Simon Balestrazzi è uno dei personaggi di spicco della scena post-industrial italiana. Nel 1981 forma i T.A.C. (Tomografia Assiale Computerizzata) formazione di impronta sperimentale capace di mischiare musica industriale e no-wave. Tra il 1986 e il 1988 crea l’ensemble dark-cameristico degli Kino Glaz, mentre nel 1991 si unisce ai Kirlian Camera. Diversi i progetti a cui ha dato vita o a cui ha preso parte, ha inoltre collaborato (tra gli altri) con personaggi e formazioni del calibro di Paolo Angeli, Bron Y Aur, Mattia Coletti, Ikue Mori, Bruno Dorella, Tim Hodgkinson, Xabier Iriondo, Damo Suzuki e Z’ev. Nell’intervista che vi apprestate a leggere abbiamo parlato ad ampio spettro della sua carriera e, in particolar modo, del suo ultimo album solista. Buona lettura.
Simon, perché "il cielo è pieno di aquiloni"? Molti dei miei titoli nascono da visioni che definirei, anche se il termine ormai è purtroppo abusato, "ipnagogiche". Solo in un secondo momento cerco di razionalizzarli, funzionalmente alle mie idee sonore. In questo caso, in cui le illustrazioni di Daniele Serra erano precedenti la stesura dei brani, mi interessava che l'immagine comunicasse anche gioia oltre che imprevedibilità e un senso di minaccia latente. Un organismo (gli aquiloni) instabile e in balia degli eventi. Il loro insieme è quasi immobile, ma le traiettorie interne nervose e imprevedibili. Lo sguardo è rivolto al cielo ma quali forze si agitano sotto/dentro di noi? Tutto ha a che fare con la fallibilità della percezione. Forse ho solo rivisto troppo Lynch, negli ultimi tempi...
In alcune parti del disco (in "Persistence Of Memory", soprattutto) ho ricavato le medesime sensazioni che ho provato nell'ascoltare alcuni dischi di hauntology. Cosa pensi di questa "Persistenza della Memoria" che sta attanagliando molta della musica attuale?
Sono combattuto. Da un lato è un territorio dove mi trovo a mio agio fin dai primi anni Zero. Credo che già molti miei lavori passati (T.A.C. periodo 2001-2005, Dream Weapon Ritual) si siano mossi concettualmente in un'area dove era importante la persistenza di memorie sonore, tracce di canzoni mai formate, ricordi fuori fuoco, tutto ciò che ha a che fare con il concetto di atmosfera e di sviluppo emotivo... un po' quello su cui D. Toop rifletteva nel suo "Haunted Weather". Guardandomi intorno apprezzo i lavori di progetti quali
Focus Group,
The Caretaker, O.P.N. oppure gli italiani
Heroin In Tahiti o Cannibal Movie.
In fin dei conti è un approccio adeguato al periodo attuale che a me pare più che "la fine della storia" sia il "tempo dell'eterno presente": un secolo abbondante di storia della musica e dell'arte in generale indifferentemente fruibile senza filtri... e poi non vedo questa grande differenza tra la famiglia Ghost Box che fruga tra la
library music della Bbc più esoterica e i
Grateful Dead che dilatano "Death Have No Mercy" verso l'infinito.
Però poi c'è il rovescio della medaglia. Mi spaventa questa rinuncia al "futuro", sia questo la ricerca di strade innovative o semplicemente nuove permutazioni non ancora esplorate a fondo. Temo l'attitudine
à-la-
Ariel Pink: cosa rimane realmente quando la bruma
lo-fi si dissolve? Forse quell'attitudine figlia del web 2.0 di schiacciare tutto verso l'omologazione: fare e suonare esattamente come tutti gli altri... identificazione e dito che corre sul "mi piace"...
La mia idea è che l'effetto hauntologico sia caratteristica della Società dello Spettacolo, e che quindi sia costantemente in itinere sin dai suoi albori (basti pensare ai vari revival che si sono succeduti, soprattutto dagli anni Ottanta in poi). Il punto è che internet lo ha reso pervasivo e ineludibile. Che ne pensi?
Assolutamente d'accordo. Però, senza scomodare Reynolds e il suo ultimo "
Retromania" (ottimo ma che non mi trova concorde su tutto), mi sembra che il problema vada spostato. In ogni epoca si è studiato, rubato, riciclato materiale musicale e culturale del passato ed è un processo assolutamente naturale... ma si è sempre avuta ben presente la linea temporale. Si conoscevano, citavano, omaggiavano le fonti. Ora che il web 2.0 sta trasformando le ultime generazioni da fruitori in produttori-consumatori, si sta perdendo la conoscenza del susseguirsi degli eventi temporali, dei generi musicali della storia e dell'evoluzione delle arti. E in tutto questo l'aggravante è il nuovo modo di fruire la musica: non più ascolto mediamente attento, ma ascolto compulsivo, bulimico e distratto, dito sullo stop o
fast-forward di YouTube (sempre con un'immagine davanti), ascolto di qualità che oscilla tra lo scarso e l'impossibile, Persone che ascoltano musica dal cellulare dove l'unico fantasma di musica che rimane è una traccia di linea melodica. Il vero e ulteriore problema è che noi musicisti, giornalisti ecc. stiamo pure a farci domande se questo sia un'ineluttabile evoluzione, se non sia naturale decretare la morte del formato album, della musica registrata o perfino della distinzione tra musicista ed ascoltatore... Cazzate! La realtà è che questo modo di fruire la musica è l'equivalente di mangiare da McDonalds: quanti di noi sprecherebbero neuroni per dissertare se McDonalds sia semplicemente una nuova e plausibile frontiera del cibo?
Sì, mi pare che si stia passando da una percezione lineare del tempo (per cui si può ragionevolmente dire che il gruppo B è stato influenzato dal gruppo A) a una percezione circolare, per cui nel magma vorticoso di segni e di codici si fa fatica a trovare punti di riferimento. Senza scomodare la fattucchiera, cosa pensi potrà succedere? Ascoltatori sempre più distratti e disinteressati, musicisti usa e getta, giornalisti musicali ugualmente superficiali?Sta già accadendo. Lo scenario descritto da Lee Siegel in "Homo Interneticus" è già in atto (a proposito, che titolo disgustoso: l'originale è "Against The Machine", che ha ben altro impatto). Non sono un tecnoscettico come Siegel, ma finché non si rivedranno con spirito critico le potenzialità della rete e non si riconoscerà che sono equidistanti tra agorà democratica e macchina totalitaria il rischio di encefalogramma piatto rimane alto... Goebbels avrebbe adorato internet, temo. Una mia previsione, riguardo alla musica, è che alzandosi costantemente l'età di chi la vive come esperienza artistica, arriveremo a una frattura insanabile tra musica commerciale (che si è sempre rinnovata guardando al mercato giovanile e che potrebbe essere sostituita da attività autoespressive - "lunga vita a Garageband"?) da una parte e musica - mi si passi il termine - "d'arte" dall'altra, che si muoverà su canali sempre più simili a quello delle arti visive (gallerie, curatela, multipli, quotazioni etc.). Oppure una grande e inaspettata ondata di musica mai sentita spazzerà via tutto.
Non pensi che il coro di voci pro e contro internet si delinei come il solito dibattito tra apocalittici e integrati, in essere ogni volta che un nuovo media entra in scena? Non credi che alla lunga anche internet verrà metabolizzato, certo con tutti i nuovi brainframes (per citare De Kerckhove) che avrà creato?
Può essere, anzi è molto probabile. Però a differenza di altri media e tecnologie che negli ultimi due secoli sono entrati a far parte della nostra vita, questa mi sembra l'unica in grado non tanto di cambiare-allargare-influenzare-incanalare gusti e mercato, ma di trasformare il concetto di merce, ovvero rendere i consumatori stessi merce di scambio, produttori di se stessi come merce, spostando i termini della transazione economica, il che pone diversi interrogativi su chi "metabolizzerà" chi...
Torniamo a "The Sky Is Full Of Kites". Ecco, sulla base di quanto detto finora mi piacerebbe sapere se l'album è espressione di un tuo bisogno profondo...
Assolutamente sì. Ma non ti dirò di più... Non sta a me "spiegare" questo lavoro, toglierebbe mistero e il gusto di immergersi nell'esperienza sonora senza filtri. Ti posso dire, invece, che da un punto di vista strettamente musicale è un ulteriore passaggio nel mio percorso verso un suono elettronico/organico dove il suonare e il processing in real time sono più importanti di editing e programming.
Rispetto ai tuoi lavori più improvvisati e ostici e al precedente "A Rainbow In My Mirror", in "The Sky Is Full Of Kites" mi pare di intravedere una maggiore ariosità del suono. Frutto di quest'approccio maggiormente organico? E qual è l'obiettivo di questo approccio?
Hai ragione, anche secondo me è un lavoro più "arioso" rispetto alle mie ultime uscite, anche se molti continuano a ritenerlo cupo e claustrofobico. Credo che, sotto traccia, si possa intravedere anche il mio amore per i
Popol Vuh. Probabilmente questo mio nuovo approccio influisce sull'atmosfera generale, anche se poi i processi generativi di "A Rainbow In My Mirror" non erano in fondo molto diversi. Ci faccio la magra figura del tardo
freak o del
neo new ager se ti dico che l'obiettivo è entrare in sintonia con la grande vibrazione universale? Però passando dalla porta sul retro, quella che attraversa il percorso più oscuro e pericoloso perché, per dirla con David Lynch (e con il mio amico
Gianluca Becuzzi che l'ha appena quotato in suo titolo), "le cose non sono quello che sembrano"...
Nel cd si dice che tutti i pezzi sono stati prodotti "in esilio". Perché questa necessità?
In realtà ad essere in esilio è il NeuroHabitat, il mio studio. Già era stato spostato in luoghi temporanei diverse volte da quando mi trasferii in Sardegna da New York, ma ormai da quattro anni è completamente smembrato. Quello che non è stato venduto è in parte inscatolato e in parte diviso tra Parma e Cagliari e sono costretto a spostarmi avanti e indietro proprio per questo. Pensa che ho un piccolo capannone mio, ma mi sto scontrando con l'inerzia e il malaffare dell'amministrazione pubblica italiana... Ho due ricorsi contro l'ufficio tecnico comunale e proprio ora sto per cercarmi un buon penalista. Probabilmente a tarda primavera lascerò definitivamente la Sardegna e sinceramente sto pensando di lasciare anche l'Italia, già che ci sono. Non riesco più a sopportare di vivere in un luogo così incivile. E neppure l'idea di avere ancora una coppia di main monitors Tannoy System 15 DMT II amplificati Bryston lasciati a marcire da anni in un deposito mentre sono costretto a lavorare tantissimo in cuffia.
La Sardegna è un luogo per certi versi misterioso. Anche tu, come Julian Cope, ti senti attratto da quell'alone esoterico che la avvolge? No. Forse un tempo. Ora mi suscita principalmente molta noia. Mai farsi fregare dal fascino tardo romantico per la natura incontaminata, quando poi vivi ed operi in una città. La vita e il livello culturale di Cagliari stanno peggiorando di anno in anno, e sono ormai in caduta libera. Comunque certamente molte aree della Sardegna possono avere un alone magico o ctonio e primordiale molto forte (esoterico direi proprio di no...) e, dal 2003, con l'ensemble multimediale MOEX abbiamo sonorizzato diversi luoghi quali necropoli, boschi e insediamenti nuragici.
Che mi dici di New York, invece? Hai avuto modo di sondare l'underground musicale della Grande Mela?
Non ho vissuto a New York così a lungo, giusto poco più di un anno. Ed ero principalmente interessato e concentrato su quello che accade dall'altra parte del vetro (di una sala di registrazione). Comunque NYC è una città profondamente rockettara, però la cosa fantastica è che nelle sue pieghe si nasconde di tutto, e ho avuto diversi contatti con personaggi della scena Illbient, che allora - 1997/'98 - era tra le cose più interessanti. E anche qualche contatto con l'allora nascente scena weird folk, giro Tower Recordings, e ho anche incrociato Tom Rapp (appena dopo il suo rientro sulle scene al Terrascope). Però i miei pochi progetti musicali non si sono concretizzati (anche se ho mancato di un pelo un buon contratto con Thrill Jockey con il mio duo elettro/dub Masse). Mi sa che ho conosciuto più executive, produttori e ingegneri del suono che musicisti.
Venendo agli altri tuoi progetti, rispetto ai dischi solisti qual è la direzione che hai inteso esplorare con Candor Chasma? Beh, visti i titoli e le tematiche andare a caccia di veri fantasmi anziché quelli virtuali dell'hauntology... Scherzi a parte, con Corrado Altieri ci siamo concentrati sul corpo, ormai un po' decomposto, dell'industrial delle origini per verificare se c'era un modo per renderlo attuale e sfuggire ai cliché del genere, molto ingombranti sia per chi viene appunto dal post-industrial, come noi, sia per chi viene dalla scuola noise. Non sta a me dire se abbiamo centrato l'obiettivo, ma siamo entrambi molto soddisfatti del risultato. E' stato un lavoro piuttosto lungo, in cui ci siamo imposti poche regole ma essenziali: niente laptop e processing digitale, niente ritmi che non fossero pulsazioni ottenute dai synth, niente loop ritmici. Infatti il lavoro è interamente realizzato con synth analogici di varie generazioni (VCS3, Moody Babybox, Monotron), registratori portatili a cassetta, piccoli campionatori di fascia bassa, catene di pedali in loop. Impegnativo, ma divertente. E sempre inserito in quel discorso di elettronica organica di cui ti parlavo precedentemente.
Mi sembra che tu abbia voluto dare una visione brutistica e ossessiva senza cadere nemmeno nei cliché del noise degli anni Zero... Che ne pensi di Prurient, dei Wolf Eyes, dei Black Dice ecc.? Li senti come discendenti diretti dell'industrial degli anni Ottanta? Il noise degli anni Zero mi piace e le tre band che citi sono o sono state tra le mie preferite. Hanno sicuramente ascoltato e assimilato sia industrial che power-electronics dei tardi 70/inizio 80, però no, non li considero discendenti diretti. Inoltre l'industrial propriamente detto fu più una scelta di strategie (shock tactics, situazionismo, citazionismo, riciclo delle avanguardie storiche in ambito popular) fortemente relazionate alla situazione socio-politica di quegli anni, più un network eterogeneo di artisti che un genere musicale, anche se alla fine un certo tipo di suono più o meno identificabile fu codificato.
Ecco, a proposito di post-industrial, ho sempre visto i T.A.C. come un'entità sfuggente, capace di affrancarsi dai cliché del genere. Anche se in maniera diversa dalla vostra, mi vengono in mente formazioni altrettanto sfuggenti come Mnemonists, H.N.A.S ed Étant Donnés. All'epoca vi sentivate parte del "network post-industriale" o eravate coscienti della vostra diversità?Grazie, questo per me è un grandissimo complimento. Certamente nel primo periodo, diciamo '81-'87, eravamo all'interno di un
network abbastanza solido e che allargava i suoi confini verso la
mail music e la sperimentazione
tout court. Inoltre, soprattutto in quegli anni, T.A.C. manteneva una forte componente rock in declinazione no-wave e avant. Il che sicuramente faceva di noi un'eccezione, ma neanche troppo. Il discorso sarebbe molto lungo, ma comunque quello che per noi era post-industrial aveva un forte legame con un impianto strumentale non strettamente elettronico: se ci rifletti le prime uscite TG giocavano molto con il pop e il rock, gli S.P.K. esordirono quasi punk e quella tendenza rimane nelle loro strutture fino a Leichenschrei, i
Cabaret Voltaire affondavono le radici nella psychedelia più minimale e "ottusa". Tutti usavano basso e chitarra, anche gli
Einsturzende Neubauten... Se sfogli le riviste di allora, sto parlando dei primissimi anni 80, ad essere considerati post-industrial in Italia erano T.A.C., Tasaday e F:A.R., tutte band che oggi considereremmo "atipiche". Invece MB, oltre al fatto di non suonare dal vivo e avere anticipato tutti di un paio di anni, era considerato più
power-electronics, e ai tempi non era la stessa cosa. Stesso discorso per altri pionieri come Laxative Souls, Mauthausen Orchestra o Bruno Cossano. O per Giancarlo Toniutti, uno dei più interessanti musicisti che abbiano mai operato in Italia e mai abbastanza riconosciuto, che veniva da esperienze di contemporanea. Poi, circa nel 1985/'86 è arrivata una seconda ondata
post, per capirci rappresentata qui da noi, da
Sigillum S, Lashtal e tanti altri e il concetto di suono (post-) industrial ha cominciato a cambiare. Meglio che m'interrompa prima di fare una lezioncina di storia, sai, la storia di T.A.C. dura da trent'anni e tra l'altro non è detto che sia finita, anzi... Quindi, tornando al nocciolo della tua domanda, sì, è sempre stato uno dei miei principali obiettivi forzare i confini tra i generi, anzi, combattere il concetto di genere e portare il suono di T.A.C. verso territori ibridi e liminali.
Mi pare di poter dire che nel bellissimo "A Circle Of Limbs" del '93 la componente rock/no wave andò persa, a favore di un approccio più strettamente post-industrial. In quel disco percepisco una forte componente rituale, a tratti sembra di sentire The Anti Group di Ady Newton (perdona il riferimento). Cos'era cambiato?
Figurati, essere paragonati all'Anti Group è sempre un piacere. Nel '93 erano cambiate tante cose, quasi tutto praticamente. Era cambiata la formazione, di cui ero rimasto l'unico membro originale già dal 1987. Era cambiato il mondo e la musica intorno a noi... Mi è sempre piaciuto pensare a T.A.C. come alla macchina da cui prendemmo il nome: uno strumento per osservare e analizzare gli stati, spesso patologici, in atto in un organismo e riprodurne un immagine elettronica, che a sua volta necessita un'interpretazione. Inoltre a metà '89 era iniziata la collaborazione di Enrico Marani, ai tempi alla sua prima esperienza come musicista, e insieme avevamo intrapreso un periodo molto intenso di sperimentazione, senza limitazioni di mezzi o discipline. Anche se Enrico lasciò T.A.C. già all'inizio del '92, sostituito a breve da Angelo ed Emilia dei
Kirlian Camera, tutte e tre le uscite di quegli anni, quindi anche "Pioggia Su Carne Di Cavallo" e "Hypnotischer Eden" più un numero notevole di brani originali sparsi su
compilation, vennero concepite in quel triennio di lavoro frenetico. La cosa divertente riguardo "A Circle Of Limbs" è che ai tempi fu spesso scambiato come una raccolta di brani già editi, mentre era probabilmente il lavoro più unitario, quantomeno come suono, a cui avessimo messo mano... L'equivoco nacque dal fatto che avevamo deciso di "smembrare", da cui il titolo, l'album e utilizzare le versioni ancora, come dire, al grezzo e spesso registrate di getto, per rispondere alle richieste di partecipazione a numerose
compilation internazionali che ci stavano piovendo addosso mentre eravamo concentrati, in studio, con la realizzazione in parallelo di "Hypnotischer Eden" - che in realtà fu concepito e messo in cantiere almeno sei mesi prima. I due lavori erano abbastanza speculari: gli stessi elementi in gioco, ma dove in uno la componente ambientale e rituale assorbiva la struttura "melodica", nell'altro la forma-canzone nasceva dalle stesse atmosfere che mano a mano venivano spostate in secondo piano.
Quest'anno sono uscite diverse cose a tuo nome. A cosa lavori attualmente e ci sono novità in casa T.A.C.?
Sarà un anno parecchio produttivo. Tra non molto su Silentes ci sarà la prima uscita di Sarang, un nuovo progetto a quattro mani proprio con Enrico Marani. E' la prima volta che lavoriamo di nuovo insieme dal '95 o giù di lì. Sempre entro primavera uscirà la ristampa del secondo album (il primo vinile omonimo del 1983) di T.A.C. per Officina Fonografica Italiana, cui farà seguito "Ouvrez Vos Auditifs Canaux". E poi stanno per uscire tre floppy disk, ognuno contenente un loop per Santos Productions. Ho appena finito di mixare un album con z'ev e un altro, un omaggio a J. G. Ballard, realizzato con Gianluca Becuzzi e Corrado Altieri, entrambi però ancora senza casa. E sto cominciando a lavorare a un nuovo solo e al prossimo Dream Weapon Ritual… Sto anche riorganizzandomi per suonare live sia in solo che con DWR e Candor Chasma. E poi ci sono altre collaborazioni che stanno prendendo forma, possibili performance/installazioni di MoEx, un all night concert da presentare alla prossima edizione di Signal… In tutto questo marasma, sto anche accarezzando l'idea di un rientro in scena di T.A.C. entro la fine dell'anno. Vediamo cosa si materializza…