Thalia Zedek è una delle protagoniste del rock indipendente americano degli ultimi anni. Una carriera lunga oltre un ventennio, tra poetica e canzoni ricercate, tra rock, folk e contaminazioni punk. Sorta di coscienza dell'America musicale, di Patti Smith dell'indie-rock, ha spaziato dal post-punk degli anni 70 di piccole formazioni come Dangerous Birds, Uzi e Live Skull, fino a un cantautorato austero, d'intensa emotività. Ballate personali e cupre, in cui si rincorrono atmosfere tese e ossessive, fatte di rock e blues spettrale e fascinoso che la voce roca di Thalia acuisce e modella.
La storia musicale di Thalia Zedek inizia nel 1982. Nata a Washington nel 1962, si era trasferita a Boston nel 1979, e qui aveva affiancato agli studi universitari le sue prime esperienze musicali. Il primo traguardo di un certo rilievo è datato 1982, quando con un gruppo tutto al femminile, le Dangerous Birds, pubblica un sette pollici intitolato "Alpha Romeo", ormai del tutto introvabile. In "Smile On Your Face" la voce di Thalia risente fin quasi al limite del plagio dell'influenza di Patti Smith; la musica è in egual misura debitrice del combat-rock dell'epoca, incarnato alla perfezione proprio dalla sacerdotessa di Chicago, di un certo dark-punk alla Siouxsie, ma anche in misura minore della new wave oscura di gruppi come Public Image Ltd e Suicide.
L'esperienza delle Dangerous Birds si chiude pochi anni dopo senza lasciar tracce consistenti, e così qualche anno dopo Thalia entra a far parte degli Uzi, che nel 1986 danno alle stampe per la Homestead un Ep, Sleep Asylum, che presto sarebbe diventato materiale assai ambito dai collezionisti, prima che la Matador lo ristampasse nel 1994, quando era ormai del tutto introvabile. La Zedek ha in parte smussato gli ingenui furori degli esordi, e di pari passo è cresciuto il livello strumentale delle composizioni, grazie anche al contributo di musicisti più esperti. In uno dei loro brani più celebri, "Gabrielle", insieme al canto della Zedek, che appare più accurato anche se in parte ancora acerbo, spiccano il drumming marziale di Danny Lee e soprattutto il basso di scuola Cure di Randy Barnwell, che rievoca insistentemente le atmosfere funeree di brani come "Play For Today" o "Primary". In "Collections" invece sembra di riascoltare i Joy Division di "Dead Souls", almeno finché non entra in campo la voce di Thalia, che qui stempera a tratti l'incedere irregolare e tetro del brano, forse il più ambizioso di tutto l'album.
La canzone che meglio di tutte anticipa i caratteri che saranno propri dei Come è invece "Ha Ha Ha", con le chitarre che abbandonano certi asfissianti canoni darkwave e si arricchiscono di tonalità più variegate, vagamente ispirate alle ballate elettriche di Neil Young, e di quelle improvvise accelerazioni che diverranno uno dei punti di forza dei lavori successivi di Thalia Zedek.
La sensazione finale è che Sleep Asylum sia arrivato con qualche anno di ritardo sulla scena rock americana, che proprio nella seconda metà degli anni 80 vede da un lato la consacrazione di band, tra cui Sonic Youth e Husker Du, che sanciscono in qualche modo l'emancipazione dall'epoca d'oro della new wave, e dall'altro l'esplosione di fenomeni come quello delle college-radio, che avrebbero a loro volta determinato il successo di band come Rem e Pixies e, qualche anno più tardi, di tutti i gruppi che verranno genericamente inseriti nel calderone del grunge. Ma questa è un'altra storia.
L'avventura degli Uzi si chiude, pare a causa di contrasti tra la Zedek e il batterista Danny Lee, prima che la band possa dare alle stampe un nuovo lavoro, del quale si andava mormorando. Thalia viene così ingaggiata dai Live Skull, un gruppo molto attivo all'epoca nel campo di un certo chiassoso rock d'avanguardia, di cui diverrà front-woman e autrice dei testi, pur restando ai margini delle composizioni musicali. Quando la Zedek entra a far parte della band, questa ha al suo attivo già due album, Bringing Home The Bait e Cloud One, nei quali convergono un'infinità di suggestioni anche molto distanti fra loro e che si confermeranno anche dopo l'ingresso della Zedek: ci sono le spettacolari sferragliate chitarristiche di ispirazione albiniana ("Sparky", "The Loved One"), ballate orrorifiche à-la Swans ("Boot Camp", "Cloud One", "Brains Big Enough"), ma anche sprazzi del rock sghembo in stile Fall ("Aircut For Pigs") o di quello abrasivo degli Husker Du ("Skin Jobs").
Con l'ingresso nella band di Thalia Zedek i Live Skull non mutano di molto le loro caratteristiche peculiari e continuano a produrre musica rumorosa, sinistra e testardamente anticommerciale, che la voce di Thalia solo a tratti stempera in sporadiche virate melodiche, amplificandone anzi, per la maggior parte dei brani, il carattere spigoloso, quasi tribale. Si pensi a canzoni come "Machete", "Was" o "Circular Saw", brano, quest'ultimo, che sembra "Bone Machine" dei Pixies suonata al doppio della velocità.
Con gli album Dusted del 1988 e Positraction dell'anno successivo, oltre a un Ep pubblicato nel mezzo, si chiuderà la parabola dei Live Skull. Per Thalia Zedek si aprirà invece il periodo forse più difficile della vita. Le esperienze musicali di cui è stata a vario titolo protagonista si sono tutte tramutate in sostanziali fallimenti, e a lei non resta che tornarsene a Boston, dove vive quegli anni in un certo senso rassegnata a un'esistenza anonima e segnata dal disagio e dalla solitudine, oltreché dai vizi funesti (alcol e droga) in cui tante volte personalità tormentate come la sua finiscono per cercare un impossibile rifugio.
In suo soccorso, all'inizio degli anni 90, viene l'amico Chris Brokaw, già batterista dei Codeine, con il quale forma i Come, la band che le avrebbe dato finalmente un po' di visibilità. La nuova formazione, completata da Sean O'Brien al basso e da Artur Johnson alla batteria, esordisce nel 1991 con un Ep intitolato Car, edito dalla storica etichetta indipendente Sub Pop. I tre brani che lo compongono costruiscono un ponte, ancora in parte interlocutorio, tra le sonorità oscure dei gruppi in cui la Zedek ha militato negli anni 80 e nuove suggestioni sonore che verranno sviluppate negli anni successivi, e che si rifanno, più che alla new wave americana, tanto al blues quanto alle ballate elettriche di Neil Young, agli Stones ma anche al rock psichedelico di band come Dream Syndicate e Thin White Rope, alfieri del cosiddetto Paisley Underground. Su tutti spicca "Submerge", ballata desertica, che parte in sordina e improvvisamente accelera (sarà una costante in tutta la loro storia); Brokaw, passato nel frattempo alla chitarra, sembra voler fare il verso proprio a Karl Precoda, leggendario chitarrista dei Dream Syndicate, cimentandosi in assoli lancinanti, seppur edulcorati da una vena melodica assai più marcata.
Eleven Eleven è il debutto vero e proprio della band, ed esce l'anno dopo per la Matador Records. Nel disco, che si apre con la già citata "Submerge", si consolida un nuovo stile in cui si fondono la vena burrascosa e tormentata della Zedek, che riemerge spesso nelle forme già udite soprattutto nei Live Skull, con le cadenze al rallentatore che Brokaw ha portato in dote dai Codeine, e da due universi musicali così apparentemente distanti nasce una specie di rock-blues, frenetico e accidentato, con frequenti variazioni ritmiche anche all'interno dei singoli brani.
Accanto a canzoni "tradizionali" come "Off To One Side" (che potrebbe ben figurare in un disco degli Screaming Trees - siamo pur sempre nel 1992), "William" (in cui par di scorgere addirittura echi dei Sex Pistols), la ballata "Sad Eyes", spiccano episodi come "Brand New Vein", un blues struggente ("Well I taste the sweetness of life/ And I lick off the knife/ And all the blood in my brain/ Will pump out a brand new vein") sorretto da una ritmica singhiozzante e da chitarre che insistono su distorsioni molto younghiane, e "Orbit", che parte come un blues sgraziato poi improvvisamente nel ritornello accelera, come avviene in certi brani di Patti Smith, con la voce che per una volta smorza la tensione immettendo ampie e inattese dosi di melodia sopra una base ritmica serratissima, quasi metal.
Il secondo disco della band esce nel 1994 per la Matador Records e s'intitola Don't Ask, Don't Tell. La sensazione iniziale, poi confermata dall'ascolto di tutto il disco, è che i Come abbiano in buona parte smussato l'urgenza espressiva di Eleven: Eleven - disco d'esordio di una band composta in parte da musicisti affermati, ma pur sempre disco d'esordio - variando lo spettro delle soluzioni musicali e raffinando la tecnica esecutiva. A giovarsene è soprattutto la sezione ritmica, non sempre impeccabile nel lavoro precedente, e che qui invece appare in gran forma già dall'iniziale "Finish Line", un brano che, come spesso accade nei Come, parte con versi quasi mormorati e poi ciclicamente esplode in un fragore di chitarre distorte e di ritmi sincopati. La successiva "Mercury Falls" è uno dei vertici del disco, un brano di grande vigore strumentale in cui la Zedek dà l'ennesima prova del suo talento di songwriter (difficile non commuoversi di fronte a versi come questi: "Every time we say next time/ And every year we say next year/ Watch each other for a sign/ And spend another winter here").
Si passa dalla rabbia chiassosa di "Poison" o della stessa "Mercury Falls" alla calma apparente di "German Song" e "Arrive", i due brani che più risentono del passato codeinico di Brokaw, passando attraverso il rock più classico di brani come "Yr. Reign" o "String", fino al blues spettacolare, macchiato di spore slow-core, di "Let's Get Lost", uno delle interpretazioni più accorate di tutta la carriera della Zedek.
La sensazione è che la musica sia davvero la sua unica ancora di salvezza: è una musica indiscutibilmente "depressa", incostante, viscerale, spasmodica, mai però arrendevole, e senza traccia di autocommiserazione.
Il disco successivo, Near Life Experience, esce nel 1996 ed è segnato da cambiamenti importanti. Se ne sono andati sia Johnson che O'Brien, cioè l'intera sezione ritmica, e ad accompagnare Brokaw e la Zedek ci sono adesso musicisti di fama, tra cui Tara Jane O'Neil (un passato in gruppi come Rodan e Sonora Pine) e soprattutto John McEntire dei Tortoise, esponenti importanti di una cerchia ristretta e piuttosto elitaria del panorama indipendente americano: si ha l'impressione che la band voglia affrancarsi dal ruolo di rappresentante di un certo "sottoproletariato" rock, forse da qualcuno ingiustamente attribuitole.
L'incontro però non sembra dare i frutti attesi, perché le novità introdotte, soprattutto a livello compositivo e di arrangiamenti, finiscono per snaturare quel piglio umorale, impulsivo e incontaminato che di Thalia Zedek, e di tutte le creature musicali da lei frequentate in passato, era sempre stato un marchio di fabbrica. Ed è persino palese il tentativo di uscire dal culto dei pochi fedelissimi, limando certi spigoli interpretativi e innalzando di molto il livello di fruibilità, specie in brani come "Hurricane", canzone tutt'altro che disprezzabile ma che sembra inesorabilmente fuori contesto, o "Shoot Me First", cantata interamente da Chris Brokaw, in cui sembra di ascoltare i Jesus & Mary Chain di "Automatic" o un'ottima cover band dei Velvet Underground (che poi è più o meno la stessa cosa).
I momenti migliori sono quelli in cui la Zedek sembra ricordarsi la sua vena più scontrosa, come accade in "Bitten", sferzata quasi per intero da una ritmica hardcore e placata poi inopinatamente sul finire da una tromba di chiara matrice Tortoise.
Tra echi dei Rolling Stones ("Weak As The Moon") e del solito Neil Young ("Half-Life", "Secret Number"), c'è spazio persino, alla fine, per una ballata melodica ("Slo-Eyed"), che ricorda vagamente "Candy Says" dei Velvet Underground, terreno - quello della ballata - su cui la Zedek tornerà ampiamente, e con risultati migliori, nei suoi dischi da solista.
Gently Down The Stream, quarto disco della band, esce nel 1998 ed è segnato dall'ennesimo cambio di line-up; la nuova sezione ritmica (Winston Bramen al basso e Daniel Coughlin alla batteria) si mostra fin dall'inizio di altissimo livello: "One Piece", uno dei brani più ambiziosi di tutta la discografia dei Come, parte con un minuto di dissonanze, feedback e disturbanti diavolerie ritmiche (se non fosse per il timbro delle chitarre parrebbe quasi di ascoltare l'incipit di "Come Here Woman" di Tim Buckley), prosegue sui binari di un tre quarti d'impronta vagamente rock-jazzistica su cui s'innesta la voce della Zedek, qui sapientemente controllata, per chiudersi poi come si era aperto, con gran risalto per una sontuosa batteria. Più che a Neil Young, la band sembra qui volgere lo sguardo a Robert Wyatt e alla psichedelia di qualche decennio addietro.
Il resto del disco non mantiene purtroppo le ottime premesse: "Stomp" sembra "Tremor Christ" dei Pearl Jam, mentre "Recidivist" e "Silky City", brani in cui la Zedek cede il microfono a Chris Brokaw, sono due ballate che non svettano sulla gran massa di brani rock scritti in quel decennio e nel precedente dai gruppi del sottobosco indie americano. Altrove ("Sorry Too Late", "Saints Around My Neck") riaffiora l'anima blues più tormentata della Zedek, sebbene edulcorata da un gran lavoro di finitura in fase di produzione e da ritornelli più orecchiabili. Alla fine, insieme a "One Piece", il brano più riuscito sembra "Middle Of Nowhere", una tenera ballata che sembra uscita dalla penna della Lucinda Williams più ispirata.
Difficile, insomma, trovare nel disco una canzone che non sia formalmente impeccabile, ma forse proprio in questo sta il suo limite: aver smussato gli angoli ha reso il suono più rassicurante, ma è un abito che non sta bene sulla pelle di Brokaw, e ancor di più di Thalia Zedek. Non è un caso, forse, che Gently Down The Stream resterà il loro ultimo disco.
Occorreranno tre anni alla Zedek per dare alle stampe il suo primo lavoro solista. Been Here And Gone esce infatti nel 2001 ed è fin dal titolo il disco di un'artista e di una donna che guarda al passato con animo disilluso, celando il tormento nelle forme di una placida rassegnazione. In un'intervista rilasciata nel 2004, all'interlocutore che le chiede di spiegare la differenza tra la musica composta dagli esordi fino ai Come e quella dei suoi dischi da solista, Thalia risponde che tutte le emozioni che provava in quegli anni venivano tradotte in musica nelle forme pure della rabbia, senza sfumature o mediazioni; con il tempo, continua la Zedek, "invece di tradurre tutto in rabbia, cerco di esplorare emozioni diverse. Non tutte le cose che vedo e vivo mi fanno arrabbiare; mi accade ancora, ma sono anche capace di sublimare la rabbia e sviscerare le emozioni in modo più interessante. Sono interessata a comporre musica più bella", dove la bellezza sta, probabilmente, proprio nella varietà, nella ricerca di nuove soluzioni.
La rabbia sgraziata e il furore degli esordi, che già erano andati stemperandosi nelle sonorità sempre più rassicuranti degli ultimi lavori dei Come, cedono definitivamente il passo a un cantautorato più meditato, sofferto, intriso di malinconia e disincanto. Ma è proprio in questa nuova dimensione che la Zedek si conferma cantautrice di grande talento, al pari di molte sue più fortunate colleghe d'oltreoceano: "Excommunications", forse la sua canzone più bella, ma anche "Back To School" e la strumentale "10th Lament" sono brani struggenti che hanno il merito, uno dei meriti straordinari della musica, di riportare l'ascoltatore indietro nel tempo, contemplando con tenerezza i ricordi dell'autrice come fossero i propri. Nello stesso solco si situano le cover di "Manha De Carnaval" di Luiz Bonfà e di "Dance Me To The End Of Love" di Leonard Cohen, fedele all'originale ma non troppo.
In You're A Big Girl Now, un Ep dell'anno successivo, la Zedek si cimenterà in altre due cover, la dylaniana title track e "Candy Says" dei Velvet Underground (forse la sua re-interpretazione meno riuscita), oltre a quattro brani inediti che non si discostano sensibilmente dal mood introverso di "Been Here And Gone".
Nel 2004, in edizione limitata a 2000 copie, esce Hell Is In Hello, una raccolta di brani eseguiti dal vivo che pesca nel repertorio recente della Zedek solista (splendida in particolare l'esecuzione di "Temporary Guest", un brano di Been Here And Gone) e dei Come. Non mancano le cover, e tra queste la più suggestiva è forse "What A Wonderful World" di Louis Armstrong, eseguita con l'accompagnamento di chitarra, viola e pianoforte da una Zedek comprensibilmente emozionata.
In Trust Not Those In Whom Without Some Touch Of Madness (2004) Thalia Zedek si avvale del solo accompagnamento di batteria, pianoforte e viola; la struttura delle canzoni è ormai lontanissima dai canoni del rock, ma anche da quel mood marcatamente cantautoriale che caratterizzava il suo primo Lp solista. L'ispirazione sembra quasi orientarsi verso un certo folk d'avanguardia ("Ship", "Bus Stop", "Virginia"), e non è raro percepire tra le note del disco, seppur declinati in una forma-canzone più tradizionale, riverberi di band come i Dirty Three, specie per l'andamento sofisticato della batteria di Daniel Coughlin e per l'ampio utilizzo della viola, che detta la melodia molto più di quanto faccia la chitarra. Più che al blues e a Patti Smith, insomma, la Zedek sembra ormai guardare al nuovo folk americano, quello di Lisa Germano o Cat Power, sebbene resti distante da quella sorta di scranno aristocratico che queste e altre colleghe, sempre assai coccolate dalla critica, occupano stabilmente da ben più di un decennio.
Nel 2008 esce quello che a tutt'oggi è il suo ultimo disco, Liars And Prayers. Dal punto di vista musicale non siamo molto distanti dai suoni di Trust Not...; per il resto Liars And Prayers si può ampiamente definire un disco politico: fin dall'iniziale "Next Exit" si sprecano le invettive della cantautrice nei confronti di un nemico in particolare, quel George W. Bush che dopo l'11 settembre ha trascinato l'America nella palude delle guerre infinite e del "con noi o contro di noi" ("There is no way out but out", non c'è via d'uscita alla guerra se non smetterla, canta in un verso della canzone: siamo all'inizio del 2008 e il ritiro dall'Iraq è ancora lontano). Nel brano di chiusura l'attacco è ancora più esplicito e tagliente ("Show us the body/ The thousands of bodies/ And the ones you tried to hide/ That you buried deep in lies"), mentre altrove l'insofferenza ridiventa introspezione e assume le forme dell'amara contemplazione delle macerie ("Do You Remember").
La musica si fa, inevitabilmente, più solenne, anche nei brani in apparenza più riflessivi ("We Don't Go", "Green And Blue"), ma la sensazione finale è di un disco non completamente all'altezza delle intenzioni, delle aspettative e anche del talento della Zedek.
DANGEROUS BIRDS | ||
Alpha Romeo (7'', Propeller Records, 1982) | ||
UZI | ||
Sleep Asylum (Homestead Records, 1986; reissued Matador Records, 1994) | ||
LIVE SKULL | ||
Dusted (Homestead Records, 1988) | ||
| Positraction (Caroline Records, 1989) | |
COME | ||
Car Ep (Sub Pop Records, 1991) | ||
Eleven:Eleven (Matador Records, 1992) | ||
| Don't Ask Don't Tell (Matador Records, 1994) | |
Near Life Experience (Matador Records, 1996) | ||
Gently Down The Stream (Matador Records, 1998) | ||
THALIA ZEDEK | ||
| Been Here And Gone (Matador Records, 2001) | |
You're A Big Girl Now (Kimchee Records, 2002) | ||
Hell Is In Hello (Return to Sender, 2004) | ||
Trust Not Those In Whom Without Some Touch Of Madness (Thrill Jockey, 2004) | ||
Liars And Prayers (Thrill Jockey, 2008) |