DEBRIS HILL / NEW ADVENTURES IN LO-FI - Split (2017, Dotto/diNotte/Stop Records/Screamore)
emo-rock, math, emowriting
Una vera chicca (ovvero probabilmente il massimo a cui una pubblicazione di questo tipo può aspirare) questo split tra due nomi di culto della scena emo/rock underground italiana, i Debris Hill di Michele Zamboni e i New Adventures in Lo-fi di Enrico Viarengo. Per una volta non è una valutazione fatta a freddo, non c'è bisogno di evocare la retorica della "bontà dell'operazione", dei "segnali di vitalità della scena", perché i pezzi dello split, pur nella brevità di questo lavoro, comunicano tutta la generosità di una pubblicazione tutt'altro che estemporanea, ma piena di spunti e, soprattutto, di belle canzoni. Prima arrivano quelle a firma Debris Hill, che smette un po' dell'immediatezza del precedente Lp per ammiccare al math e alla scena di Chicago, con un arrangiamento alla Sea and Cake per "Dinamo". "Connewitz", con il suo quiet-loud skateboardistico, ritorna dalle parti più conosciute a Debris Hill, ma con una costruzione e un impeto di primissima categoria. Azzeccatissima anche la maggior presenza vocale dell'ottima Silvia Morandi. Non sfigurano assolutamente i brani a combustione lenta dei NAILF, che, pur nella veste "rock", ritrovano l'urgenza e il tiro dei primi lavori, proiettando tutto in una nuova maturità. Soprattutto lo spoken word di "Why Don't You Dance?" trova la giusta misura per sconfinare, al momento giusto, nell'emo-pop. Anche "Defective" restituisce profondamente ai NAILF il distintivo di campioni dell'emo più "sentimentale". Lodi a parte per l'artwork, disegnato e progettato dallo stesso Michele Zamboni (!) in stile vagamente popwave (!) (Lorenzo Righetto 7/10)
EST-EGÒ - Est-Egò (2016, Nøeve Records)
psych, post-rock
Ep d'esordio dal concept decisamente strutturato per questo quartetto torinese che si muove con agilità tra attitudine post-rock e cosmologia prog-psych. Il progetto nasce nel 2015 intorno alla figura di Davide Invena (già chitarrista su "Amantide Atlantide" di Daniele Celona) e si propone al pubblico l'anno successivo con questo lavoro che ha l'ambiziosa intenzione di raccontare un'ideale messa in scena dell'intero ciclo dell'esistenza. Nell'arco di cinque tracce assistiamo infatti alla nascita, morte, risveglio, catarsi e nuova apocalisse di un pianeta chiamato a rappresentare simbolicamente il tutto e le sue infinite possibilità di inizio e fine (l'ultimo brano si ricollega nuovamente al primo). La dichiarazione d'intenti (che non risparmia figure mitologiche, angeli e demoni) sembrerebbe far pensare a un'epopea dall'impianto vigoroso, quasi bellico, ma gli Est-Egò preferiscono un approccio legato al naturale fluire delle cose, confermato dalle chitarre sognanti e sospese di "Rinascente" e "Dortmund", in perfetto equilibrismo psych tra Kula Shaker e Tame Impala. La nube gassosa di "Pangea Pit" nasconde un mantra ossessivo che si risolve tribalmente nella successiva "Ejkilgan", offrendo lo spunto per una piacevole deriva verso lidi Sigur Ros prima della conclusiva "Andersen" e del suo invito a ricominciare. Nell'insieme, una fotografia già piuttosto a fuoco (Paolo Ciro 7/10)
TACDMY - Drunk Yoga Velvet Club (2016, Autoproduzione)
alt-pop, lounge-dance
Ai friulani TACDMY (leggasi The Academy) non manca certo il respiro internazionale né tantomeno l'audacia nel complicare la formula con cui avevano esordito. Se il precedente album "The Meaning Of Dance" faceva leva su un riuscito mix tra progressioni danzerecce e melodismo tipicamente brit-pop che strizzava l'occhio ai Foals, il nuovo "Drunk Yoga Velvet Club", dal caleidoscopico numero di apertura "Blavatsky" sino all'ipnotico finale di "Wow Signal", fa subito intuire che la nuova proposta è ben più particolare e affascinante. I tempi diminuiscono (sei pezzi per una mezz'ora scarsa ma piuttosto densa), le costruzioni melodiche si affrancano dai canoni compositivi ma gli spazi si dilatano e mutano in continuazione, come quando lo stilosissimo battito da passerella di "Kneyef", da far invidia agli Zoot Woman, viene spedito in orbita con un'aspettata coda psichedelica. L'iridescenza degli impeccabili arrangiamenti, gli inserti acustici e la fluidità delle infrastrutture dance sembrano proporci a tratti una rilettura sintetica di un certo dream-pop (i Cocteau Twins di "Victorialand"), pur mantenendo intatti i riferimenti a quelle rock-band che hanno da sempre preferito i disco-club ai palazzetti, come gli ultimi Klaxons in "(It's) Always Like" e i Friendly Fires più esotici in "Ego Chamber". Anche l'interpretazione di Gianluca Galligaris ha perso ogni asperità per rendersi funzionale a un simile contesto, preferendo entrare in punta di piedi in ogni brano senza però rinunciare alla giusta malia, come nella sinuosa "Pray The Lord", tra scenari alla XX e indolenza radiohead-iana. Pregne di malinconica solarità, le suggestioni di "Drunk Yoga Velvet Club" riescono nell'impresa di farsi apprezzare qualora stiate sorseggiando un aperitivo in riva al mare, conversando nel più esclusivo dei privée o semplicemente rilassandovi nella vostra cameretta (Stefano Fiori 7/10)
COLOMBRE - Pulviscolo (2017, Bravo Dischi)
indie-pop, songwriting
Colombre è il nome d'arte scelto da Giovanni Imparato, già voce e chitarra dei Chewingum e co-produttore di un paio di lavori firmati Maria Antonietta, che qui ricambia gentilmente curando artwork e regia del videoclip girato per il primo singolo estratto. "Pulviscolo" è l'esordio solista di Colombre: otto tracce di cristallino indie-pop in costante equilibrio fra ritmo ("Fuoritempo", "Sveglia"), groove ("Dimmi tu"), elegante intimismo ("Deserto") ed il ricordo di un amico finito in psichiatria (la storia raccontata in" TSO" si approssima molto a quella di Syd Barrett). Il capitolo ospiti non è certamente secondario: Iosonouncane nobilita il progetto mettendo voce e cori in "Blatte", Francesco Aprili (Wrong On You, Giorgio Poi, Boxerin Club) suona le percussioni, Nicolò Pagani (Mannarino) il basso in "Bugiardo". Venticinque minuti che con leggerezza delineano la personalità di un nome nuovo della canzone d'autore italiana. Per ora si muove nell'underground, ma se son rose... (Claudio Lancia 6,5/10)
DILO - Dettagli cromatici (2017, autoprodotto)
songwriting
Prima uscita discografica come solista per Corrado De Lorenzo, classe 1967, navigato cantautore brianzolo in pista da inizio millennio in piccole formazioni lombarde. "Dettagli cromatici" si muove fra morbide ballad acustiche ricche di introspezione (la title track) e lievi slanci elettrici ("La mia brillante intelligenza emotiva"), liberando passioni e ossessioni. Tutto molto educato, mai fuori dalle righe, con belle rotondità dai titoli decisamente intriganti ("Nono giorno delle ferie d'estate"), e una scrittura che non intende privarsi di qualche spunto epico (la bella chiusura de "Il capotasto"). Una convincente prova cantautorale, cinque tracce cantate (e suonate) con discrezione ma con grande efficacia, scritte sì senza prendersi grandi rischi, ma mettendoci dentro tutto il proprio mondo. Un Ep che prende giri col passare dei minuti, conquistandosi tutta l'attenzione che merita (Claudio Lancia 6,5/10)
ARE YOU REAL? - Songs From My Imaginary Youth (2017, Sisma)
songwriter
Trascorsa qualche esperienza extra-musicale, il veneto Andrea Liuzza riveste i panni di Are You Real? per dare il seguito a "Songs Of Innocence" (2012). Ciò che salva "Songs From My Imaginary Youth" dallo status di compitino sono "Run", un ritornello lamentoso e trascendentale che diventa tiritera, sostenuto da cello e arpa, una complessa "Shaman Punk" che - a parte il canto raspo e melodico - potrebbe rimandare al cabaret industriale dei Cccp (andatura monotona, cambi di tempo e scenario), la tuonante "Song For A Stranger" con i suoi stridori elettronici. A un livello inferiore si situa la ballata amorosa senza batteria e densa di effetti scenografici di "Behind Your Eyelids". Quando il disco sembra declinare arriva poi il colpo gobbo, "I Don't Wanna Die Young" che - decenni dopo - nega finalmente il motto "live fast die young" in un vibrante pub-rock, di nuovo litanico, fatto con gli ingredienti di Warren Zevon. Autodefinito "disco dell'anima", suonato, arrangiato e registrato da Liuzza, è in realtà un mosaico impressionista in cui i comprimari hanno un peso specifico abbastanza importante. Qualche volta deraglia (un laptop creativo), memore delle esperienze creative in lo-fi dei suoi primi anni, ma perlopiù si sta in un piacevole rigore. Cover di Pearls Before Swine, "There Was A Man", così così, ma merita rispetto, e una vecchia canzone in resa acustica, "I Kissed Alice". Co-produzione con Soviet Studio (Michele Saran 6/10)
ASYMMETRY - Tomorrow's Inner Space (2016, autoprodotto)
alt-rock
Già noti come Statuesque con un'altra line-up, il quartetto lombardo degli Asymmetry (Niccolò Baldini, Davide Brock, Oliviero Riva, Riccardo Marino) debutta con "Tomorrow's Inner Space". Primo colpo gobbo del disco è il brutale contrasto tra uno stillicidio del solo pianoforte ("Moonset") e un assalto metalcore di ritmi violenti e complessi ("Dunes"), poi incupito - e un po' indebolito - da una variazione in marcia funebre. Un altro contrasto sta in un solo pezzo, "Cave", una melodia svenevole, anche se arroventata dalle distorsioni, e un bailamme a velocità folle, in solo due minuti e mezzo di durata. Epitaffio metafisico è "Hive", con la sua allungata introduzione strumentale di dramma teatrale e stilettate neoclassiche, che prosegue nel mantra sfumato delle voci. Più lineare e tradizionale è "Ice", una tiritera sillabata da voci di sirene robotizzate che crea un notevole clima di perdizione melanconica. Concept sulle inerti ventiquattr'ore di un "non-protagonista". Ha una sua compattezza d'intenti, Radiohead e Muse spinti sulla direttrice di un melodramma vocale monteverdiano, una frenesia isterica alla System Of A Down che volge le canzoni a piccole-suite senza far troppo ricorso agli artifici di produzione. Nella seconda parte le idee s'incartano: "Waves" (pezzo di traino che fa più che altro da vetrina) punta tutto sulla melodia amabile e il finale, "Sunrise", invece di chiudere il cerchio sballa un po' tutto. Seguito dell'Ep "Bipolarism" (2014), forte dei quasi 8 minuti di "You", il loro primo singolo, e del remix di "We Can't Breath" (2015) (Michele Saran 6/10)
BIG BANG MUFF - Crash Test (2016, autoprodotto)
emo
Una intro d'effetto di crepuscolo, armonie vocali prese dal crossover dei 90, agili, malleabili tempi complessi: così si presenta "Vivo nell'ombra" e, più in generale, "Crash Test" dei Big Bang Muff. E' la ricetta di base: in "Maschere" si riconfigura in schiacciasassi a tempo di salterello alternato a un ritornello molto dimesso, conciso e mormorato, che alla seconda volta non ha nemmeno la forza di concludersi. L'assalto violento e preciso di "E=mc2" (praticamente death-metal) fa invidia ai Verdena più incattiviti, ma la distorsione di "Madreperla" sfora nella contrizione di un organo a canne. "Luci rosse" è poi persino acustica e senza batteria, con una nebbiolina elettronica sullo sfondo. Debutto di un power-duo scafato, voluto dal campano Alfonso Roscigno (già Danamaste e La Dionea) e Daniele Esposito (già batteria dei Noeur), poi sostituito in corso d'opera da Francesco Di Blasio (batterista per i Vena). Il concept dato dal "crash" del titolo, l'onda d'urto, è coraggiosamente fiaccato da un lirismo innato, per quanto frastagliato. Tempi giusti e durata che non stroppia, ma dei suoi 28 minuti una metà o quasi si poteva togliere, la seconda, in buona sostanza una copia conforme della prima. Primo singolo non poteva che essere "Vivo nell'ombra", anche videoclip diretto dal conterraneo Davide "Walton Zed" Capasso, ritrattista horror, regista, fumettista (Michele Saran 6/10)
ANTONIO FIRMANI - La galleria del vento (2016, Libellula)
songwriter
Trascorsa un'esperienza con una band di spalla, i 4th Row, durata lo spazio di un primo lungo anglofono "We Say Goodbye, We Always Stay" (2014), il napoletano Antonio Firmani in un certo senso ricomincia la carriera. Solista e cantato interamente in italiano, il seguito "La galleria del vento", comincia con una sorta di yin-yang, dapprima un'overture strumentale post-rock guidata dal piano che s'impenna in muri di distorsione e vocalizzi ("Le candeline dei trent'anni"), suo primo apice drammatico, e poi un paio di filastrocche tenui, per di più arrangiate poveramente. Questa brusca altalena trova comunque una sua stabilità nella serenata di piano elettrico dal ritornello di pathos di "Semplice", nell'andirivieni tra motivetto da Carosello con tanto di vocina e un'allungata lamentazione alla Baustelle in "Gli ultraventenni" (la più scenografica), nella ballata dei rimpianti per solo piano e ottoni di "Il professore", e soprattutto nei droni elettronici che scoperchiano la sottile nevrosi di "Scena 8", trasfigurata in un inno senza parole per piano, tromba e archi. Più che dell'esperienza di musicista, l'album (umilmente breve) risente del Firmani appassionato di cinema, anche autore della colonna sonora per il corto "Il signor Acciaio" (2016) del debuttante Federico Cappabianca. Lo si saggia nella dinamicità dell'ispirazione, e di certo nelle canzoni dotate spesso di stacchi efficaci, d'una elegante brutalità controllata. Coerente finale di nuovo strumentale, "Una casa felice", solo pianoforte. Bravi tutti, in sette escluso Firmani, bravissima la piccola Aurora ne "Gli ultraventenni" (Michele Saran 6/10)
PHILIP AND THE MARMALADE - Expensive Magazine (2017, Vayana/Wiener)
garage-psych
Lo sparuto, a dire il vero, movimento garage italiano sputa - è il caso di dirlo, dato il genere - i Philip and the Marmalade, band piacentina di appassionati, che sognano di suonare, un giorno, all'Austin Psych Fest. Questo "Expensive Magazine", nuovo Ep sulla strada di un possibile esordio lungo, certifica la loro fedeltà al genere, con l'abbaiare monocolore di "Julie" sovrastante (un po' troppo) le caratteristiche pennate verdognole: traccia sballottata dalle parti dei Black Angels (come più in generale le altre). Una fedeltà per adesso ancora ferma a una veramente pallida riproduzione, a parte per l'impietosa produzione casalinga, anche per la rozzezza "totale" dell'esecuzione e dei cambi di volume, che spesso suonano solo come pretesti per fare un po' di rumore ("Pleasure"). Un equivoco che fra l'altro si può dire il più scontato in questo genere, che in realtà ha bisogno di molto più lavoro per trascinare l'ascoltatore in una dimensione diversa da quella usuale (Lorenzo Righetto 4,5/10)