Un caleidoscopio di colori. Proprio come quelli immaginati dall’illustratrice Olimpia Zagnoli per lo sgargiante video di “Moving To The City”. Si presenta così il terzo album dei Green Like July, “Build A Fire”, a due anni di distanza dall’uscita di “Four-Legged Fortune”: un disco che aspira a un’inedita varietà di panorami, complice anche l’apporto di un ospite del calibro di Enrico Gabrielli. Andrea Poggio, da sempre anima cantautorale dei Green Like July, ci guida attraverso la nuova tavolozza di “Build A Fire”, alla scoperta di un desiderio di cambiamento fatto di addii travagliati, ma soprattutto di solide conquiste.
Dall'uscita di "Four-Legged Fortune” a oggi, i Green Like July hanno cambiato volto: come siete arrivati alla formazione attuale del gruppo?
I Green Like July nel corso degli anni hanno cambiato numerose formazioni, molte delle quali non hanno mai trovato consacrazione “ufficiale” su disco. La separazione da Nicola Crivelli [il precedente bassista e chitarrista del gruppo, n.d.r.], avvenuta a distanza di un anno dall’uscita di “Four-Legged Fortune”, è stata dolorosa quanto necessaria: da un punto di vista artistico le nostre strade avevano preso direzioni divergenti. Siamo stati molto fortunati a trovare prima Marco Verna e poi Roberto Paravia. Marco, oltre ad essere un ottimo chitarrista, è molto bravo a suonare il piano. Per i Green Like July questa è stata una novità assoluta: abbiamo iniziato a lavorare all’arrangiamento dei brani spesso partendo proprio dal piano e dalle tastiere. Roberto invece è un bassista con un gusto sconfinato e con un tocco molto morbido e delicato: a livello ritmico ha portato linfa nuova all’interno del gruppo.
Per la registrazione del nuovo album siete tornati in Nebraska, ma l'approccio con cui avete affrontato il lavoro sembra essere stato molto diverso. Da che cosa è nato questo cambiamento di prospettiva?
“Four-Legged Fortune” è stato registrato e mixato in due settimane appena. È un disco quasi interamente registrato in presa diretta e per il quale avevamo in mente un suono preciso: volevamo suonare americani. È un disco molto spontaneo e che quindi ha i pregi, ma anche i difetti, della spontaneità.
“Build a Fire” è stato concepito in un arco temporale di quasi tre anni ed è stato registrato e mixato in due mesi. È un disco caratterizzato da un’architettura molto più complessa rispetto a “Four-Legged Fortune” e per i cui arrangiamenti non ci siamo posti limite alcuno.
C'è qualche aneddoto in particolare sulla vostra permanenza americana che ci vorresti raccontare?
Durante il mese ad Omaha abbiamo lavorato tanto. Non ho particolari ricordi al di fuori dello studio di registrazione: entravamo in studio la mattina presto e ne uscivamo che era già notte. Un aneddoto… Una sera, mentre eravamo in giardino, vediamo arrivare in lontananza un pick-up Datsun. Dall’auto esce Jake Bellows. Non sentivo Jake da molto tempo, sapevo soltanto che si era trasferito a vivere a Los Angeles. Jake ci abbraccia e ci dice che è di fretta, che deve andare ad Atlanta per le registrazioni del disco di Alessi’s Ark e che è passato da Omaha perché voleva lasciarci la sua chitarra affinché la usassimo sul nostro disco. Ci lascia una Teisco di non ricordo quale anno, risale in macchina promettendoci che sarebbe ritornato presto, ma non specificando la data. Jake è una persona molto imprevedibile.
Come si è sviluppata la collaborazione con Enrico Gabrielli? Come avete conciliato i suoi spunti con il suono dei Green Like July?
Ho conosciuto Enrico due anni fa. È un musicista raro e prezioso, dotato di grande intelligenza, saggezza e sensibilità. Vedo Enrico come il Caronte di “Build a Fire”, colui che ci ha definitivamente traghettati verso il nuovo, chiudendo un processo di cambiamento iniziato anni prima, sin dai mesi successivi alle registrazioni di “Four-Legged Fortune”.
Tra di noi si è subito instaurata un’ottima complicità: sapevamo entrambi dove volevamo andare, pur non avendone quasi mai parlato in modo esplicito. Nei mesi precedenti alle registrazioni, più che suonare insieme o provare soluzioni da cristallizzare in un provino, abbiamo pazientemente lavorato ad una sorta di moodboard di idee, di immagini e di colori che avremmo voluto dare al disco. Questa cosa si è concretizzata un uno scambio costante di e-mail nelle quali ci mandavamo le rispettive suggestioni del momento.
Nell’istante in cui ci siamo trovati a dover dare una forma precisa agli arrangiamenti del disco, il tutto ha preso forma in modo molto naturale. Non ci siamo mai trovati in disaccordo, non abbiamo mai dovuto discutere e ancora adesso me ne sorprendo, considerando quanto è difficile andare d’accordo in un momento così delicato come quello della registrazione di un disco.
Che cosa rappresenta per te, in questo momento della tua vita, l'idea di cambiamento e di nuovo inizio che attraversa le canzoni del disco?
Come ti dicevo, per scrivere “Build a Fire” ci sono voluti tre anni. Nel corso di questo ampio lasso di tempo nella mia vita si sono susseguiti una serie di cambiamenti, alcuni positivi, altri negativi. Per questo motivo “Build a Fire” è un disco a diverse velocità, all’interno del quale si alternano stati d’animo differenti e talvolta in aperto contrasto tra di loro. È nella serena accettazione della necessità di cambiare e di evolversi che deve essere cercato il punto di composizione e sintesi delle diverse anime del disco.
Cambiamento significa anche lasciarsi alle spalle qualcosa. Nonostante le atmosfere brillanti del disco, è comunque presente una vena di amarezza…
Le canzoni più solari del disco sono state scritte in un periodo più recente, mentre quelle meno solari sono figlie di un momento più sofferto e più risalente nel tempo. La policromia del disco è a volte quasi spiazzante. Prima registrare “Build A Fire” avevo in un certo senso il timore che parlasse di un periodo di tempo troppo ampio e che, dunque, sarebbe risultato difficile trovarne la chiave di lettura. A lavoro terminato mi è sembrato che le due, o più, anime del disco convivessero in modo molto armonico. Anzi, credo la forza di “Build A Fire” risieda proprio nella sua policromia. Comunque sono d’accordo con te: i toni di “Build a Fire” a volte diventano particolarmente amari. “Johnny Thunders”, “Good Luck Bridge”, ma anche la stessa “Moving To The City” sono dei veri e propri “j’accuse”.
Le canzoni di “Build A Fire” suonano più corali che in passato. Avete puntato a una maggiore condivisione nella costruzione dei brani?
“Build A Fire” a livello compositivo è nato come tutti i dischi dei Green Like July. Arrivo in sala prove con testo e musica già scritti. Su questo telaio lavoriamo insieme sia a livello ritmico che di arrangiamento. Tra me e Paolo il rapporto è ormai consolidato: ci conosciamo bene e abbiamo un nostro ritmo di lavoro collaudato. La vera novità sono stati Marco e Roberto. Marco e Roberto sono musicalmente cresciuti insieme, e questa cosa si è sentita molto in fase di scrittura: sono stati molto bravi ad abitare le canzoni e a farle proprie.
L'America resta sempre un punto di riferimento fondamentale della musica dei Green Like July, ma nel nuovo disco il panorama si allarga anche ad altre influenze. Com’è in particolare il tuo rapporto con la tradizione musicale italiana?
Ascolto molta musica italiana. In particolare, nei mesi che hanno preceduto le registrazioni di “Build A Fire” ho ascoltato tanto Tenco, “Una donna per amico” di Lucio Battisti ed “Io e te abbiamo perso la bussola” di Piero Ciampi. Credo che, in una qualche misura, questi ascolti si riverberino su tutto “Build A FIre”. Se in “Four-Legged Fortune” l‘obiettivo dichiarato era suonare americani e discostarsi il meno possibile dalla tradizione americana, con “Build A Fire” non ci siamo posti limiti. È certamente rimasta l’impostazione folk nella forma canzone, ma su questo telaio si sono innestate le più disparate influenze.
La copertina dell’album, curata anche in questa occasione da Olimpia Zagnoli, fa pensare all'idea che nella vita ci siano cose che sembrano montagne insormontabili e che invece si rivelano solo ostacoli di carta. Ti è mai capitato di essere intimorito da scelte artistiche o musicali che poi si sono rivelate più naturali del previsto?
Non saprei... L’unica cosa che non smette mai di intimorirmi del processo creativo che porta alla registrazione di un disco è lo studio di registrazione. Sono sempre molto terrorizzato dagli studi di registrazione. Per me lo studio di registrazione è un momento dove si deve cercare di ricreare al meglio e in modo spontaneo qualcosa che di fatto non ha alcuna spontaneità. È un processo molto difficile, doloroso e artefatto.
“Build A Fire” sta ricevendo un'accoglienza molto positiva. C'è qualche aspetto del disco di cui non ti eri reso conto e che hai potuto scoprire grazie al riscontro degli altri?
Sono contento che il disco abbia ricevuto un responso positivo, ma soprattutto che sia stato capito e compreso. L’accoglienza positiva mi ha ulteriormente fatto rendere conto che siamo sulla giusta strada.
Scrivere in inglese richiede una mediazione linguistica che potrebbe sembrare in contrasto con la spontaneità dell’espressione. Come si sviluppa di solito il tuo processo di scrittura?
Si inizia a scrivere e a comporre in inglese per motivi fondamentalmente stilistici, legati al genere di musica che si vuole suonare. Ad esempio, se si vuole scrivere canzoni che affondano le proprie radici nella musica nera, nel blues, inevitabilmente, si è portati, almeno istintivamente e di primo acchito, ad utilizzare l’inglese. È un’osservazione banale, ma l’inglese ha una musicalità molto differente rispetto all’italiano. Potremmo dire addirittura che spesso la ragione che ti spinge a cantare in inglese è una ragione squisitamente fonetica se non addirittura ritmica.
Io non faccio eccezione: il primo ed il secondo disco dei Green Like July sono sicuramente figli di questo modo di ragionare, sono dischi che vedono nell’esigenza di trovare una fonetica confacente all’armonia dei brani la ragione prima per cui ho scelto di cantare in inglese.
Questa scelta, per così dire, “estetica” ha un grande risvolto negativo. Prima o poi ti accorgi che, per quanto tu possa padroneggiare la lingua, non riuscirai mai ad avere una piena e totale corrispondenza tra testo e significato.
Ecco, forse “Build A Fire” è il disco dei Green Like July in cui, a livello testuale, sono più riuscito ad avvicinare il testo al significato. Dico avvicinare perché è inevitabile che, quando canti in una lingua che non è la tua, anche arrivando a coprire una percentuale di significato molto alta, resta sempre un qualcosa di imponderabile. L’inglese peraltro è una lingua sconfinata, che ha usi differenti già all’interno dei soli Stati Uniti e che inevitabilmente cambia a seconda della zona geografica. Cercare di pilotare il coefficiente di imponderabilità, cercare di dare un senso più compiuto possibile ai testi è stata un’impresa molto difficile. Non ti nego che molto del tempo che ho impiegato a pubblicare questo disco è stato dovuto al fatto che non ero soddisfatto dei testi, che avevo bisogno di migliorarli o semplicemente di lasciarli un po’ decantare.
Essendo un perfezionista nel senso più patologico del termine, il fatto di non avere il completo controllo su quello che dico lo trovo come un grande limite espressivo. Detto questo, so che cantare in italiano non mi permetterebbe di utilizzare quella musicalità che è il fulcro attorno al quale ruotano le canzoni dei Green Like July. Quello che da un lato è un limite, dall’altro è l’unica forma di espressione possibile per i Green Like July: ho imparato a convivere con questa situazione e ad accettarla serenamente.
Come pensate di portare dal vivo il suono più elaborato del nuovo album?
Suoneremo i brani di “Build A Fire” in cinque. Siccome non sarà materialmente possibile portarci dietro tutti gli strumenti presenti sul disco, in queste ultime settimane abbiamo lavorato nel senso di riprodurre i suoni facendo riferimento a due sintetizzatori e ad un Rhodes. Inevitabilmente le canzoni avranno una timbrica lievemente differente, ma saranno sempre suonate con gli arrangiamenti del disco.
In “Build A Fire” ci sono molte collaborazioni significative, come quelle con Enrico Gabrielli e Jake Bellows di cui ci hai parlato. Se potessi collaborare con un qualunque artista a tua scelta, del presente o del passato, con chi ti piacerebbe lavorare?
Senza dubbio con Jeff Lynne. Amo particolarmente gli Electric Light Orchestra, ma anche – e forse soprattutto – il lavoro che ha fatto negli anni Ottanta con artisti come Roy Orbison e con il George Harrison di “Cloud Nine”. Secondo me il periodo di George Harrison da “Thirty-Three & 1/3” a “Cloud Nine” è da sempre molto sottovalutato. Anche quella critica che oggi si ravvede e rivaluta il George Harrison solista cade sui nomi più facili e ovvi: “All Things Must Pass” è certamente un disco magnificente ed epocale, però credo che ancora non si sia arrivati alla riscoperta del periodo successivo. “Somewhere In England”, ad esempio, è un disco meraviglioso.
Per finire, che progetti hai per il futuro?
L’idea è quella di suonare il più possibile, almeno per il prossimo anno. Magari portare il disco fuori dall’Italia, questo mi piacerebbe moltissimo. Dopodiché credo che avrò bisogno di una pausa. Sicuramente di una pausa dai Green Like July. Credo che sia quasi fisiologico, dopo dieci anni in cui ho avuto testa e cuore solo per questo progetto. Come diceva Dylan, "sometimes you get too close to something and you got to get away from it to be able to see it": certe volte arrivi a vedere le cose così da vicino che hai bisogno di distaccartene per poter dar loro la giusta importanza. Sento di avere bisogno di un periodo di pausa. Chissà che non mi porti a qualcos’altro.
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Sul ciglio di una strada a contemplare l'America Le facce fameliche di uno sciame di professionisti seri si schiacciano sul vetro che separa l'uomo dal sandwich. Gli occhi si scrutano. Le bocche lanciano morsi all'aria. Le mani sono levate al cielo in un giubilo disperato. Metà di esse stringe un blackberry". Le pause pranzo, a Milano, hanno qualcosa di belluino nelle parole di Federico "Duchesne" Baccomo, autore dell'ormai celebre"Studio illegale" (prima blog, poi libro e a breve anche film). Incontrare i Green Like July nel bel mezzo di una pausa pranzo milanese significa ritrovarsi all'improvviso catapultati lontano dalla calura appiccicosa, dai blackberry e dall'ansia da closing. Viaggiare verso l'orizzonte di un'America immaginata e reale al tempo stesso: l'America mitica di Jimmie Rodgers e l'America contemporanea di Conor Oberst, unite come d'incanto in un tutt'uno. Una chiacchierata in compagnia di Andrea Poggio (voce e chitarra), Nicola Crivelli (basso e cori) e Paolo Merlini (batteria), che diventa l'occasione per condividere il percorso di una band decisa a puntare allo spessore del classico, pur senza rinunciare all'urgenza e alla spontaneità degli esordi. Facciamo anzitutto un passo indietro, per presentarvi anche a chi ancora non vi conosce: come sono nati i Green Like July? Andrea: I Green Like July sono nati più o meno nel 2003 ed eravamo solo io e Nicola. Inizialmente era una cosa nata senza un particolare fine, se non quello di trovarci a suonare e magari cercare di arrangiare dei pezzi più o meno noti, Dylan o cose del genere. Poi è arrivata una proposta da parte di una piccola etichetta di Alessandria, la Candy Apple Records, e la fiducia che ci hanno dato ci ha spinto a registrare il nostro primo disco, "May This Winter Freeze My Heart", che è stato anche il nostro primo approccio con una sala di registrazione. È stato un disco che abbiamo registrato in un anno, tirandolo veramente per le lunghe e registrandolo inevitabilmente anche con tanta ingenuità, partendo prima dalla chitarra e dalla voce per poi arrivare al basso e alla batteria, secondo un percorso poco logico ma dettato soprattutto dalla necessità e dal fatto che banalmente il gruppo era formato solo da me e da Nicola. La promozione del disco, poi, è stata una non-promozione, nel senso che io e Nicola siamo andati all'estero, Nicola a Southampton e io a Glasgow. Se vogliamo, per noi quel momento è stato un po' una scuola, perché ci è capitato di confrontarci con realtà dove la musica folk è ben più vissuta, ogni sera e ogni giorno, rispetto a quanto non accade qua. Come dico spesso, per me andare a Glasgow è stata l'università: poter entrare in contatto con una certa scena, rendermi conto di quanto le mie canzoni fossero forti o deboli, capire come scrivevano altre persone, confrontarmi con loro... Una volta tornati, abbiamo provato con diverse formazioni, finché abbiamo trovato Paolo: il gruppo vero e proprio è nato da quel momento, perché è stato grazie all'incontro con Paolo e al trasferimento di Nicola dalla chitarra al basso che abbiamo trovato il nostro modus operandi, il nostro metodo di lavoro, che è sempre basato su uno studio attento della sezione ritmica, da cui nasce lo sviluppo della canzone. I Green Like July non sono semplicemente un gruppo italiano che canta in inglese, sono un gruppo dall'essenza profondamente americana. Che cosa rappresenta per voi l'America come immaginario musicale? Andrea: L'America credo sia un po' il punto di partenza di tutti i nostri ascolti. Io sono nato davvero a pane e Bob Dylan e non ne faccio alcun mistero: applico in ogni momento la teoria "what would Dylan do?". Paolo è nato a suon di jazz e Creedence Clearwater Revival, per cui credo che anche lì l'America si senta fortemente... Nicola: Divoriamo America per ogni decade, dagli anni Trenta, agli anni Sessanta, agli anni Settanta. Forse siamo un po' di parte... Andrea: Lo dico sempre - ma penso di avere almeno anche Nicola dalla mia parte: il nostro beatle preferito è George Harrison. Nicola: La Band ricopriva tutti quei generi che rappresentano l'Americana, dall'hillbilly al soul, e teneva dentro tutta la tradizione, pur spostandosi in vari ambiti. È questo che identifico con Americana. Un altro artista che riunisce molti ambiti dell'Americana è T Bone Burnett: il suo suono secondo me è quello dell'Americana in questo momento. Andrea: Non ti nego che è stata un'influenza enorme. Mi ha come svegliato da un letargo, è come se mi avesse detto: "c'è ancora musica che può essere interessante suonare". Siamo sempre stati molto onnivori dal punto di vista musicale, però quella che ci piace suonare è una musica legata alla tradizione. Mi ricordo la prima volta che ho ascoltato i Bright Eyes: ero a Londra, penso nel 2001, e sono andato quasi per caso a un concerto di Conor Oberst allo Shepherd's Bush Empire, solo perché tutti parlavano di lui come del classico "nuovo Bob Dylan". Sono uscito da quel concerto allibito: non credevo che fosse possibile trovare una cosa del genere, fresca ma nello stesso tempo tradizionale. All'epoca sia io che Nicola eravamo invasati di anni Ottanta (Cure, Smiths) e abbiamo ritrovato nei Bright Eyes tutte quelle piccole venature wave... Da lì siamo stati tirati per i capelli ad ascoltare tutta la scena della Saddle Creek, passando anche per cose meno tradizionali. Anche gli Okkervil River sono stati sicuramente un punto di riferimento, più nel passato però che non adesso. Nicola: Il primo artista che mi ha aperto un po' la testa a livello di musica folk è stato Elliott Smith... Andrea: Che poi Elliott Smith è quel solito ponte tra Beatles e America che a noi piace tanto... Andrea: Credo che questo cambiamento sia partito anche dalla maggiore fiducia in noi stessi che abbiamo acquisito, che non è assolutamente da confondere con l'essere diventati arroganti... Anzi, secondo me ha aumentato il nostro senso critico su certe cose, ma parallelamente ci ha fatto pensare che è possibile fare un genere di musica di questo tipo pur banalmente non essendo di Lincoln, Nebraska. Andrea: In Italia siamo bravi a fare altre cose, abbiamo la nostra tradizione musicale. Nicola: L'altro giorno un nostro amico che ha aperto uno studio di registrazione ci diceva che si rende conto di volere un suono italiano, ed è giusto così: cercare di ottenere un prodotto che è un compromesso sarebbe controproducente per tutti, per uno studio, per un fonico e per un gruppo che vuole suonare musica americana. Nicola: La nostra attitudine, poi, non è propriamente quella di un gruppo country. Però effettivamente c'è molta più diffidenza tra certi addetti ai lavori che non tra il pubblico, diffidenza a priori, magari, più che a posteriori. In realtà, adesso le cose stanno un po' cambiando, c'è tutta una nuova scena folk che addirittura è più tradizionale ancora di quella degli anni Novanta: parlo di Mumford & Sons, Avett Brothers... Non riesco a collegarla tanto al nostro disco, ma mi sento forse un po' parte di questa cosa anche come modo di suonare: il nostro disco non è così indie, si rivolge maggiormente verso la tradizione. Paolo: Anche il disco che abbiamo realizzato, a mio avviso, è comunque una cosa spontanea: in fondo abbiamo avuto solo quindici giorni di tempo per fare tutto. Paolo: O Lemmy dei Motorhead... Andrea: Lui non credo che si faccia problemi! (risate) Comunque per me è un tasto un po' dolente, nel senso che sono molto in movimento, cambio di sei mesi in sei mesi... Ho delle forti perplessità sulla voce che avevo nel nostro primo disco, con tutto il bene che gli posso volere. Andrea: Tra l'altro vedendola stravolta, questa nostra idea iniziale... Nicola: Esattamente. Ci siamo ritrovati a distanza di qualche giorno a fare delle discussioni di mezz'ora con A.J., in cui ci spiegava le idee che aveva sul disco, su come avrebbe dovuto suonare... Andrea: Per questo, secondo me, in questo disco non manca la spontaneità. È un disco che ci ha sorpreso, alcune parti che ancora adesso riascoltiamo sono state buttate giù nel giro di dieci minuti. La parte di pedal steel di Mike Mogis l'abbiamo vista materializzarsi in mezz'ora e ha dato l'impronta a "Jackson". Più spontaneo di così... Mike Mogis l'ha sentita un'ora prima, ed ecco il pezzo. Tra l'altro adesso non la suoniamo neanche più così. Pur nell'alta fedeltà del prodotto, ad essere spontaneo è proprio l'approccio al pezzo. Con le dovute proporzioni, credo che fosse un po' l'approccio che aveva Dylan quando entrava in studio di registrazione... Andrea: Ero sicuro che avrebbe trovato qualcosa molto "dentro" il genere. E anche del video mi è piaciuta molto la finezza e la compostezza: oggi è sempre più difficile riuscire a fare dei video che siano per così dire "contenuti". Per concludere, una domanda secca: un disco che vi ha cambiato la vita. Nicola: "All Things Must Pass" di George Harrison. Per tre anni credo di averlo ascoltato continuamente, lo sentivo andando a dormire e poi lo rimettevo alla mattina. Andrea: Non voglio dare delle risposte banali, ma credo "Blonde On Blonde" di Dylan. Mi ha letteralmente stravolto l'esistenza e continua a farlo ascolto dopo ascolto. Mi capita ancora adesso di scoprire la sera delle pieghe di "Visions Of Johanna" che non avevo mai colto, di avere i brividi lungo la schiena e di mettermi a piangere. Credo che questa sia l'importanza di un disco e Dylan in effetti ha un po' questa caratteristica. Ciò detto, ci sono dischi che mi sconvolgono la vita continuamente, ad esempio "Electric Warrior" dei T. Rex... Paolo: Devo essere sincero, sono un amante dei Rolling Stones. Il disco che mi ha ammazzato è da sempre "Sticky Fingers". Andrea: Parlando di Stones, negli ultimi mesi c'è "Child Of The Moon" che tutti i giorni mi spiazza la mattinata, ho questa fissa di svegliarmi ascoltandola. Certo che tutti e tre abbiamo fatto delle scelte un po' da "Buscadero"... (risate) Comunque, se dovessi dirti delle cose che nel passato hanno cambiato la mia concezione della musica, direi gli Elected: "Sun Sun Sun" è un disco che non riesco a togliere dalla macchina, trovo abbia una sensibilità e un'ironia infinita. Blake Sennett ha veramente una penna stupenda. E poi "The Greatest" di Cat Power, anche se è il suo unico disco che mi piace... La pausa pranzo è finita. Milano chiama. Ma prima di immergersi di nuovo nell'afa della città, i Green Like July hanno ancora in serbo un regalo: un brano inedito in esclusiva, una registrazione casalinga in download gratuito per i lettori di OndaRock. Si tratta di una cover di "Wire" della cantautrice inglese Alessi's Ark (Alessi Laurent-Marke all'anagrafe), che i Green Like July hanno accettato di realizzare appositamente a corredo di questa intervista. Andrea Poggio spiega così la scelta del brano: "la prima volta che ho incontrato Alessi è stato a Londra qualche anno fa. Alessi è una cara amica, oltre ad essere un'artista di rara profondità e sensibilità. Adoro il modo in cui usa le parole e la musicalità che riesce a dare alle sue liriche. E poi la sua voce... sentirla cantare è pura gioia e meraviglia per le orecchie! "Wire" è un brano tratto dal suo ultimo album "Time Travel" da poco uscito per Bella Union: è un disco davvero stupendo e spero che presto venga scoperto e trovi i riscontri positivi che merita anche qui in Italia". Non potrebbe esserci congedo migliore di queste note rarefatte per voce e chitarra, che ci riportano allo spirito più ruvido e schietto dei Green Like July. Green Like July - Wire [download] (Alessi's Ark) |
May This Winter Freeze My Heart (Candy Apple, 2005) | 6,5 | |
Four-Legged Fortune (Ghost, 2011) | 6,5 | |
Two Cover Songs By Green Like July (Ghost / Bad Panda, 2011) | 6,5 | |
Build A Fire (Tempesta, 2013) | 7 |
A Better Man | |
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