Corrono veloci, i sogni dei Rem. Proprio come il “Rapid Eye Movement” del loro acronimo, il movimento rapido che l’occhio compie nella fase del sonno a più alta densità onirica. Fin dagli esordi, negli sfrenati party college-rock di Athens, Georgia, Michael Stipe e compagni hanno la consapevolezza di essere i portabandiera di quella nuova nazione rock che avrebbe rinnovato alle fondamenta la scena americana degli 80-90’s. Una pattuglia di band alternative e indipendenti, che agiscono controcorrente rispetto alle mode patinate del periodo, a distanza di sicurezza dai riflettori del music business e dai teleschermi di Mtv. Ribelli impenitenti come Sonic Youth, Hüsker Dü, Minutemen, Dream Syndicate, Replacements & C., che diffondono per l’America un nuovo verbo musicale. In totale dissonanza con le sonorità dominanti del decennio e in diretto collegamento con ciò che verrà in quello successivo. I quattro georgiani sentono di far parte di questa nouvelle vague e avvertono sulle loro spalle il peso di un successo che sta esplodendo tra le loro mani.
Pur essendo, in fondo, dei tradizionalisti, i Rem – così come gli Smiths sull’altra sponda dell’Oceano - si lasciano affascinare dalla lezione essenziale del (post)punk, filtrandola con una sensibilità melodica tipicamente pop. A differenza dei compagni di strada della nuova “Alternative Nation” americana, infatti, i ragazzi di Athens possiedono già tutte le armi per forzare gli angusti argini dell'underground e far breccia sul grande pubblico. Una progressione rapida e irrefrenabile. Proprio come il Rapid Eye Movement. Dall’era gloriosa delle college radio, decisive nell'amplificare il mito sotterraneo fin dall’esordio “Murmur”, a dischi intensi come “Reckoning” e “Lifes Rich Pageant”, dal “diploma di laurea” di “Document”, che li avrebbe traghettati nel porto multimilionario delle major già dal successivo “Green”, fino all’epoca dei bestseller planetari, inaugurata da un disco fuori dal tempo: “Out Of Time”.
Rampa di lancio
“Questo disco conferma i Rem come dei veri fossili. Se muoio domani, so che la mia voce sarà immortalata per sempre e nessuno può farci nulla”. Così parlò il sardonico Stipe travolto da un insolito destino di successo all’indomani dell’exploit di “Green” (1988), il disco del debutto sotto le insegne della Warner Bros., che li aveva appena ingaggiati alla modica cifra di dieci milioni di dollari. Con quell’importante passo, si erano già incamminati sulla strada dello stardom mondiale, anche grazie a singoli di grande impatto come “Stand” e “Orange Crush”, oltre alle invettive contro la politica americana di Ronald Reagan, nascoste nel testo di “World Leader Pretend”, primo brano del gruppo ad avere stampato il testo integrale nell'album.
Ma, in fondo, si era trattato solo un fortunato disco di transizione. Perché – come ammetteva anche il produttore Scott Litt – “aveva alcune belle cose, ma non era sviluppato appieno”. Ora i Rem, forti di un seguito ormai planetario e di mezzi tecnici inimmaginabili al tempo dei gloriosi party di Oconee Street, erano chiamati alla prova più difficile della loro carriera: un triplo salto (mortale?) nel rock mainstream, senza disperdere il patrimonio della loro identità e dei loro fan storici.
Serviva un miracolo. Bisognava entrare in una nuova dimensione. Fuori dal tempo. “Out Of Time”. Tre parole in cui – secondo Buck – si concentrava la filosofia del gruppo: “Noi ci sentiamo del tutto fuori dal tempo e dalle mode. Siamo un caso a parte, volutamente ai margini delle tendenze del mercato discografico. È musica a sé stante, senza confini temporali, anche se indubbiamente contiene degli elementi che possono ricondurre agli anni Sessanta”.
Non è una rivoluzione radicale, quella perseguita in “Out Of Time”. Del resto, i segni dell’evoluzione apparivano già chiari tra i solchi di “Document” e “Green”. Ora, però, stava arrivando l’ondata che avrebbe travolto tutto, rimettendo straordinariamente in gioco la band georgiana in un altro campo, dove la gloria era assicurata, ma le insidie si nascondevano dietro ogni angolo. E quale luogo meglio di Woodstock – topos sacro del rock – per registrare il disco della svolta? Il 12 marzo 1991 esce dunque l'album che cambierà per sempre la storia dei ragazzi di Athens.
Musicalmente, la trasformazione si avverte soprattutto in un suono che da scarno si fa quasi barocco, con l’ingresso in pista di tastiere, organo, fiati, clavicembalo e una corposa sezione d’archi, oltre all’ormai abituale mandolino. Al fianco dei Rem accorrono poi amici di vecchia data, come Kate Pierson, cantante dei B-52’s, e Peter Holsapple, ex-leader dei Db’s, che si alterna tra basso e chitarra. “Era un lavoro molto più compiuto di 'Green'”, sostiene Scott Litt. “Si vede che l’ago della bilancia si spostava da dischi pieni di chitarre ad album con più complessità, più produzione, più arrangiamento. 'Out Of Time', infatti, aveva arrangiamenti con archi veri, con 12, 14 o 16 parti in molte delle canzoni, e violini, viole e violoncelli”. La produzione di Litt, seppur sempre più accurata, riesce comunque a non appesantire troppo la cornice delle canzoni, che ritrovano tutta la miglior verve melodica di marca remmiana.
Supportato da questo spiegamento di forze e incoraggiato dal suo crescente successo personale, il timido Stipe esce definitivamente allo scoperto. E irrompe negli anni Novanta mettendo a nudo tutte le sue ansie e incertezze. Personali, in gran parte, ma anche legate alle sorti del pianeta. Del resto, la sua sfida al mondo l’aveva già proclamata apertamente tra i versi di “These Days” (su “Lifes Rich Pageant”): “We are young despite the years we are concern / We are hope despite the times” (“Siamo giovani nonostante gli anni, siamo la preoccupazione/ Siamo la speranza, nonostante i tempi”). Ora, in piena Guerra del Golfo, con George Bush padre alla Casa Bianca, non restava che tornare ai toni apocalittici di “It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine...)” per sfogliare una nuova pagina oscura di storia americana: “The world is collapsing/ Around our ears/ I turned up the radio/ But I can’t hear it” (“Il mondo sta collassando/ Intorno alle mie orecchie/ Ho acceso la radio/ Ma non riesco a sentirlo”). Un verso che suona come una condanna, quello che dà il La a “Radio Song” (terza “song” posta in apertura di disco, dopo “Finest Worksong” e “Pop Song ’89”). “Centinaia di migliaia di americani hanno protestato contro quella guerra, ma nessuno ne parlò”, ricorderà Stipe. Dopo un’intro di chitarra molto sixties, la canzone prende corpo su robuste ritmiche funky, con un organo e una sezione d’archi dell’Orchestra sinfonica di Atlanta a costruire una possente impalcatura sonora e Stipe alle prese con un imprevedibile duetto con Kris Needs, alias KRS-One, stentoreo rapper dei Boogie Down Productions. E se Morrissey in “Panic” minacciava addirittura di impiccare i dj (“hang the blessed dj”) perché la loro musica non raccontava niente della sua vita (“The music that they constantly play/ It says nothing to me about my life”), Stipe non va molto lontano da quell'invettiva degli Smiths, imprecando contro la massificazione musicale operata dalle radio, che imprigiona i ragazzi in una logica di omologazione e obbedienza ai dettami di qualcun altro (l’industria musicale?). Una excusatio non petita, da parte di una band che spopolerà in tutte le radio Fm di lì a breve, o solo un’orgogliosa rivendicazione della propria, immutata diversità? In ogni caso, un incipit deciso, che però serve solo a preparare il terreno al brano successivo. Ovvero, proprio la “radio song” per antonomasia dei Rem e forse dell’intero decennio Novanta.
La hit definitiva
Come nasce una hit immortale? Forse, basta davvero la melodia giusta, ben incorniciata dagli arrangiamenti. Poi, il resto aiuta. Incluso persino un testo universalmente equivocato. Perché “Losing My Religion” – come spiegherà lo stesso Michael Stipe – non ha niente a che fare con l’ateismo o la perdita della fede. È invece solo un’espressione idiomatica, in voga nel sud degli States, che sta all’incirca per “perdere la pazienza” o “non poterne più”. Nella circostanza, per colpa di una storia d’amore disperata e ossessiva. Anche se, naturalmente, il termine “love” non comparirà mai (i Rem non amano la parola, evidentemente). Uno Stipe sconsolato canta versi come “That’s me in the corner/ That’s me in the spotlight/ Losing my religion/ Trying to keep up with you/ And I don’t know if I can do it” (“Eccomi nell’angolo/ Eccomi sotto i riflettori/ Mentre ho perso la pazienza/ A cercare di starti dietro/ E non so se posso farcela”).
Il brano si apre insomma come la più classica delle dichiarazioni d’impotenza. Una storia di amore non ricambiato, nonostante ogni possibile tentativo. Stipe rielabora il filone di una delle sue canzoni predilette, “Every Breath You Take” dei Police, per commentare una nuova patologia sentimentale, in cui si mescola anche la sua condizione (disagiata) di star “sotto i riflettori”. E non c’è dubbio che sia solo questo il senso del brano, anche se nel prosieguo l’autore non rinuncia a infilarvi nuove espressioni religiose, come a voler giocare sull’equivoco del titolo, alimentato del resto dalla “ieraticità” del relativo videoclip, diretto dal regista indiano Tarsem Dhandwar Singh, che sarà persino accusato di blasfemia e censurato in Irlanda. Il verso finale, ammettendo che l’illusione amorosa è stata solo un sogno (“just a dream”) ribadisce il cuore concettuale del brano: una canzone colma di disperazione per un amore non ricambiato.
La malinconia del testo si sposa a meraviglia con una musica tra le più struggenti mai composte dalla band di Athens. Sospinta da un’ondata di archi (in questo caso sintetici) e da un ritmo incalzante, con il mandolino di Buck a intrecciarsi ai ricami dell’acustica di Peter Holsapple, “Losing My Religion” si libra in una melodia avvolgente, che Stipe intona con piglio contrito e desolato. In attesa di un ritornello che non arriverà mai.
È “la canzone” per definizione dei Rem, il trait d’union tra le loro origini “alternative” e il loro destino di rockstar, l’inno che – piaccia o no – li rappresenterà per sempre, con quel verso iniziale “life is bigger” che suona quasi come una profezia: proprio a partire da "Losing My Religion", infatti, la vita dei quattro ragazzi georgiani è diventata più grande. Spiega Mike Mills: “Ci sono stati pochi eventi epocali nella nostra carriera, perché è avanzata molto gradualmente. Se proprio bisogna parlare di un cambiamento storico, credo che la cosa che ci si avvicina di più sia 'Losing My Religion'. Mi vengono i brividi solo a pensarci ora, perché c'era così tanta gioia... Scrivendo e suonando quella canzone abbiamo reso felici tante persone”.
Sarà anche il loro 45 giri di maggior successo (n. 4 nelle chart Usa) e si aggiudicherà due Mtv Music Awards. Paradossale, per una band che, solo pochi anni prima, aveva dichiarato guerra ai videoclip.
Dell’amore e di altri demoni
Un bordone d’organo funereo, un clarinetto basso, il ticchettio delle congas e una tetra sezione d’archi, ad assecondare il cantato mesto di Stipe. “Low” acuisce ancora il pathos, scivolando in una liturgia sepolcrale di marca Velvet Underground, che culmina in un bel crescendo. È una canzone d’amore perduto, che si vergogna un po’ d’esserlo. Perché per Stipe – come si è visto - resta sempre difficile pronunciare la parola “love”: “I skipped the part about love/ It seems so silly and low” (“Ho saltato la parte sull’amore/ Sembra così stupida e vuota”). “È la canzone che rappresenta i miei sentimenti circa le love song, la musica pop”, spiegherà il cantante. “A parte 'The One I Love', che non è esattamente una canzone d’amore, 'Low' è stata la prima volta che ho usato la parola love in un una canzone”. Ma il brano non era una novità: da tempo presente nelle scalette dei live, non aveva ancora trovato l’arrangiamento giusto per essere inciso su disco. Un’attesa pienamente ripagata dal risultato finale. E non solo per l’efficacia degli arrangiamenti. Stipe, infatti, sfodera nuovi versi enigmatici e immaginifici, come in una carrellata di immagini senza posa, in un auto-documentario girato con telecamera a mano. Una canzone esistenzialista e autobiografica, in fondo, celata dal solito lessico metanarrativo.
“Country Feedback” è l’altro affondo che non t’aspetti. Un abisso di lirismo, avvolto in scie granulose di feedback. La pedal steel guitar di Buck singhiozza attorno a un semplice giro country, creando il mood giusto – evocativo e struggente – per un’altra magnifica interpretazione di Stipe, che canta quasi in trance, facendo scorrere fiumi di parole in libertà. Non a caso, la definisce una delle sue “vomit song”, canzoni “vomitate” riversando in modo inconscio pensieri e immagini che fluttuano nella mente. Ma mai come in questo caso ne sarà così soddisfatto: “'Country Feedback’ è la mia canzone preferita dei Rem, tra quelle incise su disco”, rivelerà compiaciuto. Sono solo parole schizzate su un foglio, in ordine sparso. Eppure, sembrano particolarmente sentite, a giudicare da come Stipe interpreta il brano, con un’intensità che rasenta la commozione, e da come lo riproporrà dal vivo, di spalle al pubblico, per nascondere l’emozione, così come aveva fatto sei anni prima con “You Are The Everything”. Di che cosa tratti il testo, l’ha raccontato chiaramente – per una volta – lo stesso autore: “È una canzone d’amore, ma l’amore visto nel suo lato peggiore. Praticamente parla di quando si è rinunciato a una relazione”. Un’altra ossessione amorosa, dunque, che logora il corpo e la mente (“you wear me out”), spingendo all’autolesionismo e alla follia. Alla fine, però, resta solo il rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato: “It’s crazy what you could’ve had/ I need this” (“È incredibile ciò che avresti potuto avere/ Ho bisogno di questo”). Stavolta non è un gioco di sdoppiamenti e ambiguità. È Stipe in persona, nudo davanti a tutti, mentre scava nei recessi più oscuri della sua mente. Da qui, probabilmente, l’emozione che traspare così vivida e palpitante. Straordinaria anche in una sua celebre versione live, “Country Feedback” è, di fatto, l’antesignana di quella “E-Bow The Letter” che qualche anno dopo avrebbe ricongiunto davanti al microfono l’ormai maturo Michael alla sua musa adolescenziale, Patti Smith.
“Out Of Time” è tutto giocato sul crinale tra gioia e malinconia. Un bivio che si fa concreto in “Texarkana”, reale crocevia tra due stati americani, il Texas e l’Arkansas. “Texarkana” ne è l’ideale contrazione (ma anche una reale città texana, alla frontiera tra i due stati). Un nome che evoca suggestioni desertiche e polverose. Come quelle di un lungo viaggio alla ricerca di qualcosa, o forse semplicemente di se stessi. Un viaggio che, per definizione, non può mai finire e che può essere letto come la più limpida metafora della condizione umana. Mills rielabora un canovaccio originario abbozzato e mai completato da Stipe, e lo trasforma in una delle prodezze del disco. Una ballata western sognante e struggente, interpretata dallo stesso bassista con vibrante pathos: “20,000 miles to an oasis/ 20,000 years will I burn/ 20,000 chances I wasted/ Waiting for the moment to turn/ I would give my life to find it/ I would give it all/ Catch me if I fall” (“20.000 miglia a un’oasi/ 20.000 anni brucerò/ 20.000 possibilità ho sprecato/ Aspettando il momento giusto per una svolta/ Darei la mia vita per trovarlo/ La darei tutta/ Afferrami se cado”). Le ventimila miglia iniziali aumentano via via nel testo, fino a divenire trentamila e poi quarantamila, come “le stelle nella sera” (“40,000 stars in the evening”), le ragioni per vivere (“40,000 reasons for living”) o le lacrime negli occhi dell’amata (“40,000 tears in your eye”).
Un viaggio esistenziale, dunque, che all’euforia del movimento unisce una riflessione tutt’altro che serena, con la consapevolezza di poter “cadere” da un momento all’altro. “Texarkana” è uno di quei gioielli d’arte povera che solo i Rem sanno confezionare. Basta pochissimo: un bel giro di basso, gli archi che spingono, i cori nostalgici nel bridge. Semplice e bella. Da togliere il fiato.
In un disco che affronta l’amore quasi come una patologia, “Me In Honey” si rivela invece il più dolce dei commiati possibili, raccontando l’amore per un bambino che sta per nascere, anche se sempre in una chiave surreale. Stipe, infatti, concepisce il brano come una risposta ironica e affettuosa all’amica Natalie Merchant dei 10,000 Maniacs che aveva appena raccontato la sua attesa della maternità in “Eat For Two”. Nei versi di “Me In Honey”, cambia la prospettiva: la gravidanza è vista dall’ottica paterna, con tutte le ansie e le incertezze che comporta: “Baby’s got some new rules/ Baby says she’s had it with me/ There’s a fly in the honey/ And baby’s got a baby with me/ That’s a part of me” (“La mia piccola ha stabilito nuove regole/ La mia piccola dice che ne ha abbastanza di me/ C’è una mosca nel miele/ E la bambina ha avuto un bambino con me/ È una parte di me”). Lo schema è ancora una volta essenziale: un riff che si ripete, finemente psichedelico, pochi accordi a girare attorno, un drumming secco a dettare il ritmo. Ma Stipe, ancora in duetto con Kate Pierson, riesce a costruirvi sopra un’altra interpretazione di razza, che si muove sinuosa disegnando nuove, delicatissime melodie.
Shiny happy band
Ma – come si diceva - “Out Of Time” è un disco bifronte: per metà perso nelle foschie chiaroscurali della malinconia, per metà illuminato da sprazzi d’incontrollata euforia. Uno dei più celebri è la saltellante “Near Wild Heaven”, con i suoi cori a festa e un ritornello orecchiabile alla Beach Boys. Il contrasto con il brano che la precede (“Low”) è a dir poco spiazzante e quindi, con ogni probabilità, voluto. Anche perché il testo esprime tutt’altro. E la vicinanza al “paradiso quasi selvaggio” del titolo resta una chimera. È un'altra canzone sui sentimenti traditi e sulla disillusione, quindi, affidata alla voce di Mills, con Stipe che gli lascia la scena e si limita al coro. “Sembra la canzone più gioiosa di questo mondo e invece è molto triste”, preciserà lo stesso Mills.
Per “Shiny Happy People”, invece, non ci sono scuse. I Rem, stavolta, hanno voluto solo divertirsi. Proprio come le celebri ragazze di Cyndi Lauper. Solo che al posto della più impertinente popstar degli anni Ottanta, c’è la più stagionata ma non meno stravagante Kate Pierson dei B-52’s, un’altra delle voci-simbolo del decennio appena trascorso. Ne nasce un duetto che ammalia e sconcerta al tempo stesso, con quella geniale intro d’archi a passo di valzer e quell’esplosione incontrollata che decolla su un giro di chitarra e sui cori da cartoon-party. Demenziale, come in fondo da miglior tradizione degli atheniesi B-52’s e come ribadisce a doppia sottolineatura il videoclip, in cui Stipe canta con un finto sorriso stampato sul viso, una scarlatta Pierson si dimena con fare caricaturale e gli altri membri della band appaiono quasi inebetiti dall’incredibile caciara di uomini, donne e bambini che saltano e ballano. Una pietanza forse troppo carica da far digerire ai fan della prim’ora, ma sufficientemente saporita per chi, in quella sarabanda kitsch, riusciva a cogliere la vecchia ironia nonsense della band applicata al tempo dello stardom. Ma, certo, non c’è molto da aspettarsi da un testo che sembra semplicemente cucito su misura per quel coloratissimo patchwork sonoro, che irrompe nel disco come un pugno in un occhio, dopo l’orchestrale compostezza del semi-strumentale “Endgame”.
Cos’era successo a quei quattro rigidi custodi dell’intransigenza indie-rock a stelle e strisce? La domanda li perseguiterà a lungo, con un’ondata di attacchi al vetriolo da ogni parte. Dai fan delusi ai colleghi invidiosi fino a quella Mtv che li aveva sempre coccolati e che ora, con i monologhi di Denis Leary, si divertiva a sbertucciare il brano. La stessa band tenderà progressivamente a “rimuoverlo” dal suo repertorio, finendo al massimo per scherzarci su, come quando la trasformerà in “Scary Furry Monsters” in una bizzarra performance assieme ai pupazzi dei Muppets. Eppure, “Shiny Happy People” sarà il primo singolo dei Rem a varcare le soglie della Top 10 britannica, con buona pace dei suoi detrattori. Anche perché, forse, così stupido non era, almeno musicalmente: “È un bel pezzo, un lavoro di qualità - lo difenderà Mills - una bellissima canzone che non voglio suonare mai più!”. E Stipe si spingerà persino più in là: “Talvolta ci si sente bene nel fare qualcosa di semplice, ed è la sensazione che noi abbiamo provato nel fare questa canzone. È il brano più felice che abbiamo mai composto. La linea di chitarra è la più grande melodia che abbia mai sentito. E il video... è la cosa più gioiosa che abbia mai visto”. Un inno alla gioia, insomma, da prendere così, senza farsi troppe domande e lasciandosi cullare da quelle atmosfere gaiamente sixties. Anche se lo stesso Stipe in seguito ci ripenserà, riconoscendo che la canzone ha uno “scarso appeal” e che non la sopporta più. Non a caso, sarà esclusa dalle scalette dei concerti. “Era una canzone scritta per i bambini - tornerà poi sull'argomento il leader - infatti piace molto agli alunni delle scuole elementari di tutto il mondo”. Ma non è detto che restino gli unici ad apprezzarla...
“Out Of Time” è il disco del boom, quello che fa esplodere definitivamente il caso-Rem in tutto il pianeta. Si issa in vetta alle chart su entrambe le sponde dell’Atlantico e in diversi paesi europei, tra cui l’Italia. È il primo a varcare le soglie delle Top Ten con due 45 giri (“Losing My Religion” e “Shiny Happy People”). Conquista 4 dischi di platino, vendendo la bellezza di 18 milioni di copie in giro per il mondo (record assoluto per i georgiani). E, dulcis in fundo, si aggiudica tre Grammy Awards nel 1992.
È grazie anche a questo Lp che si consolida il ruolo di icone rock di Stipe e compagni, ormai riconosciuti come paladini di un'altra America, forgiata in tre cruciali decadi di storia. Nelle loro canzoni, infatti, si è specchiata dapprima la gioventù inquieta del post-punk, alle prese con il rampantismo yuppie dell'epopea reaganiana e con gli ultimi spettri della Guerra Fredda, quindi la “generazione X” degli anni Novanta, sospesa tra il miraggio di benessere dell’era Clinton e la deriva militare-affaristica delle amministrazioni Bush, la comunità indignata dei “no global” e, infine, la nazione ferita e sgomenta del post-11 Settembre. Culturalmente distanti tanto dallo spirito protestatario e ideologico dei 70’s, quanto dal nichilismo distruttivo del punk e dal furore iconoclasta riemerso poi nel grunge, i Rem continueranno a declinare l’impegno civile con uno spirito fortemente propositivo, combattendo contro l’odio e l’ignoranza che troppo spesso hanno trasformato l’America in una Ignoreland, per usare il titolo di un loro brano.
“Out Of Time” resta, anche a distanza di tempo, un ottimo disco, tra i migliori dei Rem dell'era Warner. Ma un simile fenomeno di massa non poteva accontentare tutti. Ci sarà, tra i fan della prima ora, chi storcerà la bocca e persino chi volterà per sempre le spalle ai quattro ex studenti di Athens. “Abbiamo enormemente allargato la schiera dei nostri fan”, osserverà Buck, “e se abbiamo perso dei fan storici, poco male, è nella logica delle cose... È qualcosa che accade, dopo dieci anni di attività. Coloro che non ci amano più dopo il successo di 'Losing My Religion' possono andare a farsi fottere. Il tempo ha cambiato l’energia dei Rem. Ora ci diverte suonare canzoni più tranquille. Non ci interessa tornare a essere una rock band di culto”.
Non sempre, in futuro, sarebbe stato così. Basti pensare al ritorno di fiamma rock’n’roll di “Monster”. Ma le coordinate della nuova stagione dei Rem erano state definitivamente tracciate. Un’evoluzione, senz’altro, ma nella continuità. Quella di una band che, da sempre, ha saputo soprattutto scrivere grandi canzoni, melodie, ritornelli. E che non aveva smarrito per strada la sua identità, cedendo alle lusinghe dello showbiz. Invece di trasferirsi a New York o a Los Angeles, come qualsiasi altra rockstar al posto loro avrebbe fatto, Stipe e compagni erano sempre rimasti fedeli alla loro Athens e alla provincia del Sud. Il cantautore Billy Bragg, che in quel periodo si trovava in Georgia, racconterà di come la notizia del primo posto conquistato da “Out Of Time” nella classifica di Billboard non avesse sconvolto più di tanto l’esistenza dei quattro: “Per carità, erano felicissimi di questo fatto, ma erano più preoccupati di arrivare ad Athens in tempo per assistere a una seduta del consiglio comunale in cui si discuteva se demolire o meno la vecchia caserma dei pompieri. Andarono all’assemblea e invitarono tutte queste stupende donne del Sud, che erano venute in città per difendere quell’edificio storico, a tornare per una festa”.
Forse è stato anche questo, il segreto della longevità artistica dei Rem. Un gruppo che ha marciato unito come una famiglia, anche quando si è trovato a dover far fronte all’abbandono del batterista Bill Berry, diventando – secondo la buffa definizione di Stipe - “un cane a tre zampe”. Fino a quel fatidico 21 settembre 2011, quando l’annuncio sul sito ufficiale del gruppo ha chiuso il “cerchio perfetto” di una storia lunga trentuno anni. Un’uscita di scena quasi in punta di piedi, per una delle band più amate della storia del rock.