Sull’orlo del dirupo
Lo chiamano momentum. L’attimo fuggente, ma anche l’impeto dello slancio. È di questo che si tratta, in fondo, quando si registra un disco: catturare il palpito dell’istante prima che svanisca. Per Bob Dylan, almeno, è sempre stato così: la continua ricerca di una performance irripetibile. Il dodicesimo volume delle “Bootleg Series” ne offre la testimonianza più imponente, tornando sul luogo del delitto della celeberrima trilogia elettrica per portare alla luce il corpus integrale delle registrazioni del 1965-66.
Un materiale già saccheggiato nel 2005 per la colonna sonora del documentario di Martin Scorsese “No Direction Home”, ma che stavolta gli archivi dyaniani restituiscono con una fedeltà più rigorosa che mai. Basti pensare che la “Collector’s Edition” dell’album (a tiratura limitata per soli 5.000 fortunati) inanella la bellezza di 18 cd, con ogni singola nota incisa nelle session da cui sono nati “Bringing It All Back Home”, “Highway 61 Revisited” e “Blonde On Blonde”. Per i comuni mortali, “The Cutting Edge” arriva comunque nei negozi in un formato decisamente sostanzioso di 6 dischi, oltre che nel consueto compendio su doppio cd. A differenza delle ultime uscite targate “Bootleg Series” (e in particolare del monumentale “The Basement Tapes Complete”, imprescindibile in versione estesa), in questo caso il “Best Of” è più che sufficiente a soddisfare l’ascoltatore che non coltivi velleità da completista. Eppure, il fascino dell’operazione sta proprio in quelle decine di take differenti degli stessi brani, capaci di scoraggiare chiunque al di fuori della cerchia dei fan, ma anche di offrire uno straordinario biglietto d’ingresso per il cuore del processo creativo dylaniano.
In appena quattordici mesi, dal gennaio del 1965 al marzo del 1966, la metamorfosi di Dylan è radicale. Le versioni acustiche dei brani di “Bringing It All Back Home” che aprono la raccolta mostrano ancora i tratti familiari del precedente “Another Side Of Bob Dylan”, da una spoglia “She Belongs To Me” ai ritmi spezzati di “Bob Dylan’s 115h Dream”. Poi, l’elettrificazione forgiata con Tom Wilson alla consolle comincia a portarli da un’altra parte. È con la produzione di Bob Johnston, però, che la traversata trova davvero l’approdo: per Wilson il blues ha i contorni spigolosi di una ruvida “Outlaw Blues”, per Johnston ha la rotondità della prima take di “Pledging My Time”, con il suo fronteggiarsi febbrile di pianoforte e armonica.
“Aveva il fuoco nelle pupille”, ricorda Dylan nella sua autobiografia a proposito del produttore di “Highway 61 Revisited” e “Blonde On Blonde”. “Era nato con cent’anni di ritardo. Avrebbe dovuto indossare un ampio mantello, un cappello con le piume e avrebbe dovuto cavalcare con la spada alta in mano”. Un condottiero capace di traghettare la svolta elettrica dalla furia impudente di Newport a quello che lui stesso avrebbe definito “mountainside sound”, un suono affacciato sull’orlo del dirupo.
Ci sono momenti leggendari, tra quelli immortalati sui nastri di “The Cutting Edge”. Primo tra tutti, l’intromissione a sorpresa in “Like A Rolling Stone” di Al Kooper che, non potendo scalzare Michael Bloomfield dal ruolo di chitarrista, va a sedersi clandestinamente all’organo. “What are you doing out there?!”, lo apostrofa Tom Wilson tra le risate. Ma dopo avere sentito la sua parte, sarà Dylan stesso a chiedere di alzare il volume dell’organo… O ancora, la prima apparizione dell’inconfondibile fischietto di “Highway 61 Revisited”, accompagnata anche in questo caso dall’ilarità generale, o Dylan che nel cuore della notte si mette a insegnare alla band la serenata apparentemente senza fine di “Sad-Eyed Lady Of The Lowlands”.
Sul fronte degli inediti, “The Cutting Edge” non riserva invece grandi sorprese. Alcune outtake erano già state pubblicate in precedenza (“I’ll Keep It With Mine” su “Biograph”, “Farewell, Angelina” sul primo volume delle “Bootleg Series”), altre non si distanziano troppo dalle versioni note (da “If You Gotta Go, Go Now” a “Sitting On A Barbed Wire Fence”). Altre ancora non sono che i primi abbozzi di brani ufficiali, come “California” (la futura “Outlaw Blues”) e “Medicine Sunday” (destinata a sfociare in “Temporary Like Achilles”).
Le uniche vere novità (la filastrocca folk di “You Don’t Have To Do That” e la trepidante “Lunatic Princess”) sono poco più che spezzoni incompiuti. Solo per chi dovesse essere disposto ad accaparrarsi la “Collector’s Edition” c’è anche un cd aggiuntivo di registrazioni catturate in varie camere d’albergo durante la vita in tour, che accanto a una sfilza di cover (su tutte quelle di “Lost Highway” e “I’m So Lonesome I Could Cry” di Hank Williams, a testimonianza del legame ininterrotto con la tradizione), regala le sole testimonianze esistenti di “Positively Van Gogh”, una di quelle pagine folli e stralunate capaci di fare la gioia anche dei dylaniani più incalliti.
Aspettando l’imprevisto
Ma “The Cutting Edge” non è un disco di outtake: la sua vera natura si rivela nelle sfumature delle versioni alternative, nell’esplorazione avventurosa di tempi, declinazioni e mood differenti dei brani. A volte sono accessi inattesi di tachicardia, da una saltellante “Just Like A Woman” a una “Visions Of Johanna” che baratta il dipanarsi notturno per un ardore anfetaminico. A volte sono allentamenti di tensione per riprendere il respiro, che trasformano episodi come “Positively 4th Street” e “Can You Please Crawl Out Your Window?” in caroselli carichi di amarezza. A volte, semplicemente, sono tentativi che non riescono a intercettare lo spirito dei brani, come i suoni di campanelli e clacson che si intromettono in “Leopard-Skin Pill-Box Hat” o la band al completo che prova ad accompagnare “Mr. Tambourine Man”, fino a quando Dylan ferma tutti con un perentorio “I can’t do that… Those drums are driving me mad!”.
“Stuck Inside Of Mobile” si veste di inediti ricami acustici (e non caso si ritrova per un attimo “with the Nashville blues again”…), “Desolation Row” si mostra nuda in tutta la sua magnificenza, senza la chitarra di Charlie McCoy ma con un palpitante bordone di basso. Come ricorda Kooper, in quelle session “nessuno aveva il controllo: il controllo del caos generale”. E Bloomfield gli fa subito eco: “Di solito si prende una canzone, la si studia per bene, si tira fuori un arrangiamento e via. In quel caso, invece, tutto sembrava affidato al caso”.
È proprio questo a colpire, nella ricostruzione cronologica delle registrazioni: più che un lavoro di affinamento dei brani, spesso Dylan sembra interessato piuttosto a rimettere tutto in discussione, inseguendo il fatidico allineamento astrale dell’interpretazione perfetta. Il che fa capire anche perché, nel corso degli anni, di questi stessi brani Mr. Zimmerman abbia offerto sul palco un’infinità di trasformazioni: semplicemente, per lui, non ne è mai esistita alcuna versione definitiva.
Tutta la tensione delle sessioni dylaniane sta proprio in questo: l’attesa dell’imprevisto. Qualcosa di non calcolabile, di non preventivabile, di totalmente misterioso. Qualcosa in cui ci si imbatte, e di colpo dà un senso a tutto ciò che è venuto prima. Qualcosa come una pietra che rotola.
In “The Cutting Edge” c’è un intero cd dedicato alla registrazione di “Like A Rolling Stone”. All’inizio è solo un caracollare di valzer, guidato ora dall’armonica e ora dal pianoforte. Materia informe a cui chitarra e voce provano traballando a dare un volto. Dylan e compagni cercano di afferrare la canzone, ma qualcosa continua a sfuggirgli tra le dita, in un susseguirsi di interruzioni e false partenze intorno a quel beffardo “How does it feeeeeel?”. Se non si sapesse già il finale della storia, sembrerebbe impossibile credere che possano riuscire a catturarla.
E poi, alla quarta take del 15 giugno 1965, eccola improvvisamente apparire. La maestosa “Like A Rolling Stone” destinata alla storia. Per tutto il giorno successivo, la band cerca disperatamente di ritrovarla. Accelera il passo, torna indietro, gioca con gli ingredienti. Niente da fare, ormai se ne è andata. “Why can’t we get that right, man?”, sbotta esasperato Dylan.
La ritroverà su un palco di Manchester, quasi un anno dopo. Così diversa, sputata “fuckin’ loud”, eppure così uguale. Del resto, è la natura dell’imprevisto: “Una volta che è accaduto sembrerà inevitabile”, riflette Greil Marcus nel suo libro su “Like A Rolling Stone”. “Ma tutti i buoni motivi del mondo non riusciranno a farlo accadere”. Puoi solo tenere gli occhi spalancati, proteso nel desiderio di sorprenderlo di nuovo. Non nella stessa forma, ma con la stessa verità.
11/11/2015
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