All the stars align
Shimmer and shine
I've waited all my life
For such a night
C'hanno lavorato su in gran segreto, a questo inaspettato ma tanto sperato ritorno, due anni fa in piena pandemia. Gli Everything But The Girl ormai sembravano destinati a coltivare le proprie carriere individuali, musicali e non - Ben Watt principalmente come affermato dj, Tracey Thorn in qualità di cantante solista e di autrice letteraria (quattro libri all'attivo, tra cui l'imperdibile autobiografia "Bedsit Disco Queen") di ormai consolidato talento - eppure l'annuncio dell'uscita di "Fuse", undicesimo album del duo formatosi a Hull nel 1982, è stato il più classico dei fulmini a ciel sereno.
Complici le circostanze che hanno permesso ai due partner di trascorrere più tempo insieme, a ventiquattro anni di distanza dall'ultimo "Temperamental" si sono detti: "perché non riprovarci?".
Strana bestia, in genere, il comeback album. Spesso promette molto e mantiene poco, quando non si rifugia direttamente nella facile nostalgia, nella ruffiana riscrittura dei vecchi successi, pur dimostrando di non aver vissuto per tanti anni in un eremo con i tappi alle orecchie ospitando l'artista di grido, nel best of ricantato per racimolare soldi di royalties. Ma in fondo chi conosce la coppia inglese sa bene che ha sempre rimescolato le carte, senza pubblicare sostanzialmente mai un album che suonasse uguale al precedente, anche pagando il prezzo di disorientare il proprio pubblico e sovvertendo le più tradizionali regole del music business - gli Everything But the Girl ne hanno combinate di tutti i colori, dall'andare in vacanza proprio mentre "Each And Every One" nel 1984 era in classifica (con estremo disappunto della casa discografica) al rifiutare di presenziare a Top of the Pops per semplici motivazioni di principio, dal pubblicare come singoli canzoni non incluse negli album appena usciti (come accadde con "Mine") e con uno stile non poco divergente da quello cui i fan si erano appena innamorati fino ad abiurare tout court il passato registrando una cover di una hit di Rod Stewart che la Warner Bros. pubblicò nel 1977 per impedire ai Sex Pistols (idoli della Tracey adolescente) di arrivare al primo posto in classifica con "God Save The Queen".
Tracey riuscì persino a lasciarsi sfuggire un sacrilego "odio i Beatles" in sala d'incisione con la band assemblata dal produttore stellato Tommy LiPuma per il raffinato soul-pop jazzato di "The Language Of Life", quando i musicisti scoprirono, con stupore e ammirazione, che un loro album era stato registrato presso lo Studio 2 di Abbey Road in cui incidevano i Fab Four. Insomma, non sono mai stati esattamente - nel bene e nel male - artisti mansueti e prevedibili.
Dunque è con grande sollievo che ci si approccia a questo nuovo "Fuse", non proprio un sequel di "Walking Wounded" (il loro album più venduto, con un milione e mezzo di copie smerciate) o del successivo, più incerto "Temperamental" ma un capitolo del tutto nuovo, che conserva il modus operandi dei predecessori che vennero realizzati principalmente in solitaria con sintetizzatori, registratori, hard disk e un Mac pur con il coinvolgimento di mani e orecchie esperte. Qui con loro stavolta il terzo incomodo è Bruno Ellingham, un ingegnere del suono che nel 2012 ha curato il missaggio della ristampa di "Blue Lines" dei Massive Attack e negli anni ha lavorato a stretto contatto con i Portishead, gli Spiritualized e gli Elbow: il suo aiuto ha permesso al disco di essere un'indovinata fusione tra l'anima folk e acustica (mai del tutto scomparsa, neanche ai tempi dell'infatuazione per il drum'n'bass) e quella più votata al dancefloor, più curiosa nei confronti del nuovo e delle possibilità offerte dall'elettronica, tra ritmi spezzati e sincopati, arpeggi sognanti di pianoforte catturati durante i provini grazie a un iPhone, melodie "spaziose", testi evocativi e malinconici ricchi di messaggi e di personaggi vivi, eppure quasi dipinti su una parete.
Tracey Thorn non ha perso la voglia di rischiare camminando imperterrita sul filo tra il sublime e il ridicolo, e dopo aver raggiunto la fama con la frase "e mi manchi come la pioggia manca al deserto" (bella immagine, potremmo dire, ma siamo davvero sicuri che sia così?) oggi in "No One Knows We're Dancing" ci racconta di un certo Fabio da Torino con la sua Fiat Cinquecento piena di vecchi scontrini di parcheggi mentre Amy, che lavora in un negozio di animali, mescola la vodka con la cola e dentro il locale conosce tutti per nome. A completare il quadro c'è Peter, il cui padre è un avvocato che lavora per il Parlamento Europeo e vive tra Londra, Parigi e Monaco (manca giusto New York nell'itinerario e sarebbe una giocosa citazione di "Pop Muzik"!). Non solo, Thorn riesce a comporre un testo lasciandosi ispirare dal completamento automatico di un motore di ricerca - "Lost" è musicalmente una gemella di "Invisible" dei Pet Shop Boys separata alla nascita - quasi per tenerci un po' a distanza mentre ricorda il dolore causato dalla perdita di sua madre.
Tornano anche riferimenti all'ageing, nello specifico alla menopausa, nell'obliqua "Interior Space" ("and no, I don't bleed/ and yes, I am freed/ but what is that worth?/ are we all about birth?").
Ben Watt, come sempre, mette a disposizione la sua expertise e la sua profonda conoscenza delle tendenze del pop elettronico e della club culture degli ultimi vent'anni riportando in auge il garage in "Nothing Left To Lose" - in tutto e per tutto una nuova "Before Today", con la voce di Tracey amabilmente consumata dal tempo, più scura, ruvida, profonda, ma pur sempre unica, perfettamente al centro della scena a districarsi su una base tra Artful Dodger e i Royksopp di "49%" - e donando altresì all'intensa "Run A Red Light" tinte alla James Blake, con un arpeggio pianistico vagamente radioheadiano (altezza "Pyramid Song", tanto per gradire) e una chiusura atmosferica degna di "I'm Not In Love" dei 10cc a sonorizzare un "carpe diem" di un habitué del dancefloor che tenta in tutti i modi di mascherare le proprie insicurezze ("dimentica il mattino/ questa è la notte").
Altrove, Ben e la sua quarantennale compagna d'arte e di vita indugiano in recuperi ottantiani talvolta insoliti per la loro storia (la progressione di accordi cui si appoggia la melodia vocale di "Time And Time Again" è quella di "Kayleigh") o in pastiche in odore di Goldfrapp e, ancor di più, di M83 ("Forever" a tratti suona come la loro personale rilettura di "Midnight City").
Tracey gioca con i filtri in "When You Mess Up", come se in cabina di regia ci fosse un Mirwais eccitato alla consolle, e manifesta la voglia di evasione e di condivisione dopo anni stranianti di isolamento nel "Karaoke" che chiude questi trentacinque minuti di nuova musica. Cosa c'è in fondo di più liberatorio di mettersi al microfono, per far partire la festa o per lenire il dolore dei cuori spezzati? Tra qualcuno che accenna un Bob Dylan e chi gigioneggia su Elvis, perché non farsi coraggio come quella ragazza che ha il pubblico ai suoi piedi non appena parte sulle note di "Spotlight"?
Hanno fatto bene, gli Everything But The Girl, ad annunciare il proprio ritorno a disco concluso. In questo modo hanno potuto riconnettersi l'uno con l'altra dopo molto tempo in cui non hanno lavorato in tandem (e qui il coinvolgimento di Tracey è pieno, al contrario di "Temperamental" in cui si era sentita poco più che una guest vocalist visto il ruolo di neo-mamma a tempo pieno di due gemelle ora adulte). La simbiosi, come si può ascoltare, è ancora ai massimi livelli. E il pubblico lo ha pienamente riconosciuto, specie nella nativa Inghilterra in cui "Fuse" è ad oggi l'album del duo che ha raggiunto il miglior piazzamento in classifica debuttando al terzo posto (con "Walking Wounded" arrivarono quarti). L'Italia li ha amati all'inizio, li ha abbandonati per poi ballarli in discoteca (e sul palco del Festivalbar) con "Missing" anni dopo, ma il cinquantesimo posto non è affatto un risultato da minimizzare. Finalmente un album di ritorno che non sa di minestra riscaldata. E chi poteva realizzarlo se non loro?
30/04/2023