BELFAST - Belfast si sveglia presto e alle prime ombre della sera si trasforma in una città fantasma. Pochissima gente in strada, anche nelle vie del centro, in quel quadrilatero che unisce idealmente la cattedrale di St. Anne, l’Albert Memorial Clock, il St. George’s Market e l’elegante City Hall. Solo qualche sparuto pub a far baldoria e un silenzio irreale. Una quiete quasi metaforica. Dopo gli anni inquieti e terribili dei Troubles - il periodo, durato fino al 1998, di guerriglia tra l’esercito britannico, i miliziani volontari protestanti e l’Ira - un desiderio di pace sembra aver ormai accomunato tutti gli abitanti della capitale nordirlandese, con, all’apparenza, solo i murales di Falls Road e Derry’s Bogside (cattolici) e di Shankill Road e Sandy Row (protestanti) a ricordare le cicatrici del passato. Non è un caso che l’Onu l’abbia definita la seconda più sicura del mondo per i turisti, dopo Tokyo. Stasera, però, c’è fermento nelle vie che conducono alla torre ad orologio, situata di fronte alla Custom House Square. Perché dopo ben vent’anni, nella città di Van Morrison e George Best, torna PJ Harvey, la vera fuoriclasse del cantautorato al femminile made in Uk degli ultimi tre decenni e mezzo. E c’è anche chi, come il sottoscritto, in viaggio nell’Isola verde, non poteva certo lasciarsi sfuggire l’appuntamento.
Raggiunta con smisurato anticipo la piccola Custom House Square, non resta che cercare riparo dalla pioggia sotto l’unica tettoia presente, in attesa dell’opening act, a cura di Mica Levi, polistrumentista britannica che opera spesso con il monikerMicachu & The Shapes, nonché producer e apprezzata autrice di colonne sonore di film quali “Under The Skin” (2013), “Jackie” (2016), “Zola” (2020) e “La zona d'interesse” (2023). Il suo set propone un mix eterogeneo di punk, lo-fi, elettronica e noise. Sola sul palco, Micachu imbraccia una chitarra scassata e dialoga abilmente con le basi, strappando gli applausi degli spettatori delle prime file, pochi finora, anche a causa della insistente pioggerella che ci accompagnerà per l’intera serata. Appena Mica Levi lascia il palco, inizia un maniacale soundcheck che si protrae per una buona mezz’ora, in attesa dell’agognato avvento di Polly Jean.
È un suono distante di campane a lasciar presagire l’inizio dello show. Entrano tutti sul palco tranne lei, PJ, che si prende qualche istante per conquistare il centro della scena, fissando il pubblico che nel frattempo è considerevolmente cresciuto, anche se – strano a dirsi – non fino a raggiungere quel prevedibile sold-out che alle nostre latitudini sarebbe stato una certezza. Sarà colpa di quei 20 anni di assenza da Belfast?
Mentre ci pensiamo su, Polly Jean, stretta nella sua lunga tunica bianca, ha già attaccato “Prayer At The Gate”, preghiera ancestrale che apre "Orlam", il suo romanzo in versi scritto in dialetto del Dorset. “Wyman, am I worthy? Speak your wordle to me”, sussurra, reggendo quasi da sola il brano, una riflessione sul crinale sottile tra la vita e la morte. È anche l’incipit del suo ultimo album, “I Inside The Old Year Dying” (2023) al quale è dedicata la prima parte del set. Ecco allora scorrere la danza rituale dell'equinozio d'autunno di "Autumn Term", con Polly Jean che si aggira sul palco con movenze stregonesche, tra sparute percussioni e dissonanze, cantando in falsetto: “Salgo tre gradini verso l’inferno, lo scuolabus si arrampica sulla collina”; quindi l’esile ballata "Lwonesome Tonight", che mette al centro la figura cristologica di Wyman-Elvis: “Sei Elvis? Sei Dio? Gesù inviato per conquistare la mia fiducia? Le sue parole sono: ‘Love Me Tender’, come io ti ho amato, così tu devi…”, citando Presley e parafrasando il Vangelo di Giovanni. Dopo l’esoterica "The Nether-Edge" e la spettrale ninnananna della title track "I Inside The Old Year Dying", è un senso di redenzione a pervadere la nuova filastrocca folk di "A Child's Question, August", col suo ritornello tanto semplice e appiccicoso quanto elegante, e l’ancor più sfuggente e sfumata "I Inside The Old I Dying", mentre gli accenni di chitarra slowcore dell’atmosferica "August" preludono alla liturgia luciferina di "A Child's Question, July", in cui PJ duetta con John Parish, il collaboratore di una vita che l’affianca ora anche sul palco. Il capitolo riservato all’ultimo album si chiude sulle aspre distorsioni di chitarra di "A Noiseless Noise", brano ispirato da un poema di John Keats, che vira imprevedibilmente verso territori industrial.
Polly Jean abbandona il palco, lasciando la sua band a eseguire “The Colour Of The Earth”, la ballad dai toni tradizionali che chiude “Let England Shake”. Proprio al disco del 2011 (suo vertice assoluto degli ultimi 25 anni, a giudizio di chi scrive) vengono riservate altre due canzoni: prima la solennità affranta della splendida “The Glorious Land”, col suo campionamento di tromba a suonare l'adunata e l’impeccabile interpretazione di PJ, poi l’eccentrica fanfara folk di "The Words That Maketh Murder", con la nostra che imbraccia l’autoharp e il reiterato verso finale “What if I take my problem to the United Nations?” che scalda un po’ troppo uno spettatore delle prime file, la cui esuberanza da pinte di birra in eccesso viene prontamente sedata dal caustico rimbrotto di un vicino.
È un pubblico strano, eterogeneo - anche molto femminile - quello che è accorso alla Custom House Square: ragazzette punk e goth, coppie di ogni sorta, stagionate lady britanniche, pirati rock dalle barbe rosse, turisti di passaggio. Sembra quasi non vi sia una vera fanbase di Polly Jean, in terra di Nord Irlanda, anche se l’affetto non manca, testimoniato dalle ovazioni e dalle frasi d’amore rivolte verso il palco.
Lei, l’eroina del Dorset, se li osserva tutti, fissandoli col suo sguardo penetrante quando chiude i brani restando teatralmente impietrita e in silenzio. “Grazie per essere venuti in questa serata fredda e piovosa” saranno praticamente le sue uniche parole dell’intera serata, oltre alle presentazioni di rito della band (oltre a Parish, ci sono anche il nostro Giovanni Ferrario al basso, Jean-Marc Butty e James F Johnston). In effetti, comincia a fare proprio freddo: una decina di gradi, che sono pur sempre 25 in meno di quelli che stiamo vivendo in questa asfissiante estate italiana. Ma è soprattutto la pioggia, ora più fitta e insistente, a non dare tregua. Noi, però, siamo troppo presi da Polly Jean per preoccuparcene. Il suo set è un miracolo di sobrietà e perfezione tecnica: non un solo dettaglio fuori posto, inclusa l’ottima band che l’accompagna e le eleganti scenografie di rami del fondale. Col tempo, l’ex-punkette di “Dry” è diventata una interprete davvero raffinata ed eclettica, in grado di spaziare dai registri più lugubri degli esordi alle tonalità acute ed eteree dei suoi ultimi lavori. Una versatilità vocale che si accompagna a quella della sua produzione: nessuna come lei ha saputo spaziare tra le sonorità più disparate, dal punk-rock al blues, dall'electro-trip-hop all’industrial-noise, dal folk al cantautorato poetico e riflessivo del Duemila. Sul palco, aggiunge il suo consueto magnetismo da performer provetta, anche se le mise provocanti e i make-up aggressivi hanno ormai da tempo lasciato spazio a look più austeri e castigati.
La rocker dei 90’s, però, non si è certo dissolta: eccola riapparire sul palco con tutta la sua energia sulle sferragliate di chitarra di “50ft Queenie”, primo singolo dal suo secondo album, “Rid Of Me” (1993), prodotto dal compianto Steve Albini - al quale sarà poi dedicata una toccante “The Desperate Kingdom Of Love” solo voce e chitarra – doppiato da un’abrasiva “Man-Size”, interpretata con piglio folgorante, o sulle cadenze incalzanti dell’inno indie “Black Hearted Love”, dall’album in coppia con John Parish del 2009 (“A Woman A Man Walked By”), e sulle tumultuose vertigini di "Dress", suo primissimo singolo datato 1991: un condensato di pura rabbia, cupa e lisergica, votato all'epoca come singolo della settimana su Melody Maker da John Peel, che ammirava "il modo in cui Polly Jean sembra investita dal peso delle sue stesse canzoni e arrangiamenti, come se l'aria fosse letteralmente risucchiata da questi". Non manca all’appello nemmeno l’intrigante sacerdotessa dark dell'elettronico “Is This Desire?” (altra prodezza, datata 1999), pronta a declamare quasi in ginocchio la litania malata di “The Garden” tra rintocchi funerei di tastiere.
Prima dei bis, è tempo di classici, con la doppietta “Down By The Water”-“To Bring You My Love”, a celebrare il suo album miliare del 1995, in cui PJ coronò la sua trasformazione in sofisticata femme fatale, posseduta dai demoni di un blues dagli accenti biblici e gotici, non distante da quello dell'amico Nick Cave. Al ritorno sul palco, è l’altra evergreen “C'mon Billy” a riannodare il filo di quel disperato rosario di morte e redenzione, prima del finale non meno solenne, affidato a “White Chalk”, title track dell’album che suggellò il suo transito verso un folk confessionale, scarno, dal retrogusto gotico alla Emily Brontë. Un disco che metteva in primo piano la sua voce, mai così dolente e intensa. Ed è così che si congeda da noi, PJ Harvey: tra le esili trame vocali di questa struggente elegia alle scogliere del suo Dorset, dove il gesso bianco taglia il mare e la terra disseminata di ginestre gratta i palmi della mano fino a farli sanguinare.
Si accendono le luci e forse addirittura smette di piovere. Proprio adesso che il concerto è finito. Voltandosi indietro, ora, la piazza ci sembra davvero gremita. Mentre, inzuppati da cima a piedi, sciamiamo verso la Royal Avenue, gettiamo uno sguardo al panorama dei docks del Titanic Quarter, laddove 113 anni fa, nel più grande bacino di carenaggio al mondo, venne costruito il famigerato transatlantico. Un altro simbolo sciagurato di questa città che dalle sue ferite e dai suoi demoni ha trovato la forza per rinascere. Proprio come Polly Jean.
P.S. Su YouTube è disponibile il video integrale del concerto di PJ Harvey al Primavera Sound di Porto, uno spettacolo molto simile a quello che abbiamo cercato di raccontare in questo live report.