Un solo passo di vantaggio evidentemente non basta più, così John Dwyer ha deciso di giocare d'anticipo a velocità doppia. Nemmeno il tempo di presentare la nuovissima fatica del suo gruppo con relativo cambio di intestazione in Oh Sees (sacrificando quel Thee diventato troppo modaiolo nel mentre), ed ecco che ci piove tra capo e collo l'annuncio beffardo di una prossima uscita autunnale e di un'ulteriore rettifica di ragione sociale, per giunta un ritorno a quando, in un passato remoto ma neanche troppo, questo progetto si celava dietro la sigla acronima OCS (Orinoka Crash Suite, Orange County Sound o quel che preferite). Anche con gli aggiornamenti della line-up si fa ormai fatica a tenere il conto, per cui ci limitiamo a registrare l'ingresso di Paul Quattrone dei !!! al posto di Ryan Moutinho come secondo batterista e l'ennesimo reintegro di Brigid Dawson come corista, mentre è confermato il resto di una sezione ritmica monstre (Dan Rincon e Tim Hellman) oltre al fido Robert Beatty per la parte grafica. Manca all'appello, invece, Chris Woodhouse in cabina di regia, rimpiazzato da un inedito quartetto composto dal frontman, dall'amico Ty Segall, da Enrique Tena e Eric Bauer (quest'anno già al lavoro con i Meatbodies per "Alice").
Non potrà certo essere una sorpresa, allora, che tutto questo brulicante fervore operativo trovi più di un riscontro anche in chiave espressiva dentro "Orc" e nel singolo di lancio "The Static God", soprattutto, perentorio ritorno alla festosa schizofrenia garage-rock degli Oh Sees più classici con quella rombante galoppata a base di lamiere roventi, grovigli di fuzz, canaloni, vocine infantili, coretti e ipotiposi ulcerate o celestiali, a seconda dei casi. Un'impressione di massima poi corroborata dalla guizzante, smaliziata "Nite Expo", robusta trascrizione del verbo ludico della parentesi ricreativa Damaged Bug, solo attuata con elettriche assassine al posto delle tastiere e dell'elettronica casereccia di quel diversivo.
In groppa alla sua creatura sfrigolante, Dwyer si mostra determinato come non appariva da un sacco di tempo, forte di un micidiale impatto sonico che pure non intende fare piazza pulita di quel gusto per le deviazioni e gli alleggerimenti sonori così caratterizzanti negli ultimi lavori dei californiani. Il tutto senza mai interrompere il flusso sonoro torrenziale e ribollente, ora sornione, ora feroce, sempre minaccioso. Se si fa sentire più di una reminescenza dall'insuperato "Carrion Crawler", la più ragguardevole delle differenze è rappresentata dai rullanti, meno percussori diesel e più strumento di improvvisazione eclettica e virtuosista che non pesta mai alla cieca. Così anche la lunga e a tratti lancinante divagazione di "Jettisoned", affidata alla voce di un Dwyer suadente, a un basso melodioso e a sei corde che somigliano a motoseghe, punta più sul decorativismo che non sulla furia nuda e cruda di un tempo.
"Keys To The Castle", dal canto suo, sembra quasi una filastrocca da sciroccati di quelle particolarmente care al capobanda, ma poi viene ingarbugliata dai soliti velenosi assalti frontali e dai bramiti di quella chitarra inconfondibile, oppure mandata ai pazzi in una secca di alienazione, tra jam rallentate fino al parossismo e animazioni etno-spacey che addormentano il gioco con maestria.
La seconda facciata torna però a privilegiare l'elefantiaca inclinazione progressiva del quartetto, esaltata da una certa vena barocca in odor di necrofilia musicale che, ormai è chiaro, va considerata una prerogativa irrinunciabile del gruppo. Ancora una volta, pur con tutti i limiti di una simile missione espressiva, non si può negare che i risultati siano sontuosi e fascinosissimi.
Sommerse e quasi traslucenti, riecco in "Paranoise" le tentazioni kraut di marca Can, per una dilatazione della trama che pare puntare ancora sulle attrattive di un'ipnosi vecchia maniera (si senta anche la rarefazione che fa da cornice al dialogo tra le batterie nel brano conclusivo). Pure in questi momenti di maggior quiete il disco è abilmente perturbato a un livello sotterraneo, tradisce irrequietezza, a meno che - è il caso di "Cooling Tower" - non si opti per una stilizzazione prossima al sunshine-pop per il solo diletto di gingillarsi con un refrain easy listening da scolpire sulla pietra. Quella di "Drowned Beast" è una bestia che affoga in una gentilezza estenuata che risale ai tardi Sixties, in un ritmo narcotico e sotto una bagna di riverberi dietro cui non può che nascondersi lo zampino del buon Ty.
Quello che si configura, insomma, ancor più che in passato, è un notevole compendio dell'arte dwyeriana, fumoso e dispersivo quanto si vuole ma anche impressionante collezione di informi affreschi psych-rock, tratteggiati come solo questa band incredibile sa fare oggi come oggi. Le solite canzoni piacevolmente inessenziali e mandate alla deriva, ma con quel pizzico di eccentrica personalità in più a renderle tutto sommato memorabili.
E ora sotto con il prossimo episodio, ché l'autunno è alle porte!
05/09/2017