a 56 anni, Maria ha ritrovato la forza per sfidare i suoi demoni e guardare il futuro dritto in faccia. È questa La vita nuova. Nel frattempo, dopo il suo coming out pansessuale e il suo attivismo a favore del movimento Lgbt, ha dovuto ridefinire molte relazioni, a partire dal suo matrimonio con il regista Jim Akin. Ha attraversato abissi di dolore, cercando di esorcizzare anche la malattia della madre e il dramma di non essere riuscita ad avere un figlio. E si è concessa stravaganti divagazioni esoteriche e letterarie, dalla frequentazione di una stramba confraternita sulla stregoneria alla sua permanente ossessione per i poeti romantici, in particolare William Keats e Algernon Swinburne. È Dante, però, ad aver ispirato, fin dal titolo, “La vita nuova”, ovvero l’opera sull’amore non corrisposto scritta dall’autore della Divina Commedia a partire dal primo incontro con Beatrice fino alla morte di lei. E i tumulti sentimentali restano il leit-motiv di un’artista sempre candida e appassionata, che non teme mai di esporsi troppo, anche a costo di apparire melodrammatica, come nel vibrato struggente di “Effigy Of Salt”, la ballata maestosa dalle tinte bowiane scelta come singolo, che si gonfia in un crescendo di emozioni e rimpianti.
La produzione è tutta giocata sul filo dell’equilibrio tra afflato barocco – sulle orme della sacra triade Walker-Cale-Bowie – e rigore folk-rock, con un ampio ricorso a piano e archi da una parte, e chitarre acustiche ed elettriche dall’altra. Sul primo versante, svetta il crescendo impetuoso della title track dove la vocalità possente di McKee si manifesta in tutta la sua estensione, assecondata da quelle aperture orchestrali che si rinnovano su “Let Me Forget” infiammando l’apertura sommessa chitarra-piano con una melodia strappacuore, insieme tenera e amarissima, inframezzata dai bagliori psichedelici di un assolo di chitarra elettrica. Il convitato di pietra è ancora una volta il fratello di Maria, Bryan MacLean, chitarrista dei Love scomparso nel 1998, che ha profondamente segnato il suo cammino musicale fin da quando l’accompagnava strimpellando davanti al fuoco nel salotto di casa. A lui, e all’era leggendaria di “Forever Changes”, è dedicata la ballata rock di “Page Of Cups”, con tanto di testo misterioso che discetta di una “musa inaspettata e sorprendente” negli arcani dei Tarocchi minori. Lo spirito dei Love riaffiora anche tra i solchi della più morbida “I Just Want To Know That You’re Alright”, con un titolo che pare stemperare il dolore del distacco dal prediletto Bryan. Il sapore di un addio da lacrime che aleggia anche nella finale “However Worn”, riflessione agrodolce sulle contraddizioni del rapporto con il marito Jim (che co-produce con lei il disco).
McKee convince anche in versione più intimista, come quando si siede sola al piano per intonare la romantica “I Should Have Looked Away” o per inseguire le armonie vocali di Joni Mitchell sul sentiero periglioso di “Right Down To The Heart Of London”, omaggio alla sua nuova patria spirituale e al suo vate Blake; mentre all’altra sua terra d’elezione, l’Irlanda, è dedicata “Ceann Bró”, ispirata dall’amore impossibile tra William Butler Yeats e Maud Gonne e alla loro militanza nella loggia esoterica The Hermetic Order of The Golden Dawn, alla quale la stessa McKee si è avvicinata. A metà tra confessione bisbigliata e rapsodia orchestrale, si situa l’eterea e ammaliante “Weatherspace”, con echi trasognati della Kate Bush di “The Sensual World” e della Tori Amos di “Winter”. A volte si sfocia direttamente nell’autocoscienza, come nei sette minuti e venti di “Courage”, dedicati a una Beatrice “so winsomely arranged” e “rooted to the earth in such an arresting way”, destinataria di un amore inconfessabile (“And I will never have the courage to tell her”) che non sarà mai corrisposto e forse proprio per questo resterà più intenso e bruciante (“I must love suffering!”).
Interamente composto e arrangiato dalla stessa McKee, La vita nuova è un album ambizioso e complesso, al quale si può perdonare qualche eccesso di prolissità, anche per via di un approccio sempre sincero ed emozionante. Più che un diario di memorie, un poema romantico, impreziosito da uno stile lirico e da interpretazioni vocali drammatiche, che sfiorano a tratti toni operistici, aggiungendo ulteriori sfumature alla sua straordinaria gamma vocale. Difficile dire se potrà attirarle nuovi fan, ma certamente è una “manna from the throne” (per citare la sua “Courage”) per tutti coloro che l’hanno sempre seguita e avevano perso le sue tracce, oltre che una riuscita sintesi di tutte le anime della sua arte.
Quindi, a sorpresa, arriva l'imprevedibile ritorno dei Lone Justice. Con un disco che si potrebbe definire "vecchio/nuovo".
Viva Lone Justice (2024) è stato realizzato con la formazione che diede vita al bellissimo Lp d'esordio del 1985: Maria McKee alla voce, il chitarrista Ryan Hedgecock e il bassista Marvin Etzioni, più il contributo del batterista Don Heffington, scomparso purtroppo il 24 marzo del 2021. Come sia stato possibile realizzarlo è presto detto. Qualche anno fa, infatti, dopo la morte di Heffington, Etzioni ritrovò un mucchio di nastri risalenti ai primi anni 90, in cui registrava demo su due tracce con il batterista assieme proprio alla ex-compagna dei Lone Justice, Maria McKee, per il suo secondo album solista, You Gotta Sin To Get Saved. Etzioni ha così proposto a McKee di utilizzare il materiale in un suo prossimo lavoro solista. Ma lei, a sorpresa, lo ha invitato a cercare Hedgecock e a trasformare il progetto in un nuovo disco dei Lone Justice.
In seguito, sono stati scoperti altri nastri e una traccia live (“Nothing Can Stop My Loving You”), che sono stati aggiunti in scaletta. Etzioni ha anche curato la supervisione, usando le registrazioni originali come base e sovrapponendo parti nuove, principalmente le chitarre e le armonie di Hedgecock. Alla compagnia si sono uniti Tammy Rogers (Dead Reckoning) a violino e archi, David Ralicke ai fiati e Greg Leisz alla steel guitar, più Benmont Tench degli Heartbreakers – uno dei deus ex machina del progetto originario - al piano. Gli unici strumenti non sovraincisi sono stati proprio i tamburi di Heffington, per rispetto nei confronti del batterista scomparso, che Etzioni definisce "il nostro Ringo".
Ne è scaturita una raccolta di canzoni divertite e vibranti: emoziona ritrovare McKee con quell’intatta freschezza ed esuberanza, a sgolarsi nel botta e risposta con Hedgecock nella scatenata rilettura del traditional “Jenny Jenkins”. Se però i Lone Justice degli 80’s oscillavano costantemente tra le radici campagnole (o “cow-punk”) e quella tensione rock portata in dote dai loro padrini eccellenti (Tom Petty e Little Steven), questo nuovo lavoro è orgogliosamente piantato in terra country, a partire da omaggi come “Nothing Can Stop My Loving You”, classico scritto da George Jones e Roger Miller e cantato per la prima volta da Jimmy Dean, qui tratto da un concerto del 1984 della band, accompagnata da Joel Sonnier alla fisarmonica; o come la celebre “I Will Always Love You”, impreziosita dal violino di Rogers e dalla steel guitar di Greg Leisz e riportata fortunatamente al suo sobrio spirito originario, quello di Dolly Parton che la scrisse nel 1973, ben prima della stucchevole cover della povera Whitney Houston.
A rinsaldare il legame con le radici anche il ripescaggio del traditional “Rattlesnake Mama”, che i Lone Justice già eseguivano dal vivo nei loro concerti nel 1983 - qui in una versione acustica con Hedgecock all’armonica e Rogers al violino - dell’hillbilly sfrontato di “Alabama Baby” (perla incisa per la prima volta dagli Armstrong Twins negli anni 40) e la rivisitazione rockabilly di “Skull And Cross Bones”, che Sparkle Moore (alias Barbara Morgan) pubblicò nel 1956 come lato B del singolo “Rock-a-Bop”.
Ma soprattutto è un (prevedibile) trionfo della vocalist. McKee troneggia con la sua voce squillante raggiungendo vertici assoluti nell’iniziale “You Possess Me” (firmata da Etzioni), dove canta a-cappella accompagnata da un quartetto di archi e mandolino, nella fiammeggiante cover del singolo del 1978 "Teenage Kicks" degli Undertones, interpretata con puro piglio punk sulle chitarre distorte di Hedgecock, e nella struggente “Wade In The Water” che rinverdisce le radici gospel-spiritual della band con un canto di giubilo che risale ai tempi della schiavitù. A chiudere il cerchio l’altra spiritata reinterpretazione in stile country-swing di “Sister Anne” degli Mc5 con il piano in stile barrelhouse di Benmont Tench e i fiati di David Ralicke.
Al netto di qualche eccesso di esuberanza e di una confezione un po’ amatoriale, Viva Lone Justice è un disco gradevole, che vive soprattutto di sentite reinterpretazioni di classici senza tempo, affidate a una delle migliori cantanti della sua generazione e al suo rodato (all’epoca) ensemble. Non resta che dire “bentornati Lone Justice”, anche se sarà solo per il tempo di una rimpatriata tra vecchi amici.
Grazie anche alla produzione indie post-Duemila, Maria McKee si è accreditata presso uno spicchio di pubblico fedele, che continua a seguirne con attesa e affetto ogni uscita. E non resta così che concludere sottoscrivendo le parole appassionate di Testani: "Che non sia mai diventata una vera diva rimane incomprensibile. E se non l'ha fatto quando possedeva tutto - ugola, viso, piglio - è impensabile che possa riuscirci ora che si concede solo la libertà di fare musica per sé, con l'indipendenza conquistata a forza di rinunce. Resta l'immenso affetto di chi l'ha aveva amata, e ora può riamarla di nuovo. Gli altri non sapranno mai cosa si perdono". Ma - aggiungiamo noi - sono sempre in tempo per rimediare.
LONE JUSTICE | ||
| Lone Justice (Geffen, 1985) | 8 |
Shelter (Geffen, 1986) | 7,5 | |
This World Is Not My Home (antologia, Geffen, 1999) | ||
20th Century Masters - The Millennium Collection: The Best Of Lone Justice (antologia, Geffen, 2003) | ||
Viva Lone Justice (Afar, 2024) | 6,5 | |
MARIA MCKEE | ||
Maria McKee (Geffen, 1989) | 6,5 | |
| You Gotta Sin To Get Saved (Geffen, 1993) | 7,5 |
| Life Is Sweet (Geffen, 1996) | 8 |
Ultimate Collection (antologia, Universal, 2000) | ||
| High Dive (Viewfinder, 2003) | 7 |
20th Century Masters - Millenium Collection: The Best Of Maria McKee (antologia, Geffen, 2003) | ||
Live In Hamburg (live, Viewfinder, 2004) | ||
Peddlin' Dreams (Viewfinder, 2005) | 7 | |
Live Acoustic Tour 2006 (live, Viewfinder, 2006) | ||
Late December (Viewfinder, 2007) | 6 | |
Live At The Bbc (live, Polydor, 2008) | ||
La vita nuova (Fire, 2020) | 7,5 |
LONE JUSTICE | |
Ways To Be Wicked | |
Sweet, Sweet Baby (I'm Falling) | |
Don't Toss Us Away | |
Working Late | |
I Found Love (videoclip da Shelter, 1986) | |
Shelter | |
Dreams Come True | |
MARIA MCKEE | |
Never Be You | |
Am I The Only One | |
Show Me Heaven | |
I'm Gonna Soothe You | |
The Way Young Lovers Do | |
I Forgive You | |
If Love Is A Red Dress (Hang Me In Rags) | |
This Perfect Dress | |
Scarlover | |
Absolutely Barking Stars | |
Life Is Sweet | |
To The Open Spaces | |
Turn Away | |
A Good Heart | |
Late December | |
Effigy Of Salt |
Sito ufficiale | |
Testi di Maria McKee | |
Testi dei Lone Justice |