Il quarto album dei Royal Blood, pubblicato giusto un anno prima del decennale del loro disco d’esordio, è un passo deciso in una direzione nuova. Questa la prima cosa da dire: dove porterà questa direzione è ancora impossibile saperlo ma una cosa è sicura: il duo inglese non si accontenta più della musica rock. Non sono i primi, naturalmente: anzi, si inseriscono in una lunga fila che fa capo a una tradizione, particolarmente viva in terra inglese, di band che partendo da afflati rock energici e chitarristici presto si sono stancate e hanno iniziato a produrre musica più raffinata, ricercata, complessa. Dai Kinks ai Jam fino ai Radiohead e agli Arctic Monkeys, questi ultimi due particolarmente emergenti tra i suoni di questo album: che i Royal Blood rappresentino effettivamente un nuovo nome in questa lista di eccellenze, è ancora da vedersi.
Certo è che “Back To The Water Below”, il nuovo album, non suona come i Royal Blood che siamo abituati a conoscere. Molto meno rock, molto meno “riff-centrico”, perpetua la ricerca di alternative adottata in “Typhoons” (2021) ma scartandone le vaghe ispirazioni dance (che richiamavano alla mente Daft Punk e Justice), dandosi qui invece a un tipo di rock più paludoso, acustico con costruzioni atmosferiche e arrangiamenti allargati non solo a piano e chitarra acustica ma anche a effetti e contorni che inspessiscono il sound della band rendendolo allo stesso tempo emancipato da ogni cliché rock. Niente più riffoni alla Queens of the Stone Age, abbandonate le impietose ritmiche garage dei primi lavori, scartata quasi con disinteresse quell’energia marca punk inglese con la quale si sono fatti notare lo scorso decennio.
Concettualmente l’album è diviso tra le varie anime della band, che nelle liriche esprime il bisogno di scatenarsi ed esplodere (“Sono una bomba a tempo hooligan/ Venuto per accendere la tua miccia”) ma anche quello di superare le avversità e crescere, argomento già alla base di “Typhoons” (“Colui che brilla nel buio/ Sul mio cuore porto i segni che lo provano”), in un continuo dibattersi tra entusiasmo per il presente, ansia per il futuro e rimpianti per il passato. Rivelatrici, in particolare, le liriche di “Pull Me Through”, canzone che dice tutto già dal titolo: “Affondando verso il fondo/ Perso ma non dimenticato/ Giù per andare ancora/ Il cuore che oscilla come un sacco da boxe”. Quello che emerge dalle parole cantate da Mike Kerr è comunque un’esposizione di fragilità quasi anche coraggiosa (per quanto, ormai, sempre più diffusa anche tra i gruppi rock più “hard”), poetica e certamente toccante, per quanto non esattamente originale. In “Waves” sentiamo: “Ma dove andrei? Che cosa prenderei?/ Se mai mi trovassi a scivolare via/ Non lasciarmi soffocare come se non fossi nulla da salvare/ Se mi perdessi giù sotto le onde”. La parola d’ordine è: resistere. Spingere avanti, re-inventarsi, cambiare e, perché no, chiedere aiuto.
Nell’esprimere tutto ciò musicalmente, un chiaro aspetto che emerge sta nella volontà di Kerr di migliorare e mettersi alla prova come vocalist, quasi più che come bassista e strumentista. Allo stesso tempo, il largo impiego di sonorità differenti, quasi tutte escogitate da lui, testimonia anche una crescita come autore e frontman, la ricerca di una propria cifra stilistica che superi aspettative e banalità e giunga a esprimere quello che davvero lui vuole. In questo Kerr sembra avviato alla costruzione su di sé di un’altra tipica figura inglese, quella del leader di progetto musicale poliedrico e onnipresente, che prende sulle sue spalle la responsabilità di guidare la band e ne fa veicolo per la sua propria poetica. Tornando agli esempi di prima: Ray Davies, Paul Weller, Thom Yorke, Alex Turner; anche se è vero che i rapporti di “potere” in tutte queste formazioni non sono sempre gli stessi (e nei Royal Blood, del resto, c’è sempre anche Ben Tatcher), Kerr sembra cionondimeno, per quanto forse pure a sua insaputa, guardare per il suo futuro come musicista all’ambizione che ha caratterizzato le carriere di questi altri grandi miti.
Per quanto comunque lo spostamento verso nuovi suoni più morbidi sia palese, non è che l’album manchi di pezzi forti, dinamici e potenti: già la traccia d’apertura, “Mountains At Midnight”, reitera la formula QOTSA già sperimentata in passato con un sound heavy e incisivo, che prosegue poi con un ritmo più sostenuto ma accenti sempre duri in “Shiner In The Dark”.
Ma le cose iniziano già a cambiare dalla terza traccia, “Pull Me Through”: un brano che si apre con una chitarra acustica e segue una progressione di accordi atipica, lontano dal rock e dallo stoner e più vicino a un certo alternative folk anni 90 o forse anni 00. Nel refrain Kerr lavora molto su melodie e arrangiamento nel conferire carattere a una semi-ballad dai toni inquieti, un po’ grunge, già di per sé differente da tutto quanto il duo ha fatto in precedenza.
Con la quarta traccia, “The Firing Line”, la ricerca di un suono differente si impone appieno: i nomi che vengono in mente qui sono quelli dei Radiohead di “The Bends”, o dei primissimi Muse. Questi non sono i Royal Blood, o perlomeno non sembrano affatto loro; ed è un bene, intendiamoci. La canzone è forse la più interessante dell’album, tesa, suggestiva, cinica, basata su un sottile riff ascendente e su accenti pallidi in un refrain emotivo e melodioso, nel quale il piano gioca per la prima volta un ruolo prominente.
“Tell Me When It’s Too Late” e “Triggers” sono brani più dimenticabili, specie il secondo, in quanto compiono un passo indietro riportando ai Royal Blood del primo album e soprattutto di “How Did We Get So Dark?” (2017), ma sempre con un lavoro nei dettagli e nella ritmica che non può non far emergere una certa evoluzione, sia pure anche solo nell’abilità tecnica del duo; che poi, in questi due brani, si spinge a tratti fino al prog. In ogni caso Kerr è deciso a decorare anche i pezzi più rock dell’album con contorni di synth, tastiere ed effetti che li fanno suonare più pieni, eterei, atmosferici. Non più, quindi, quel rock essenziale da club, ma una musica di ampio respiro, destinata a un grande pubblico e a chi ha un orecchio abituato a suoni molto diversi.
La malinconica “How Many More Times” riprende la politica del cambiamento, mescolando acustico ed elettrico, elegante e distorto in una canzone che sa molto di Liam Gallagher (i suoi lavori da solista, si intende) o forse di qualcosa di Miles Kane o dei Last Shadow Puppets. Forse il primo brano nella carriera dei Royal Blood che si possa definire prettamente britpop, nel senso più tradizionalmente musicale del termine.
“High Waters” è un altro brano rock composito, nel quale Kerr concerta armonie e arrangiamenti in un wall of sound esemplare che nello stile ricorda quello dei colleghi coevi Nothing But Thieves: un pezzo breve ma convincente, specie dopo il secondo ascolto. In “There Goes My Cool” emergono di nuovo molto decisi gli spettri di Miles Kane e Alex Turner, e sembra davvero che la canzone possa trovare posto nel più recente album di The Last Shadow Puppets, “Everything You've Come To Expect” (2016), o forse anche nell’ultimo degli stessi Arctic Monkeys, “The Car” (2022). Anche qui il rock dei Royal Blood non somiglia affatto al rock dei Royal Blood: il duo prende un po’ a piene mani da tutta la scena inglese degli ultimi dieci anni, con tratti di indie, tratti di brit, e quel certo accento un po’ immancabile in ogni produzione British ambiziosa che guarda indietro fino ai Kinks e ai Beatles.
Nella produzione di “Back To The Water Below” i Royal Blood non accettano compromessi e lo prova la traccia di chiusura, “Waves”: una ballata, più lenta e sensuale ma anche più triste di tutte le altre canzoni, nella quale davvero si stenta a riconoscere il tocco di Kerr e Tatcher. Il batterista si ferma su un tempo base, senza fill incredibili o fronzoli, mentre il cantante dà tutto sé stesso vocalmente e nel ricamo, ancora una volta, di un insieme di suoni cuciti insieme per creare una composizione levigata, strutturata, audace che si risolve in una coda rock intenzionalmente sporca e caotica. La chiusura ideale per un album che, forse, sarà ricordato come l’inizio di una nuova fase per la band inglese.
17/09/2023