29/05/2018

June Of 44

Locomotiv, Bologna


A più di trent’anni dalla sua delineazione, la sostanziale inspiegabilità del caso-Louisville continua a spiazzare critici e sociologi. Com'è accaduto che la rivoluzione musicale più significativa dell'ultimo spicchio di '900 sia partita da una città isolata e marginale, in uno stato tradizionalmente reazionario come il Kentucky, in totale autonomia dalle scene più grandi e blasonate (se si eccettua l'appoggio logistico agli studi e alle etichette della vicina Chicago)? Poche volte un luogo è apparso sulle mappe in maniera così repentina e per ragioni tanto nobili: prima della seconda metà degli anni 80, Louisville era nota essenzialmente per essere la "capitale del Bourbon" e per aver dato i natali a Cassius Clay mentre adesso, anche per un conoscitore di media alfabetizzazione, non può che essere "la culla del post-rock" (attributo peraltro parziale, avendo contribuito anche all'evoluzione di emocore, post-hardcore e alternative rock). La gloriosa scena locale corona la riscossa della provincia americana inaugurata dal big bang hardcore e proseguita dall'epopea-Rem, segnando un passo decisivo verso il decentramento geografico che è ormai caratteristica strutturale della musica del Nuovo Continente. Difficile non empatizzare con questa eroica vicenda, per chi come me è nato e cresciuto in un piccolo centro alle estreme periferie dell'Impero.

I June Of 44 appartengono al "ramo B" dell’albero genealogico cittadino, quello germogliato dalla breve ma seminale avventura dei Rodan (l'altro è quello dei patriarchi Squirrel Bait, da cui discende la seconda generazione Bastro-Bitch Magnet e la terza Slint-Gastr Del Sol-Seam-For Carnation), dando vita a loro volta a nuovi saporiti frutti come Shipping News, HiM e Abilene. In quanto super-gruppo accorpante talenti da esperienze tra le più profonde degli anni 90 a Stelle & Strisce (Codeine, Lungfish, Rex, i già citati Rodan), meritano forse più di ogni altro il titolo di formazione post-rock per eccellenza, quella più programmatica e meticolosa nell'esaurire tutte le possibilità della definizione, e insieme a Slint e Tortoise costituiscono di fatto la sacra triade di riferimento per il non-genere. Tuttavia, a differenza dei primi (che pur non avendo inciso nuovo materiale ogni tanto si riaffacciano sui palcoscenici) e dei secondi (che sono sempre rimasti in attività), dopo lo scioglimento nel 1999 il quartetto di Jeff Mueller ha fatto perdere le tracce, aumentando a dismisura l'alone leggendario emanato della loro evocativa sigla: basta ciò a rendere questo mini-tour esclusivamente italiano (ritagliato attorno alla due giorni catanese per il trentennale degli Uzeda, in cui hanno diviso la scena con colossali compari quali Shellac, The Ex e Black Heart Procession) l'evento concertistico dell'anno. Se a ciò aggiungiamo che è pure il mio ventinovesimo compleanno, che una curiosa coincidenza ha collocato appena due giorni prima del mese da cui i quattro prendono il nome, il quadro di una serata ad altissimo tasso di coinvolgimento emotivo è completo: anche solo perché la memoria mi vola dritta alla magica notte in cui ho compiuto 18 anni, nel lontano 2007, davanti agli Slint in carne e ossa che sciorinavano nota per nota il loro disco più famoso.

Mi precipito al Locomotiv con abbondante anticipo per accaparrarmi il sotto-palco: voglio vedere a occhio nudo ogni minima screpolatura sul legno delle chitarre. Piove, forse a causa del magnetismo che inizia ad accumularsi nell'aria (anche se nella musica dei June Of 44 prevale la componente asciutta del post-rock statunitense, di derivazione hardcore, rispetto a quella torrenziale dell'omologo europeo, di derivazione wave). Apre Joe Goldring, già insieme a Doug Scharin negli HiM, che armato di Telecaster e loop station ci intrattiene con una mezz'ora di nodoso uncinetto elettrico, tra arpeggi, e-bow e striscianti distorsioni, rimpolpate nel finale anche dalla voce: nulla di esaltante, ma quantomeno in tema con le ragnatele d'acciaio che si dipaneranno di lì a poco. Il quartetto compare brevemente per una rapida accordatura, per poi calcare le scene incalzato dal boato della platea. Il loro aspetto ordinario è la quintessenza dell'anti-divismo che da sempre contraddistingue i post-rocker del Midwest. L'atmosfera è elettrica, e loro sembrano gasatissimi tanto dall'abbondanza quanto dal calore del pubblico.

La tempesta ha inizio in sordina con una "Pregenerate" vibrante come uno stormcock strapazzato dal vento, promettendo bufere che non si concretizzano mai, sul filo di una tensione spasmodica sciolta dall'amniotico intro di "Of Information And Belief", che parte spaesata e poi si incattivisce sempre di più, con l'hi-hat di Scharin a trasformarsi in un impietoso cilicio e la chitarra di Meadows a fare le veci del violino. Come nei dischi, il volume della voce è tenuto leggermente sotto il pelo degli strumenti, in perfetto stile Touch And Go. Segue un altro pezzo da novanta dal capolavoro "Four Great Points", "Does Your Heart Beat Slower?", che a dispetto del titolo è una scarica di adrenalina, inscenando un duello tra la 335 di Mueller e la Telecaster di Meadows sopra al sincopato basso di Erskine. Le varie parti si intersecano con una precisione assassina, che fa quasi paura. Fa invece letteralmente spavento la chilometrica "Anisette", urlata a due voci con una foga che rimanda al loro mai rinnegato retroterra hardcore, palm muting serrato e basso ferroso, un'alternanza sconquassante di dilatazioni e compressioni che somiglia a un animale morente che però continua a rialzarsi, prima di essere abbattuto da un finale all'unisono da drizzarsi sull'attenti. Scharin è così madido di sudore dopo questo tour de force da dover reclamare un asciugamano, per poi rituffarsi a testa bassa tra i viscidi glissando incrociati di "Lusitania".

"Here tonight we have Spanish people, Croatian people, Polish people… and of course Italian people, too!", afferma emozionato Mueller, consapevole del richiamo internazionale suscitato da questa loro inattesa apparizione. E' così preso dalla situazione che quasi senza accorgersene attacca un brano sbagliato, poi si scusa divertito mentre gli altri tre lo deridono: "I messed up! I’m special…". Dove si ride ben poco è nella successiva “June Leaf”, cantata da Meadows, un guanto di metallo che dispensa sberle a destra e a manca inerpicandosi in un crescendo da brividi. Dopo aver salutato suo figlio, presente in platea, Jeff ci propone "Cardiac Atlas", uno dei brani più prossimi all'alternative rock del loro repertorio, con tanto di insolito bridge quasi funk, ideale per riprendere fiato. "Recorded Syntax", al contrario, è intricata come un tessuto antico, una fitta tela di basso in levare, rullante ossessivo e chitarra annacquata da un tremolo-sonar che nel finale ci intossica con le sue lentissime spirali concentriche.
A riportarci sulla terra provvede la mesmerica "The Dexterity Of Luck", interminabile inizio acidognolo trapuntato di feedback e poi tante venefiche punture di chitarra demolite da una valanga di colpi di cassa, prima di confluire come se niente fosse dentro gli armonici adamantini di "Doomsday". Accordatura al volo sopra le ultime note del basso, appena in tempo prima che il drumming stentoreo di "Cut Your Face" calpesti gli altri strumenti come gli anfibi di un esercito di terracotta, la chitarra convertita in una sparachiodi e la voce capace ormai solo di una balbuzie sconnessa segata dai micidiali stacchi della sezione ritmica. Jeff si sporge per stringere quante più mani gli capitino a tiro (compresa la mia), ringrazia e si eclissa dietro le quinte.

L'assalto riprende poco dopo con il momento in assoluto più epico della serata: la vertiginosa "Sharks And Sailors" è LA canzone dei June Of 44, con quell'inizio hard quasi alla Smashing Pumpkins che lascia il posto a una trapanazione albiniana con gli strumenti ridotti a schizzi e sputi, sminuzzati in una grattugia afona dove più che le note si percepiscono gli schiocchi delle corde, respirando solo nei ritornelli che non riusciamo a non cantare a squarciagola. In mezzo una marcetta disidratata seguita da una corsa in salita sopra un tapis roulant che scorre nella direzione opposta, prima di disarticolarsi in un maelstrom di stilettate arrugginite, il tutto fratturato da pause così brusche che sembra di essere ripetutamente staccati e riattaccati a un macchinario che ci tiene in vita. Jeff è così frastornato dalle sue pennate e dalle nostre grida che a tratti pare smarrirsi, salvo venir sempre riacciuffato dall'ineffabile Scharin. Difficile dire se a fine brano siamo più stremati noi o loro, che ancora una volta se la battono nell'oscurità.

"You're crazy!" esclama Jeff, tornato di nuovo in scena per placare il baccano infernale che stiamo facendo. E' davvero incredulo del nostro entusiasmo, che sembra quasi imbarazzarlo: a dispetto di una carriera ormai ultraventennale è rimasto un umile punk di provincia, restio a celebrazioni che crede di non meritarsi. Noi però un altro po' di musica ce la siamo meritata, tanto è il chiasso che abbiamo scatenato per richiamarli, e veniamo premiati con due ultimi pensierini: "Generate", dub industriale scandito a colpi di incudine con una lunga pausa centrale, e "Sink Is Busted" (unico scampolo dall'esordio "Engine Takes To The Water"), scavata nella roccia dalle ripetizioni di un delay mentre la voce rantola da un'altra dimensione. Lo scroscio di applausi conclusivo è così travolgente da spazzare via i quattro una volta per tutte. Gli italiani sono un pubblico eccellente, nessuno mi convincerà mai del contrario. Butto un occhio al set up di Jeff, che si accontenta di un overdrive e un echo: serve altro, d'altronde? Medito se trattenermi nel locale per la fin troppo prevedibile uscita della band (gli scatti altrui del giorno dopo me lo confermeranno), ma preferisco filare via: ho assistito a qualcosa di troppo intenso, voglio mettermi a letto con ancora addosso quella sensazione incontaminata.
Nessuno dei presenti potrà dimenticare facilmente questa pazzesca serata, il tipo di esperienza che necessiterebbe di periodici raduni dei reduci per essere metabolizzata a dovere. Forse domani stesso qualcuno (ri)formerà una band. Quanto a me e al mio delicato passaggio di consegne esistenziali, non avrei potuto chiedere colonna sonora più appropriata di un gruppo che partendo dall'adolescenza dell'hardcore è approdato all'età adulta del post-rock, senza un filo di enfasi, anzi con la fantasiosa discrezione che è appannaggio dei veri provinciali. Perché i June Of 44 vanno tassativamente ascoltati dal vivo prima di aver compiuto trent'anni, come tutte le band che "possono essere la tua vita".

a Paolo