Cosa spinge un gruppo rock a stare ancora insieme dopo tanti anni e tanti successi? Sì, a parte il contratto discografico insomma. Non siamo nella testa degli artisti, ma, ascoltando le opere tarde dei Sonic Youth, possiamo supporre che vogliano comunque proporre la loro musica in maniera onesta. Il loro è un marchio di fabbrica, istituzionalizzato né più né meno di qualsiasi altro marchio o logo. I Sonic Youth appartengono all'immaginario collettivo del rock alternativo al mainstream, nel senso stilistico perlomeno, perché dal punto di vista discografico sono dei dinosauri come tanti altri, promossi, pompati e celebrati prima ancora che il loro disco venga piazzato sugli scaffali dei negozi. Raramente però tale riverenza è stata tanto meritata, visto ciò che hanno saputo dare al rock e alla qualità media altissima delle loro uscite discografiche. Propongono la loro musica quindi, in quanto, pur con i fisiologici aggiustamenti ed evoluzioni, anche le escursioni più sperimentali e desuete dei singoli musicisti appartengono più ai progetti collaterali o alle collaborazioni che non alle uscite del marchio, che quindi tale è e deve essere, ed ascoltando un loro disco comunque non si hanno mai delle vere e proprie sorprese.
Ma al di là di tutte queste considerazioni, cosa sono i Sonic Youth oggi, e per quale motivo dovremmo ancora ascoltarli? Già da "N.Y. Ghost And Flowers", e, proseguendo, soprattutto con "Murray Street" ci siamo trovati di fronte alla maturazione di uno stile, a cui Jim O' Rourke ha dato un valido contributo, dove traspare chiaramente una maggiore ricerca del riff limpido, dell'intreccio chitarristico elegante e curato. Nonostante ciò "Sonic Nurse" si apre con "Pattern Recognition", un perfetto e potente brano pop alla gioventù sonica, con Kim Gordon che canta alla sua solita maniera. Un fatto che, se da una parte ci appaga con la sua rassicurante banalità, da un'altra già sappiamo che questo sputo di "Dirty" al terzo ascolto già ci stuferà. Il placido ritmo di "Unmade Bed" ci introduce al primo brano cantato da Thurstone Moore, e vi avverto già da ora che è uno dei migliori del disco, con il suo bridge affidato a chitarre neanche troppo rumorose che ricordano quasi il Neil Young più elettrico (quale miglior referente per un gruppo rock americano nella sua fase di maturità?); non fatevi ingannare dal suono distorto quindi, si tratta di un brano semplice, ma sicuramente migliore del successivo "Dripping Dream", una nenia a cui si vorrebbe dare una scossa facendola infilzare dalla solita chitarra martoriata - fotocopia di tante cose già ascoltate nei dischi precedenti, con le chitarre che si intrecciano dando spesso l'idea di non saper dove andare a parare - e ha per giunta l'aggravante di essere pure lunga.
"Kim Gordon And The Arthur Doyle Hand Cream" come dice il titolo stesso fa fare alla bassista la solita parte della furastica alle prese con gli idoli giovanili di massa, un brano che vorrebbe dare uno schiaffo all'album, con gli spigoli sbilenchi delle chitarre, ma che si risolve anch'esso con il solito ritornello vecchio e decrepito. E' inutile a questo punto descrivere pezzi come "Stones" e "Dude Ranch Nurse", deja-vu noiosi e prevedibili, tra dissonanze consuete e intrecci di chitarra che rimandano fin troppo al passato recente, mancando di quella qualità di scrittura che avevano reso "Murray Street" perlomeno un buon album.
Eppure non tutto è da dimenticare, proprio come conclusione i nostri piazzano due brani che vale davvero la pena ricordare: "I Love Golden Blue" ha un'introduzione quasi ambient, si trasforma poi in una musica in perenne tensione, estatica e eterea, dove Kim Gordon canta quasi sottovoce, dolcemente; anche quando farebbe presagire una scontata esplosione, la scelta è di frenarla in una specie di stasi morbida e soffusa. Un brano in punta di piedi, splendido e spiazzante, che spiana la strada al pezzo conclusivo, dove vediamo Thurston Moore lanciare questa specie di combriccola Crazy Horse in una ballata serena e quasi divertente. E pare di vederli sul palco, ondeggiare con le chitarre, spensierati e contenti, appropriarsi del passato dei classici americani, del rock propriamente detto. Se non suonasse troppo funebre, si potrebbe dire: vorremmo ricordarli così. Ma forse sarebbe meglio, prima che ci vengano davvero definitivamente a noia.
12/12/2006