A volte essere se stessi è l’atto più politico che si possa commettere
(Boy George)
Tutta la questione della fluidità di genere, della possibilità di essere chi si vuole, l’abbiamo fatta noi e abbiamo fatto in modo che diventasse persino di moda
(Robert Elms)
Diciotto mesi per cambiare la vita a un’intera generazione di outsider. Ovvero, i Blitz Kids, figli degeneri del punk, irrimediabilmente corrotti da un gusto decadente e narcisista che partorirà un’estetica capace di unire musica e moda in un voluttuoso abbraccio di nome “new romantic”. Epicentro della rivoluzione, il londinese Blitz Club, che nella mitologia dei fan occupa ormai un posto fisso accanto a tempi storici della popular music come i newyorkesi Cbgb e Studio 54. Il documentario “Blitzed”, disponibile su Netflix, disvela questa epopea, cancellando triti cliché e riportando a galla la vera essenza di quel movimento. Già, perché i neoromantici d’Albione, dietro i vistosi make-up e le capigliature cotonate, coronarono una svolta simile a quella compiuta una decina d’anni prima dai fratelli maggiori del glam – non a caso sarà proprio David Bowie il loro sempiterno nume tutelare. Se i giovani dudes dei 70’s avevano trasformato il rock "sangue sudore e lacrime" in uno sfrenato festival del kitsch, tra lustrini e paillettes, piume di struzzo e tutine spaziali, i Blitz Kids ne mutueranno l’ideologia libertaria e anticonformista – oltre che il travestitismo e l'ambiguità sessuale – in una nuova ubriacatura di look sgargianti e provocazioni culturali che alla spoglia desolazione del punk sostituirà un sogno in technicolor.
Un calzino da rivoltare
La Londra di metà anni 70 è descritta come una metropoli degradata e stagnante, che recava ancora i segni delle ferite della seconda guerra mondiale, visibili in parecchie aree bombardate. Ma a rendere il clima plumbeo erano soprattutto le laceranti tensioni politiche, con violenti scontri nelle strade e le dilaganti piaghe della xenofobia e dell’omofobia. “La Gran Bretagna era come un vecchio paio di calzini lasciati sotto la pioggia due settimane e poi induriti nel forno”, secondo la colorita metafora dello scrittore Chris Sullivan, tra i tanti protagonisti intervistati nel documentario dai registi Bruce Ashley, Michael Donald. Fino a quando, nel lungo inverno del malcontento che si andava acuendo negli anni 80, la cultura notturna diventò un atto sovversivo contro la mano pesante di Margaret Thatcher.
Il punk prima, con il suo disperato nichilismo, e la new wave poi, di cui il movimento new romantic fu una costola, nacquero in reazione al clima plumbeo di quegli anni. Con approcci diametralmente distanti, ma con almeno due elementi in comune: l’inclinazione a sovvertire la moda, giocando sui look estremi – non a caso tutto nacque nel negozio di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren al 430 di King's Road - e quell’ottica do it yourself, che contribuì a spingere verso la musica legioni di giovani britannici, anche con pochissime sterline in tasca. “Ce la puoi fare: tre accordi e puoi diventare un musicista”, fu il messaggio che sostenne la cultura britannica da lì in poi, come sottolinea nel film Robert Elms, scrittore e guru dell’era new romantic, ricordando anche quale fu il big bang per la generazione Blitz: l'esibizione di David Bowie a Top Of The Pops nel 1972 con “Starman”. Capelli arancioni e tuta colorata dal taglio androgino, Bowie stregò 15 milioni di spettatori britannici, piantando il seme di una rivoluzione estetica. Molti di coloro che avrebbero frequentato il Blitz, o che sarebbero diventati figure chiave delle scene punk e new romantic, erano tra il pubblico del suo concerto alla Wembley Arena nel 1976.
È un racconto corale, quello di “Blitzed”, con l’intento di svelare a poco a poco tutti i tasselli di quel mosaico generazionale che portò alla nascita del tempio new romantic di Covent Garden. Musicisti come Gary Kemp (Spandau Ballet), Boy George (Culture Club), Midge Ure (Visage, Ultravox), Rusty Egan (Visage) e Marilyn, artiste della moda come Fiona Dealey, Princess Julia e Michele Clapton e scrittori come i succitati Chris Sullivan e Robert Elms (ideatore, tra l’altro, del nome Spandau Ballet) aiutano a comprendere quale fu la spinta che accomunò i Blitz Kids nel loro incontenibile desiderio di emancipazione sociale e culturale.
Poi, però, come spesso accade, serviva qualcuno in grado di saper cogliere la scintilla. Figura ravvisabile nella circostanza in un bizzarro outsider gallese di nome Steven John Harrington, per gli amici Steve Strange, futuro leader dei Visage. Frequentatore abituale del PX di Covent Garden - negozio noto per abiti eccentrici come le maglie da "cosacco spaziale" con spalle imbottite e strisce di diamanti (!) - decise assieme al batterista dei Rich Kids, Rusty Egan (del quale accludiamo una mirabile playlist), di organizzare una serata alla settimana per la variopinta tribù che frequentava la bottega. Un martedì di novembre del 1979, finalmente, i due riuscirono a concretizzare il loro sogno in un locale di nome Billy’s, a Soho, con una serata dedicata a David Bowie dall’estetica decadente stile Germania di Weimar. Leggenda narra che fu proprio quella sera che il manager dei futuri Spandau Ballet, Steve Dagger, spinse Gary Kemp a fondare una band in grado di rappresentare quella nuova scena e che quest’ultimo corse a comprare un sintetizzatore il giorno successivo.
Only the weird and the wonderful
Quindi, l’appuntamento settimanale traslocò in un altro locale più adatto: il Blitz Club a Covent Garden, per l’appunto, dove il martedì sera divenne l’appuntamento fisso per tutti gli outsider londinesi, che facevano a gara su chi si fosse vestito nella maniera più stravagante. Con tanto di vere e proprie fazioni, dalla rappresentanza del Galles capitanata da Steve, al blocco di Bromley di cui faceva parte Siouxsie Sioux, nonché il gruppo della scuola d’arte e moda di St. Martin. Il dress code, stabilito dall’arbiterelegantiarium Strange puntava a privilegiare "only the weird and the wonderful", come efficacemente raccontato da Marco Bercella nella recensione del brano-simbolo di quell’era, “Fade To Grey” dei Visage: “Mentre l'amico Rusty Egan è alla console a sparare sulla pista da ballo Giorgio Moroder, i Kraftwerk, la Yellow Magic Orchestra, i Roxy Music del nuovo corso, naturalmente il Bowieberlinese, e le neonate leve sintetiche inglesi, Steve - novello Nerone - è posizionato all'entrata del locale, e col movimento del pollice decide insindacabilmente chi può accedere alla festa e chi no. Alla larga i freak, i punk sciamannati, i collegiali, quelli coi jeans svasati e la t-shirt, dentro i pirati dal trucco stilizzato (gli Spandau Ballet furono definiti “pirati spogliarellisti” dalle cronache dell’epoca, ndr), gli chic effeminati, gli agghindati con abiti geometrici, le capigliature cotonate e così via. La cifra stilistica dei cosiddetti Blitz Kids rifugge, insomma, la sciatteria e l'anonimato a favore di una connotazione creativa ed eccentrica, mettendo alla porta tanto l'estetica giovanile britannica quanto quella americana, in favore di una rivisitazione in chiave chic-kitsch della Mitteleuropa finita sugli scudi proprio grazie a Moroder, ai Kraftwerk e a quegli esuli anglo-americani che hanno riscritto da Berlino le pagine del rock d'avanguardia nel triennio 77-79 (la sacra triade Bowie-Eno-Iggy, per intenderci)”.
Il Blitz club divenne così un simbolo di resistenza e di sperimentazione, dove il "freak" era celebrato e la normalità era rifiutata. Con alcuni risvolti paradossali come quando finanche Mick Jagger venne clamorosamente escluso. “Non sei vestito abbastanza bene”, lo liquiderà alla porta Steve Strange tra l’incredulità generale. “Fu un gesto punk”, ironizza un ancora divertito Boy George. Ma ciò che può apparire elitario esprimeva invece un senso di protezione verso quella piccola comunità: “I ragazzi che vengono qui si impegnano tanto nel vestirsi e quando entrano da quella porta, vogliono sentirsi al sicuro”, spiega lo stesso Strange in un filmato d’epoca. “Io mi mettevo in ghingheri anche per andare a comprare il latte, non lo facevo per farmi accettare da Steve Strange”, chioserà un lapidario Marilyn, rimarcando anche la differenza con i poser che sarebbero arrivati in seguito. È invece Boy George a ricordare il suo rapporto conflittuale con gli Spandau Ballet, dipinti come "borghesi" rispetto all’estetica più provocatoria del Blitz, a testimonianza di come anche quella micro-comunità fosse attraversata da qualche divisione.
Nei corridoi e nelle sale da ballo del Blitz, tra candelabri e arredi aristocratici, sbocciarono artisti chiave del decennio 80 come Spandau Ballet, Culture Club, Ultravox, Visage, Adam Ant, Sade. E prese forma un’estetica in grado di condizionare non solo la scena musicale ma l’intera moda europea, con fior di stilisti destinati a dettare legge sulle tendenze giovanili per almeno un quinquennio. Come ricorda Robert Elms in un vecchio articolo su Independent: “C’era un’aria inebriante in quel seminterrato soffocante, una fervida, prepotente ondata di desiderio adolescenziale, che si mescolava alle tensioni dei Roxy e Kraftwerk per trasportarti lontano, fuori da quella misera Inghilterra . Ma non si trattava solo di evasione; gli adolescenti che lanciavano forme stravaganti stavano modellando la strada da percorrere, ragazzini duri con idee e ambizioni grandi come i loro capelli. Ma era molto più di questo; è stato un lampo accecante del futuro, una premonizione di tutto: da Mtv, alle etichette dei designer, dalla liberazione gay agli integratori di stile, dal culto delle celebrità alla cultura rave”.
L’apparizione del Duca Bianco
In questa mitologia di nightclubbing – narrata da “Blitzed” con un ricco corredo di commoventi immagini e videoclip d’epoca – c’è una data da segnare con il fatidico circoletto rosso: 1° luglio 1980. La sera in cui sua maestà David Bowie scese nel seminterrato di Covent Garden per reclutare le comparse del suo video di “Ashes To Ashes” proprio tra i devoti che davano vita a sfrenati party in suo onore – e che nel documentario raccontano con intatta emozione quell’evento messianico. Comparirà anche il buon Steve Strange, nel celebre videoclip di David Mallet con Bowie che indossa il costume da clown disegnato da Natasha Kornilof, e “Ashes To Ashes” resterà la pietra cardinale dell’intero evo new romantic. Quarantuno anni dopo, invece, l’abito indossato dal Duca Bianco in quella sua incursione al Blitz, disegnato su misura dal suo designer di fiducia Issey Miyake, verrà battuto all’asta per quindicimila sterline.
Naturalmente “Blitzed” si regge anche su una preziosa colonna sonora, che non funge solo da accompagnamento, ma si fa protagonista. Attraverso pillole sonore di David Bowie, Kraftwerk, Roxy Music, Visage, Spandau Ballet, Duran Duran & C. si viene catapultati in un mondo dove il glamour decadente si incontrava con un senso di alienazione urbana, riflesso nel suono glaciale dei sintetizzatori, nelle linee di basso profonde e nelle ritmiche meccaniche che evocavano le atmosfere cupe della disillusione post-industriale. Il compito di sottolineare le evoluzioni musicali e tecnologiche apportate dall’era new romantic è affidato a colui che nei titoli di coda è descritto come “pioniere elettronico”: Midge Ure, frontman degli Ultravox, che ricorda l’entusiasmo quasi infantile con cui scopriva le potenzialità creative dei nuovi sintetizzatori, in particolare il Polymoog, usato per creare il suono futuristico e atmosferico che divenne il marchio di fabbrica di canzoni come "Vienna". Un imprinting sonoro che sarà trapiantato in innumerevoli realtà musicali a venire, non esclusi i Daft Punk, espressamente citati nel finale del film.
Piccolo documento prezioso di una scena eternamente sottovalutata (anche oggi, quando gli 80’s sono stati riesumati e riletti in tutte le salse) alla pari del recente – e ottimo - “Wham!”, “Blitzed” condensa in 90 minuti la rivoluzione fraintesa di un decennio intero, quando l’edonismo e la libertà sessuale furono visti alla stregua di un’evasione e non come una rivolta contro l’ipocrisia della società benpensante e ideologizzata dell’epoca. E se il punk – come dice Elms – “fu come un fuoco d’artificio”, destinato per sua natura a durare poco, altrettanto si potrà dire dell’epopea del club di Covent Garden. Ma quei 18 mesi bastarono a segnare un’intera generazione.