L’innaturale trapianto della chioma corvina di Robert Smith sul cranio calvo di Billy Corgan. È più o meno ciò che molta critica dell’epoca scrisse a proposito di “Adore”, l’album con cui gli Smashing Pumpinks spiazzarono tutti nell’anno 1998, prendendo clamorosamente le distanze dal sound dei lavori precedenti e da chi cercava disperatamente di incasellarli alla voce “grunge”. Eppure quel trapianto – tutt’altro che innaturale – era solo una delle facce di questo prisma versicolore, così misterioso e al tempo stesso accattivante, che colse in contropiede la generazione di “Bullet With Butterfly Wings”. Anche se proprio nel folgorante incipit di quella hit mondiale era racchiuso l’indizio-chiave: “The world is a vampire”.
Ecco allora la darkwave virata al verbo delle ineffabili Zucche di Chicago. Una notte di Halloween a modo loro: enfatica, acida, dissonante, ma anche romantica e melodica quanto basta. Del resto, lo stesso Corgan fin dagli esordi era solito definire la loro musica “goticheggiante e pretenziosa”. Ora, la nuova metamorfosi lo disvelava fino in fondo, con le robuste distorsioni Marshall rimpiazzate da arpeggi nitidi, rintocchi di piano, sontuosi manti di tastiere techno-pop e iniezioni d’elettronica in salsa wave, per imbastire atmosfere crepuscolari, cupe, malinconiche, ispirate anche dalle tristi vicende personali del leader (la separazione dalla moglie e la morte della madre, a cui dedica la struggente “For Martha”). Vicende che si aggiungevano a quelle non meno angosciose della band: il decesso per overdose del tastierista aggiunto Jonathan Melvoin nel mezzo del precedente tour e il deterioramento dei rapporti con lo storico batterista Jimmy Chamberlin, sempre più inaffidabile a causa della sua dipendenza da alcol ed eroina e infine allontanato a malincuore dal gruppo.
Veniva così a mancare il motore pulsante degli Smashing, con le parti di batteria affidate in parte a una drum machine e in parte a un trittico di nuovi batteristi: Matt Walker, già subentrato a Chamberlin dalla fine del tour di “Mellon Collie”, Joey Waronker, già nella band di Beck, e Matt Cameron (Soundgarden e Pearl Jam). Un cambiamento che non poteva non ripercuotersi sui brani, assemblati e mixati con il piccolo-grande aiuto di Flood, re mida dell’alternative rock del periodo, chiamato da Corgan al capezzale di “una band che cadeva a pezzi”, secondo la stessa definizione del leader. Aggiungiamoci anche le aspettative smisurate del mondo-vampiro, se si pensa che il precedente, epocale “Mellon Collie And The Infinite Sadness”, aveva venduto più di 10 milioni di copie nei soli Stati Uniti. Come fare a soddisfarle?
Ma, come spesso accade, a un passo dal baratro si consuma la rinascita. Idealmente incarnata dalle sembianze stregonesche di Amy Wesson, la modella di Tupelo ritratta nella splendida copertina in bianco e nero, ad opera della fotografa Yelena Yemchuk, fidanzata di Corgan all’epoca. È questa, dunque, la nostra nuova visione a 33 giri, quella di una inquietante musa/sirena che ci spinge a oltrepassare la soglia del déjà vu e immergersi nel nuovo misterioso mondo di Billy Corgan, sempre più solo e alienato in un gruppo che gli si sta sfaldando tra le mani (oltre a essere il primo album senza Chamberlin, “Adore” è anche il primo a non includere contributi alla composizione del chitarrista James Iha). E che si tratti di un mondo crepuscolare è palese fin dall’inizio: “Twilight fades through blistered avalon, the sky’ s cruel torch on aching autobahn” (“Il tramonto svanisce attraverso vallate annoiate, la crudele torcia del cielo su strade sofferenti”), sono i primi versi di “To Sheila”, l’ouverture che preannuncia le atmosfere ombrose e romantiche che domineranno il disco.
Già, ma gli inni – si chiederà il fan medio nel giugno 1998 – che fine hanno fatto? Insomma, gli eredi di “Cherub Rock”, “Zero” e “Bullet With Butterfly Wings”. Uno ce n’è, in realtà, seppur in forma attutita sotto i rimbombi della drum machine: è il singolo “Ava Adore”, che suggella la perfetta sintesi tra i primi Smashing Pumpkins e quelli ammalati di malinconia del 1998. Un brano misterioso, che si snoda straniante in un riff sintetico a tutto wah wah fino all’irruzione della chitarra nel ritornello urlato a squarciagola “We must never be apart!”. Eccola la nuova frase-slogan, declamata da un rabbuiato Corgan con la sua voce acre e nasale. Sono gli Smashing Pumpkins aggiornati all’era dell’industrial music apocalittica dei Nine Inch Nails e delle non meno tenebrose misture trip-hop dei Massive Attack di “Mezzanine”. Una versione moderna, cupa, elettronica, visionaria, del loro hard rock irruento d’inizio carriera. Troppo sofisticata, forse, all’epoca, ma capace di imporsi anche attraverso fulminanti esecuzioni dal vivo che la renderanno uno dei cavalli di battaglia live della band di Chicago.
“Ava Adore” trova il suo contraltare rasserenato nell’altro singolo “Perfect”, una sorta di “1979” in chiave minore, ma comunque accattivante nel vestire di melodiche coltri elettro-pop la storia di un fallimento amoroso, in bilico tra la nostalgia per quello che poteva essere e la speranza che possa andare diversamente in una prossima occasione.
Ma il cuore (nero) di “Adore” sta soprattutto in altri episodi, giudicati frettolosamente “minori” da una critica miope, che faticava a comprendere il nuovo percorso imboccato da Corgan, limitandosi a chiamare in causa (come fosse una colpa) i rimandi a Cure e Depeche Mode. Prendiamo la tenera “Daphne Descends”, con quello sviluppo da brividi - riff distorto, ritmo ciclico e ossessivo dettato dal drumwork e irruzione prepotente del canto di Corgan - a preludere a una nuova, struggente love-story senza lieto fine (“On some gentle dawn/ This boy is here and gone/ You love him/ You love him for yourself”). Un’altra prodezza melodica, in cui Iha si limita ad aggiungere pochi accordi, mentre il leader si fa carico di tutto l’afflato pessimistico del testo, con un canto sconsolato, puntellato da strali di elettronica al neon. O ancora il commovente dittico dedicato da Corgan alla madre: prima “Once Upon A Time”, ballata acustica cadenzata dal tamburello e dall’atmosfera quasi natalizia, in cui il ricordo si fa dolce e doloroso in una sorta di dialogo impossibile (“Mother, I hope you know/ That I miss you so/ Time has ravaged on my soul/ To wipe a mothers tears grown cold”); poi la straziante “For Martha”, pennellata al pianoforte attraverso abissi di dolore che si fanno universali, quasi cosmici, mentre il cantante piange versi come “If you have to go don’t say goodbye, someday I’ll follow you and see you on the other side”, per poi esplodere nella seconda metà con il bruciante assolo di chitarra di Iha che prelude al crescendo vocale e alla stasi dimessa del finale, dove torna la mestizia del piano a chiudere il cerchio prima di un’appendice ipnotica e dissonante. Otto minuti, più intensi del loro inno più rock. E pensare che qualcuno per appigliarsi (con le unghie) alla tesi di un disco “passatista” ha osato accostare l’assolo di tastiera finale a Keith Emerson, come se non si trattasse invece del miglior complimento possibile…
Poi altri frammenti sparsi di dolcezza in noir: l’aggraziata apertura con “To Sheila” (arpeggi delicati, voce soffusa, trame sintetiche, piano, mandolini e sparute pennate in lontanza); il minimalismo electro-pop di “Tear” (scritta per la colonna sonora di “Lost Highway” ma rifiutata da David Lynch in favore di “Eye”), con il suo incedere solenne da bolero scandito dai tamburi e il tema principale suonato dalle chitarre mentre un esile “ticchettio” accompagna in sottofondo il cantato di Corgan; il tripudio elettrowave di “Apples + Oranjes”, tutto giocato su una drum machine implacabile, tra dissonanze alla Nine Inch Nails ed echi degli U2 ultrasonici di “Achtung Baby”, e della successiva “Pug”, “marcia funebre blues in chiave minore” propulsa da un beat ossessivo e sfregiata dai feedback; il piano che torna a rintoccare mesto in “Crestfallen”, supportato dai bit campionati della batteria e dai vocals della biondissima D’Arcy durante il ritornello (“Who am I, to need you now/ To ask you why, to tell you no/ To deserve your love, and sympathy/ You were never meant to belong to me).
Tutte tessere di un mosaico di stili e colori mai così vario per la formazione di Chicago, che si diletta pure a calarsi in fumose e alticce atmosfere da night-club (il rhythm’n’blues sommesso di “Annie-Dog”, sull’autolesionismo), a fare il verso al Robert Smith più stralunatamente pop (“Shame”), a infilare uno stacco alla Beatles tra le nubi gotiche di “Behold! The Nightmare”; a fare il verso ai Fleetwood Mac più pop nel valzer acustico di “The Tale Of Dusty & Pistol Pete” in una coltre fumosa di sussulti a 8-bit.
E, come l’avvio, anche la chiusura è avvolta in una nebulosa di dolcezza soffusa, in una vertigine di malinconia: l’elegia pianistica dell’onirica “Blank Page”, palpitante canto a due con D’Arcy in una melodia circolare, mentre la batteria stavolta tace lasciando spazio ai versi sussurrati da un desolato Corgan (“Blank page, is all the rage/ Never meant to say anything/ In bed, I was half dead/ Tired of dreaming of rest”), che sfocia con naturalezza nei diciotto secondi di “17” (gioco di parole e numeri tutt’altro che casuale), la preziosa outro-carillon, ancora al piano, che fa scendere un drappo nero a mo’ di sipario sull’oscuro e irripetibile universo sonoro di “Adore”.
A rendere magico il disco, infatti, è anche la sua unicità: gli Smashing Pumpkins non erano mai suonati così e mai più sarebbe accaduto. “Adore” è la ridondanza melodrammatica di “Mellon Collie” prosciugata e trapiantata nell’era dei rave e del rock elettronico di fine millennio, quello che i Radiohead seppero immortalare in modo definitivo su “Ok Computer”. Un disco di brani più semplici e meno sovra-arrangiati, ma con una produzione più stratificata, che lo spinge oltre gli argini del rock in un esperimento di ibridazione elettronica non così distante da quelli dei coevi Bowie, Rem e U2.
Superficialmente, in tanti sono caduti nella tentazione di giudicarlo “un album di transizione”. In realtà, è il frutto di una di quelle magiche terre di mezzo che nella storia del rock hanno spesso rappresentato l'humus dei capolavori. E, sotto i suoi strati crepitanti di drumwork, feedback, effetti elettronici e campionamenti, si cela nient’altro che il cuore più puro degli Smashing Pumpkins, quello che Corgan e compagni non sarebbero più stati in grado di ritrovare nei loro capitoli successivi.
Non sarà mai troppo tardi per riscoprirlo. E per seppellire una volta per tutte i pregiudizi e i fraintendimenti che l’hanno accompagnato. Esercizio in cui all’epoca era caduto lo stesso Corgan: “Ho fatto l’errore di annunciare che sarebbe stato un disco techno – ammetterà - Non avrei avuto gli stessi problemi se l’avessi definito il disco acustico dei Pumpkins”. Del resto, “Adore” venne malinteso fin dal titolo, gioco di parole che stava per “A Door”, ovvero una nuova porta, un nuovo ingresso nell’universo della band. Con conseguente mutazione del target, ad opera dello stesso Corgan: “Ora non parlo più agli adolescenti. Parlo a chiunque voglia starmi ad ascoltare”. Ma il messaggio era più filtrato, indiretto. E non tutti capirono.
Tutto ciò contribuì all’equivoco secondo cui “Adore” sarebbe stato il primo insuccesso nel percorso – fino ad allora infallibile – della band di Chicago. Falso anche questo, se si considera che ha raggiunto il 2º posto nella classifica Billboard 200 negli Stati Uniti e il 5º posto nella Uk Albums Chart nel Regno Unito, anche se certamente le vendite sono rimaste a distanza dai vertici siderali di “Mellon Collie”. Ma ciò che conta di più è il patrimonio musicale racchiuso nei suoi 73 minuti, che non ha mai perso un grammo del suo fascino. Un esperimento coraggioso, per una band che aveva fatto dell'adrenalina grunge e degli inni da stadio la chiave del proprio successo e che si era decisa a mostrare l’altra faccia, quella più notturna e melanconica, del suo universo. L’ultimo grande album degli Smashing Pumpkins che, dopo sì, andranno in frantumi.
Venite Adoremus.
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