Quattordici anni di pausa per un disco di inediti sono molti, soprattutto se a seguire è un risultato che non riesce a ripagare le attese. Fa bene ricordarlo, ma Alice, apparentemente scomparsa agli occhi del grande pubblico, a partire almeno dal 1986, oltre che con Franco Battiato, il cui sodalizio artistico è noto a tutti, ha avuto l'onore e il merito di collaborare negli anni successivi con alcuni dei più influenti musicisti d'avanguardia del mondo: Jerry Marotta e Kudsi Erguner (Peter Gabriel), Phil Manzanera (Roxy Music), Tony Levin e Trey Gunn (King Crimson), Paolo Fresu, Steve Jansen, Richard Barbieri e Mick Karn (Japan), Dave Gregory degli Xtc, Jon Hassell, Peter Hammill (Van Der Graaf Generator), Jakko Jakszyk (Level 42), Gavin Harrison (Porcupine Tree), Danny Thompson (Pentangle, Tim Buckley), Skye (Morcheeba), Tim Bowness (No-Man), Ben Coleman, la straordinaria arpa di Vincenzo Zitello e il violino di Stuart Gordon; il talento di autori quali Juri Camisasca; le riletture in musica di Pier Paolo Pasolini. Il tutto mostrandosi aperta alla collaborazione con chi ha valutato come talento di rilievo, nel caso delle fortunate interazioni con Bluvertigo e Soerba.
Annunciato in grande stile, "Samsara" è un album che raccoglie in sintesi le caratteristiche della carriera di Carla Bissi, in arte Alice, in un'ottica ambiziosa ma davvero troppo dispersiva e incoerente. Un album delicatamente pop, che sfiora l'avanguardia cantautoriale nostrana più nobile ma anche più abusata. Un disco che non trova e forse non vuole trovare, una sua collocazione. Il tentativo è di quelli “importanti” si diceva, provare a proporre una canzone colta quanto fruibile, senza risultare elitari, oggi. La cosa riuscita in passato con un capolavoro assoluto, "Il sole nella pioggia", e in buona misura anche con episodi quali "Capo Nord", "Alice", "Park Hotel", "Mezzogiorno sulle Alpi", "Charade" e le affascinanti incursioni nella musica colta dell'ampiamente sottovalutato "Mélodie passagère", di "God is my Dj" e del progetto, tristemente mai pubblicato, "Art & Decoration" (oltre che nelle riletture di "Alice canta Battiato", "Gioielli Rubati" e "Viaggio in Italia"), qui non riesce se non occasionalmente.
Dodici brani più una bonus track, ma è difficile, escludendo le splendide "Un mondo a parte" e "Autunno già", a firma Di Martino, la notevole "'a Cchiu bella" di Totò e Giuni Russo (in una versione ben più interessante nel live "Lungo la Strada") e la sorprendente rilettura di "Al Mattino dei Califfi", trovare episodi che in cui questa direzione siano conseguiti appieno. Non aiuta la produzione di Steve Jansen, esasperatamente levigata, quando non leziosa e con sonorità ormai davvero superate.
Episodi come "Morire d'amore", ispirato alla figura di Giovanna D'Arco e ancora a firma Di Martino, unico vero vincitore della scommessa di questo disco; "Sui giardini del mondo" della stessa Alice e Marco Pancaldi, ex-Bluvertigo; l'inquieta "Eri con me" di Battiato e Sgalambro sono di discreta levatura, ma non convincono del tutto, a causa di una scrittura dei testi a tratti appesantita o per una ricercata immediatezza melodica, in particolare negli incisi.
"Il cielo", celebre brano di Lucio Dalla, se nelle versioni dal vivo è risultato emozionante, qui su disco non convince affatto. L'estensione e il fascino della voce appaiono immutati, ma non lo è invece il timbro dell'interprete, che appare nasalizzato e fastidioso quando ricerca potenza.
Alice si muove con disinvoltura tra i brani, ma solo nelle versioni più scarne riesce a trovare perfetta aderenza, levità e grazia interpretativa che la maturità le ha donato. Non caso i pezzi citati come i più riusciti sono quelli che trovano nell'essenzialità degli arrangiamenti la formula vincente. In tal senso, è davvero imbarazzante il remix di "Cambio casa", che tenta la carta dance su di un testo null'affatto immediato con un esito disastroso. La tanto rimarcata collaborazione con Tiziano Ferro in realtà non produce nulla di interessante, se non l'incontro delle due voci in "Nata ieri", primo singolo dell'album, davvero rimarchevole solo per congruenze timbriche e che ci si aspetta possa avere un seguito con quel tipo di melodie di gran respiro a cui Ferro ci ha abituato e che qui latitano, a favore di un ricercato fare intellettuale che, spiace dirlo, proprio non gli compete.
Un'occasione sprecata e un grande dispiacere, soprattutto in considerazione del fatto che il precedente "Exit" era stato un altro episodio altrettanto discutibile di una carriera che non vorremmo relegata solo a un pur straordinario passato. Sarebbe davvero un peccato mortale.
26/09/2012