Dopo aver militato in varie formazioni dell'underground italiano (Settlefish, Glow Kids, A Classic Education, His Clancyness, Brutal Birthday) e dato vita all'etichetta Maple Death Records, il cantautore italo-canadese esordisce col primo album solista a proprio nome, "Sprecato" (Maple Death, 2024). Lo abbiamo incontrato all'inizio del tour di presentazione del disco per fare due chiacchiere sull'album e su molto altro.
Partiamo dal tuo ultimo progetto e poi guardiamo indietro. Come nasce “Sprecato”? È partito dalla collaborazione con Michelangelo Setola e i vostri live painting legati al libro “Gli sprecati” (Canicola, 2019), oppure i vostri percorsi si sono intrecciati mentre entrambi stavate lavorando ai vostri progetti?
Siamo partiti assieme. Io mi sono trasferito da Bologna a Londra, era un momento difficile per me, in cui ho cambiato tutto: lavoro, affetti, casa, città. Michelangelo è un amico da una vita, e con Canicola Edizioni ho sempre collaborato soprattutto per le traduzioni. Secondo me, lui vedendomi in difficoltà – almeno questo è un pensiero mio – mi ha detto: “Ti va di musicare le mie tavole? Sto lavorando a un libro…”. Però non c’era un obiettivo preciso. Così, mentre abitavo a Londra, ha iniziato a mandarmi di notte le scansioni delle tavole che disegnava di giorno. E io, un po’ per gioco, ho iniziato a rimandargli dei minutini registrati con quello che avevo lì, quindi con solo una chitarra acustica e un synth. Questa cosa ha fatto sì che io riiniziassi la routine di scrivere, e soprattutto scrivevo senza troppi pensieri rispetto a dove questa musica sarebbe finita o non finita, non ci pensavo minimamente. Tutti i primi pezzi – che sono “Castle Night”, “Black & White”, “Had It All” – li ho in parte scritti rimandando dei frammenti a lui. “Castle Night” addirittura sono esattamente i primi due minuti di quello che avevo registrato una notte a Londra, a parte essere ora mixati meglio e masterizzati. Questa cosa mi ha liberato tantissimo, perché quando non avevo ispirazione avevo il suo libro – perché Michelangelo nel frattempo stava formando il libro, che poi è diventato “Gli sprecati” – e c’era questa idea di farlo uscire assieme. Lui di solito a fare un libro ci mette dieci anni, io di solito faccio un disco ogni anno… e in realtà è successo il contrario! L’ha finito, poi è uscito e abbiamo pensato di presentarlo dal vivo, dove io improvvisavo e altre parti erano spoken-word. Molte cose mi hanno aiutato a realizzare il disco, nel senso che poi ho riaperto i progetti di ciò che avevo mandato a lui e un 50-60% del disco era lì. Il resto l’ho registrato dopo.
Quei brani infatti avevo l’impressione avessero un nucleo comune, che li avvicinava l’uno all’altro... Come hai sviluppato questi frammenti nel tempo e come ha preso forma a sé il disco? Un’opera che ha una sua coesione…
Quando ho iniziato a raccogliere le cose, e quindi già per Michelangelo c’erano 4-5 canzoni, avevo già un’idea abbastanza precisa del tipo di suono che volevo. Da una parte sono un fanatico di folk, tristone loner folk psichedelico, e mi sento più a mio agio a fare quella musica lì, e dall’altra ho molti synth analogici e sono un grande fan di proto-ambient, musica cosmica, kraut ecc. Quindi volevo unire queste due cose. Mi ero fatto una playlist di suoni, semmai fossi tornato in studio, e avevo un po’ di riferimenti anche su come volevo la voce, in termini proprio di tecnica di registrazione. Dopo ho continuato ad accumulare parti e pezzi, finché mi sono un po’ fermato, anche per motivi miei di cambiamenti di vita – ho due figli piccoli e cambiano tante cose – ma mi ero fissato che dovevo finire il disco completamente da solo: dovevo suonare tutto, mixare tutto… era una mia fissa.
A un certo punto mi sono reso conto che era impossibile. Ho parlato con Stefano Pilia, perché ho una stanzetta nel suo studio con le mie cose, e Stefano mi ha detto: “Te lo mixo io, finiamolo assieme, registro io quello che manca”. Io ero molto scettico, non su Ste che spacca ma sul dover mettere le mie cose in mano a un altro, dover spiegare come voglio il suono… il primo giorno mi ricordo non avevo dormito la notte, invece è andato tutto sul velluto. Questo mi ha aiutato e mi ha anche liberato, perché non avrei dovuto più pensare a dover posizionare il microfono per la voce perché lo avrebbe fatto lui, ma avrei potuto solo concentrarmi su come so fare la voce, su come la voglio fare. Nel frattempo, ho iniziato a suonare dal vivo, l’anno scorso, e ho chiamato Dominique Vaccaro (J.H. Guraj) e Andrea De Franco (Fera), che hanno iniziato ad accompagnarmi. Gli suonavo queste canzoni e loro aggiungevano le loro parti. Parlavamo di arrangiamenti... Quando siamo andati a finire il disco, metà era nei progetti su Logic che avevo, su cui abbiamo aggiunto cose. L’altra metà, cioè i pezzi più folk, li abbiamo registrati live in trio, con la voce dal vivo che per me era la prima volta, salvo qualche rara eccezione. Quindi quello che senti è quello che abbiamo suonato, tipo “Had It All”, “Black & White”, “I Want You”, erano proprio live in studio. Poi abbiamo sovrainciso qualcosa. Quindi pian piano si è formato così l’album.
Mi fai pensare a due aspetti che ho sempre avuto in mente ascoltando negli anni la musica che hai prodotto coi tuoi vari progetti: l’eclettismo e la cifra personale. Inoltre in “Sprecato” vedo due perni: la prima è che tu sia voluto partire dal folk, un genere che sentivi tuo, scegliendo di usare il tuo nome James Jonathan Clancy; la seconda è che tu abbia una collettività che ti sostiene, che ci sia dietro un gruppo di persone…
Il nome ha per me un aspetto importante, che sento e per il quale ho messo “James”. Sulla carta d’identità mi chiamo “James Jonathan Clancy”, ma nessuno mi chiama “James”, nel senso per mia madre sono “Jonathan” e tutti mi chiamano così. È stato un errore all’inizio, quando mi hanno chiamato così. Ho voluto aggiungere il “James” perché, anche se può suonare come il mio nome, per me è un minimo di distanza da “Jonathan Clancy”. Mi piaceva l’idea di creare una separazione. L’ho scelto anche perché, secondo me, i nomi con tre parole richiamano un certo tipo di suono nella direzione in cui stavo andando, dal country al blues. Per tutto quel mondo lì ci stava bene.
Quindi paradossalmente “James Jonathan Clancy” è più una persona (personaggio)?
Sì, è diverso. Anche per me è stato strano! Mia madre mi ha detto: “Come mai?”. Quindi per me è una forma di protezione, è diverso da “Jonathan”. I miei amici non mi chiamano “James”. Invece sulla parte della collaborazione, alla fine amo stare nei gruppi. Anche His Clancyness è iniziato come un progetto in solo e poi è diventato un gruppo dove alla fine anche gli altri hanno contribuito al 100%. Sì, avevamo il mio nome dentro e io portavo le canzoni, ma tutti davano un apporto importante. Mi piace l’idea di gruppo, e in questo caso è stato un gruppo più controllato, perché le canzoni le ho pensate come volevo io, in parte alla fine insieme a Stefano, e poi andavamo a prendere gli amici che potevano suonare un determinato strumento che non eravamo capaci noi di suonare. Sono anche fortunato perché dopo 20 anni che suoni, hai tanti amici. Poi ho l’etichetta (Maple Death Records). Avevo quindi pensato di più al tipo di parti da aggiungere. Ad esempio, c’è Andrea Belfi che suona la batteria. Io avevo in mente proprio il tipo di batteria e di suono del batterista di Bert Jansch, un chitarrista scozzese del cui batterista, Terry Cox, sono fanatico. Con Stefano ci siamo chiesti chi avrebbe potuto interpretare quel tipo di batteria in quel modo, e ci è venuto in mente Andrea. Gli ho mandato il pezzo ed è venuto subito. Poi Dom ha quel suono che amo, Andrea (De Franco), che suona i synth, ha dentro tutta quella parte cosmica che mi piace…
Trovo bello questo movimento biunivoco. In un momento della tua vita di difficoltà hai collaborato con Setola, eri già vicino a Canicola. C’è la questione della prossimità: che anche se un progetto non ha ancora una forma concreta, ne parli con Stefano e ti dà una mano per finirlo, nonostante avessi pensato inizialmente di farlo da solo… è un movimento spontaneo. Come a dire: ci si conosce così bene, sappiamo così bene quali sono le cose importanti, facciamo tutti questa cosa…
Sì, infatti la cosa che mi rimane di questo disco sono le collaborazioni… “collaborazioni” anzi è una parola fredda… è un disco fatto da rapporti di affetto e di amicizia. Tutti quelli che suonano sono amici, o persone con cui abbiamo passato anni sul sacco a pelo in tour o cose del genere… è speciale. Anche il gruppo con cui siamo fuori adesso, che alla fine sono Andrea e Dom – che hanno suonato sul disco – e Laura (Agnusdei) al sax, è speciale perché siamo quattro amici in giro. C’è una vibe particolare.
Allo stesso tempo potresti pensarlo come il tuo album più personale?
Assolutamente, al 100%. Perché c’è più una regia mia. E poi dipende dalla tipologia di canzoni, nel senso che le canzoni sono molto aperte, alla fine le potrei suonare da solo chitarra acustica e voce quasi tutte, e sono molto semplici, perché si basano su 2-3 accordi con una voce un po’ mantra, e questo permette di lasciare molto spazio all’arrangiamento, a piccoli interventi di altri. Si dice sempre: “È il disco che ti piace di più”, sicuramente è il disco che sento più vicino a quello che mi piace di più come registrazione, come testi… infatti suonarlo dal vivo è challenging (“sfidante”), sto trovando impegnativo farlo perché ha tante parti e mi piace cantarlo bene… però è bello, e quando lo finisci dici: “Wow, figo”.
In particolare, Stefano Pilia su quali aspetti ti ha aiutato di più?
Io e Stefano ci conosciamo dai gruppi studenteschi, poi Stefano suonava il basso nei Settlefish. Credo che ci conosciamo da quando io avevo 16 anni e lui 20, quindi sono 25 anni, c’è una grande familiarità. Abbiamo fatto anche un disco assieme 15 anni fa, a nome Glow Kids, che abbiamo lasciato lì ma che in realtà ci piacerebbe far uscire in maniera non carbonara. Stefano mi ha aiutato su tutto. Per prima cosa, è un musicista incredibile, quindi le cose che ha suonato sono pazzesche, come il basso in un pezzo slide… poi l’ha mixato benissimo, e soprattutto ha dato quella sonicità “hi-fi” che cercavo sulla voce, perché è chiaro che il disco ha tante fonti diverse ma la parte registrata da lui è super.
E dalla versione dal vivo in quartetto cosa ci dobbiamo aspettare?
Secondo me, lo facciamo abbastanza simile, perché siamo in quattro ma ci scambiamo molti strumenti. Poi Laura sta dando una marcia in più. Lei non ha suonato sul disco, dove invece ha suonato Kyle (Knapp), un mio amico canadese, però è bello perché Laura, oltre a fare benissimo le parti che sono sul disco, ha aggiunto ancora di più fluidità, soprattutto nelle parti tra un pezzo e l’altro. Diventa tutto un magma unico, sicuramente non facile magari, ma a gusto mio sono le cose che mi piacciono di più: mi piace quando c’è molta stratificazione però riesci a capire qual è il nocciolo della canzone.
Come OndaRock, seguiamo il tuo lavoro da tanti anni. Sul sito abbiamo anche un’intervista ai Settlefish, con cui ti ho visto suonare anni fa...
Veramente?! Devo andare a vedere…
Sì… come senti che si è sviluppato il tuo percorso musicale da allora?
A volte ho dei rimpianti, nel senso che sono orgoglioso di tutte le cose che ho fatto, ma al tempo stesso ci sono sempre piccole cose che avrei voluto fare meglio, parlando di registrazione. Adesso, forse perché sono più grande, più vecchio, più maturo da un certo punto di vista, mi sento come se fossi completamente in linea con quello che ho in testa. Prima mi sono sempre sentito un po’ sfasato, come a dire che ci siamo ma non al 100%. La cosa è migliorata negli anni, dell'ultimo disco di His Clancyness, per dire, ero molto contento. Mi sento anche un po’ più libero… io sono una persona abbastanza ambiziosa, ma adesso più con me stesso che col fuori, prima lo ero anche col fuori, nel senso che soprattutto se suoni musica come la suono io, ma come anche i componenti di questo gruppo e degli altri gruppi in cui ho suonato – gente che ha fatto 100 date all'anno ovunque – è difficile. Nel senso che in Italia è difficile, perché non fai mai una musica che può trovare un suo pubblico. Suoni tanto fuori, ma anche fuori è difficile… Sono quasi più le frustrazioni che le soddisfazioni, e soprattutto quando sei più giovane ti arrabbi molto perché dici: “Ma perché non sono su quel sito lì?”. Questa è una cosa che crescendo ho perso, almeno circa 8-10 anni fa, e mi ha liberato completamente, nel senso che alla fine faccio musica ma faccio anche altre cose. Poi suono e so che suonerò sempre, ma non deve necessariamente essere quello che mi dà da mangiare e basta. Questa cosa l'ho trovata molto liberatoria. Vedo tanti altri che hanno questo problema. Lavoro anche per un'etichetta inglese, la Fire Records, dove c'erano artisti che ne erano ossessionati. Questa insoddisfazione la capisco nei musicisti… ma da anni io mi sento abbastanza libero: se va bene ok, però tanto lo faccio comunque.
Proprio il fatto che vieni da un certo tipo di esperienza nell’underground – il suonare tanto e tanto dal vivo, l’andare in studio praticamente già pronti e registrare nel minor tempo, poi l’aver aperto una tua etichetta – è possibile che abbia spostato la tua attenzione verso la dimensione fonografica? Sulla registrazione, e sullo studio come strumento...
Certamente. Avendo un’etichetta e quindi avendo tantissime tipologie di artisti e di artiste diversi, che ti mandano qualità di registrazioni molto differenti ma che sono perfette per quello che fanno, dopo certe paranoie non ce l'hai più. Devo dire che già coi Settlefish questa cosa di registrarci da soli l'abbiamo sempre avuta. Io ho un'idea di hi-fi che magari non è la stessa che ha l'altra persona. Oggi parlavamo di Fred Neil, per me il modo in cui è registrato è il massimo, per altri si sente male, quindi è tutto un po’ relativo… tra l’altro hai fatto un libro sui Sonic Youth che è uscito adesso? Io sono un mega-fan dei Sonic Youth!
Sì, sul loro rapporto con le immagini in movimento (videoclip, videoarte, cinema)…
Ovviamente sono considerati un grande gruppo, ma, secondo me, a volte sono anche un po’ sottovalutati perché, al di là del gruppo, se penso a tutti gli input che mi hanno dato non solo musicalmente ma proprio loro, dalle interviste al gettare luce su un’altra scena, un altro gruppo, un’altra cosa… le connessioni soprattutto. Le connessioni, se sei nerd come noi che ti vai a guardare tutto, sono fondamentali. È un gruppo che mi ha dato tantissimo…
È proprio quello che cerca di ricostruire il libro…
Loro alla fine sono degli appassionati di musica, e quella cosa lì viene fuori. Ogni volta che leggo una loro intervista mi viene voglia di andarmi ad ascoltare cose che non conosco… Mi ricordo di aver comprato in cd in Canada “Experimental Jet Set, Trash and No Star” (DGC, 1994), il primo che ho preso, perché su Mtv c’era il videoclip di “Bull In The Heather”. Compravo i Nirvana e poi c’era questa cosa più strana… dopo ho preso “A Thousand Leaves” (DGC, 1998) in cd, e poi sono andato indietro.
Questo ci porta a un’altra domanda: quali altre esperienze culturali ti hanno aiutato a crescere nel tempo? Che, immagino, in parte ti abbiano anche portato ad aprire una tua etichetta…
Allora, l'etichetta nasce anche dall'insoddisfazione con le altre etichette, questo è molto chiaro per me. In passato con i miei gruppi siamo stati su etichette anche fighe, però non ho mai trovato quella vicinanza che cercavo, nel senso che con His Clancyness eravamo su Fat Cat che sicuramente è una grande etichetta e loro sono stati sempre carini con noi, però un po’ di freddezza c'era sempre. Quindi mi ero fissato sul fatto che, se mai avessi fatto un'etichetta, avrei cercato di seguire gli artisti per quanto possibile molto di più, anche cercando capirli. Sai, magari non tutti arrivano con l'artwork perfetto o cose simili, quindi a volte si tratta di essere al loro servizio e cercare di portarli in quella direzione, che magari non ti sanno spiegare a parole ma che hanno in testa… a volte avere l'etichetta significa più essere uno psicologo che altro! Quantomeno con Maple Death, perché tutti sull'etichetta sono dei freak. Quindi questo è il motivo per cui ho fatto l'etichetta.
Altre esperienze culturali… secondo me, molto ha a che fare coi Settlefish, nel senso che sin da subito abbiamo iniziato a suonare in circuiti punk, hardcore, emo – quello che andava in quegli anni lì - e quindi tutti i primi tour erano in squat in Germania e Jugendzentrum, in cinque col sacco a pelo dove mangiavi il pappone vegano e c'era tutta una sorta di religione da seguire. E le cose le ho fatte così. Il furgone l’abbiamo sempre guidato noi… e alla fine è uguale adesso, non è cambiato letteralmente niente. E quella cosa lì, che comunque è una cosa che non hanno imparato tanti del fare musica, è sempre stata la mia modalità. E quindi, come esperienza culturale, i primi anni di tour dei Settlefish, anche negli Stati Uniti dove facevamo dei tour lunghissimi molto DIY in cui si suonava in una venue una sera, il giorno dopo nel posto all ages che era magari una stanza per i veterani adibita con due casse, il giorno dopo in un negozio di dischi, il giorno dopo in una stanza di un ragazzino ricco che la metteva a disposizione, e dormivi sempre a casa di persone. Quella roba lì mi ha formato culturalmente. Ed è come per me si fa la musica. In Italia quella cosa c’è, però un po’ manca. Io non ne faccio neanche una colpa, il problema è che qui il mercato è anche molto piccolo, molto schiacciato. In due secondi fai musica bella e sei sul crinale però di tv e cose diverse che non c’entrano niente con quel mondo lì.
Cosa muove le tue scelte di produttore? Sono i legami artistici personali che si creano, è la scintilla che fa l’ascolto, è l’idea di restituire una precisa immagine della musica contemporanea?
Sì, non ce l’ho come agenda. Sicuramente scelgo cose che non assomiglino l’una all’altra e che abbiano un po’ di storia oltre la parte musicale, dove c’è una narrativa forte che va al di là della musica. Non so se consciamente o no, ma quella è un po’ la direzione. Credo che le uscite di Maple Death abbiano una direzione abbastanza precisa. È vero che non sono un’etichetta di genere, nel senso che non faccia solo darkwave o solo post-punk o solo folk, quindi chi arriva a un secondo layer lo capisce... Le cose mi arrivano in maniera super-organica: spesso sono amici che ormai consigliano amici o amiche, sono cose che vedo dal vivo… ormai si è creato un micro-mondo, perché ci sono molti gruppi che fanno parte della scena di Roma Est, ci sono gruppi canadesi che si conoscono tutti, c’è una scena inglese dove si conoscono. Tutti fanno comunità, quella è la cosa base che noto di Maple Death. E tra l’altro cerco sempre di mettere tutti in contatto con tutti. All’interno dell’etichetta c’è Manu degli Holiday INN che è al Fanfulla a Roma, che, secondo me, è un locale importante in Italia per un certo modo di vivere l’underground, e lui è il primo (che risponde) quando gli proponi qualcosa: ha fatto il gruppo canadese di Maple Death, il gruppo di Torino, il gruppo di Bruxelles… e tutti sono un po’ così.
Ci sono tanti dischi che mi piacciono tantissimo che poi non faccio. La scelta per me deve essere: 1. mi devi piacere al 110% e 2. mi deve venire la voglia di stare in trincea per quel disco, perché poi è difficile fare promozione a questi dischi, la faccio io – a parte per il mio. Quando sono anche sfide strane – mi ricordo il primo disco di Krano, artista che cantava in veneto – quella roba lì di far arrivare a un tedesco piuttosto che a un americano quel tipo di musica è una sfida in più che mi piace, è uno stimolo in più.
Mi fai pensare a un’idea di underground in cui ritornano i Sonic Youth, al post-SST… un modo di vivere le cose in cui ci si ritrova nella diversità e in una serie di valori…
Certo, infatti se pensiamo alla SST ci sono i Meat Puppets che non c’entrano niente con i Minutemen, che non c’entrano niente coi Sonic Youth, figurati con i Black Flag. Quella cosa lì per me è una delle più belle. Però tutti ospitano gli altri per una data nelle rispettive città, si conoscono, magari anche collaborano, però rimangono con una loro identità. Ecco, nelle release cerco un’identità forte. Per me, in due parole, devo poterti spiegare quel disco – non dico l’artista – io devo poterti dire che cos’è.
Mi ricordo abbiamo avuto Theoréme (Maple Death, 2021) e Bono & Burattini (Maple Death, 2023) come Dischi del Mese e in effetti arrivava subito tutto, dall’artwork al suono… oggi cosa pensi quando apri il catalogo di Maple Death e ti guardi indietro?
Sono carichissimo! Maple Death è diventata un'ossessione per me, nel senso che sicuramente non mi dà da vivere economicamente, però mi tiene vivo. Sono molto orgoglioso di tutte le uscite, sono proprio delle figlie e dei figli. Fondamentalmente guardo i dischi e vedo soprattutto le facce degli amici… stasera appunto suono io, ma sul palco con me ci sono altri tre artisti e artiste di Maple Death, quindi c'è una parte di catalogo qui con me, e a Torino so che ci sono SabaSaba, Heart of Snake, Krano ma pure Movie Star Junkies, che anche se non ho mai fatto uscire niente di loro tante persone hanno circuitato sull'etichetta. C'è un senso di famiglia e di abbracciarsi.
Ti senti più nello spirito di aver fatto “Sprecato” e poi che farai delle canzoni nuove e farai un altro disco e altre canzoni, come era prima, oppure di dire che ricapiterà di nuovo solo quando avrai voglia di farlo, senza pensare a quando sarà?
In realtà, ci sto pensando, perché mi è piaciuto talmente tanto fare il disco, portarlo a termine, che ho una gran voglia di non fermarmi. Forse ho capito come costruire, il disco è una specie di mappa su come procedere… mi sta venendo una gran voglia! Ho già un po’ di idee, e comunque sono rimaste fuori anche alcune bozze che per una questione di tempo non sono riuscito a completare, e mi piacerebbe fare qualcosa in poco tempo. Poi mi piacerebbe documentare la band dal vivo, perché non so quanto durerà, semplicemente perché hanno tutti un disco in uscita – tra l'altro su Maple Death! – quindi hanno tutti le loro rispettive strade e chi lo sa quanto staremo assieme tra queste quattro persone sul palco, mi piacerebbe documentarlo, non so se in studio o dal vivo.
Quindi con “Sprecato” hai messo insieme un tuo modo tipico di scrivere con l’aver sperimentato modalità di produzione nuove…
Forse ho capito meglio che cose che mi sembravano difficili da fare in realtà sono state naturali. E voglio proseguire in questo. Ho anche cambiato un po’ visione. L’ultimo disco di His Clancyness è uscito nel 2016, ma mi sembra sia stato registrato nel 2015. Sette anni sono anche “eoni”. E magari sono anche più conscio io… non so.