MARINA

MARINA

Pop e altre complicazioni

Dal pop irriverente e beffardo degli esordi alla trasfigurazione elettronica nel suo biondo alter-ego americano, fino alla terza e ultima era di Marina And The Diamonds. Storia di una delle più originali e camaleontiche "artiste pop" degli ultimi anni

di Giulia Quaranta

Cercando una strada

Dotata di una vocalità straordinaria, a più riprese paragonata a Kate Bush, PJ Harvey e Cyndi Lauper, Marina Lambrini Diamandis in arte Marina And The Diamonds si è guadagnata, nel giro di un quinquennio o poco più, il posto che le spettava nel mondo della musica pop, tra hit travolgenti, beffarde e talvolta un po' tamarre, e ballate raffinatissime.
Nata a Abergavenny, in Galles, da padre greco e madre gallese, separatisi quando lei aveva quattro anni, Marina è cresciuta nella contea di Monmouthshire, dove ha frequentato un college femminile. È all'età di quattordici anni che decide che sarebbe diventata una cantante, trainata in un "mondo di fantasie" dal successo della sua eroina d'infanzia, Britney Spears, che a quei tempi stava vivendo il suo periodo d'oro, e dalla lettura di biografie di importanti popstar come Madonna. Grazie all'ingenuità dell'età e alla acerba ambizione che inizialmente la caratterizzava e che in seguito, invece, si rimprovererà, la giovane Marina si convinse che anche lei ce l'avrebbe fatta.

Così, dopo due anni trascorsi in Grecia - dove consegue il diploma di baccalaureato internazionale e si mette alla scoperta delle sue origini e dalla musica popolare del posto - a diciott'anni Marina ritorna in Gran Bretagna e si trasferisce a Londra, dove inizia a frequentare prima una scuola di danza e poi l'università, seguendo un corso di composizioni classiche, ma abbandona entrambi dopo due mesi.
Un po' sconfortata, ma con l'idea fissa di entrare a far parte di una band, la Diamandis inizia a buttarsi a capofitto nelle audizioni, compresa quella indetta dalla Virgin per una boyband reggae, cui si presenta travestita da ragazzo. Ma questo non è uno di quegli aneddoti simpatici in cui il protagonista, grazie a un guizzo creativo, bizzarro e apparentemente un po' ridicolo, e alla propria caparbietà, riesce nel suo intento. E infatti viene fermata ai cancelli dalla guardia di sicurezza. Una settimana dopo riceve una telefonata dalla Virgin. "Probabilmente erano solo curiosi di vedere che razza di pazzoide fossi" - rivelerà in seguito la cantante, che in quel caso bruciò la propria opportunità, presentandosi con una timida versione di un pezzo di Whitney Houston. La curiosità dei produttori scemò immediatamente. Quell'episodio segnerà l'inizio di un periodo difficile per la giovane gallese, in balia di una forte disillusione che la condurrà anche a un forte conflitto col proprio corpo, un dissidio di cui si trovano tracce soprattutto in canzoni unreleased come "Supermodel's Legs" e "Silver Walls".

L'era dei Gioielli

Ma quella sarà anche l'occasione che le darà il giusto slancio per rimettersi in gioco. Pertanto Marina cessa di partecipare alle audizioni e inizia a scrivere e comporre da sé canzoni al pianoforte, dopo aver adottato, nel 2005, lo pseudonimo "Marina And The Diamonds", dove per "diamanti" si intendono i fan. "Ho semplicemente immaginato un gruppo di persone che condividono lo stesso cuore. Uno spazio per persone con ideali simili che si sentono stretti dallo standard di vita preconfezionato". Inoltre, la scelta di chiamarsi in questo modo è stata, a detta della cantautrice, anche un modo per combattere la solitudine, "un'idea carina e calorosa, che non suona egocentrica come Marina Diamandis".

Determinata a farcela, pubblica il primo Ep, Mermaid vs Sailor, nel 2007, sul suo profilo MySpace. Nerbo di questo debutto sarà l'anima teatrale che ogni canzone riflette, dalla prima versione di "Seventeen", per la quale verrà in seguito realizzato il primo videoclip della cantante, ai primi, acerbi bozzetti dell'ottima "Hermit The Frog" e di "Simplify", che è una delicata ode alla semplicità e rimanda al pop pianistico ed elegante di Tori Amos, anche se contiene già tanto di quella che sarà la cifra distintiva della prima era di Marina - quella dei "gioielli" - ma senza sbilanciarsi.
E c'è poi "Plastic Rainbow", la prima canzone in assoluto a essere scritta dalla Diamandis all'età di 19-20 anni, un brano che la condurrà al desiderio di diventare una cantautrice, cambiando per sempre il suo approccio alla musica, fino ad allora meramente ambizioso. Risulta, dunque, impossibile non fare caso all'incredibile carisma e alla genuinità di questa primissima prova (ora praticamente introvabile in formato cd), nonostante la registrazione casereccia, la voce del tutto imperfetta e la sensazione di vulnerabilità che ne trapela.

Nel 2009 Marina compie un piccolo passo in avanti, riuscendo a pubblicare l'Ep The Crown Jewels con l'etichetta "Neon Gold Records", in cui fa la sua prima comparsa l'estatica "I Am Not A Robot", futuro cavallo di battaglia della cantautrice. Una canzone che da sola alza notevolmente l'asticella qualitativa dell'iniziale repertorio. Ci sono, insomma, diversi spunti che fanno pensare a un futuro interessante. E così, l'anno successivo, Marina pubblica il suo terzo Ep, The American Jewels Ep, anticamera del primo album, "The Family Jewels", pubblicato con la Atlantic Records e anticipato dai singoli "Mowgli's Road" e "Obsessions". Quest'ultima canzone pare sia la preferita di Chris Martin dei Coldplay, per i quali Marina aprirà il tour europeo un paio d'anni dopo. Ma andiamo per ordine.

Dovessimo valutarlo dalla copertina atrocemente photoshoppata, non daremmo neanche una chance a The Family Jewels. E invece ci troviamo davanti a un album sorprendente, capace di mettere in dubbio i canoni della musica pop degli ultimi anni, sia per quanto riguardo le tematiche, affrontate sempre con piglio personale nonché sagace e tagliente, sia per quanto concerne la ricerca e la sperimentazione musicale, che trova conferma soprattutto nel pastiche di generi della conclusiva "Guilty".
Difficile trovare termini di paragone per questo lavoro che mescola indie-pop di qualità e sferzate new wave; i più hanno infatti avanzato un pigrissimo paragone con Lily Allen, che alla luce dei fatti c'entra poco o niente con la cantautrice gallese. Diverse le sonorità, diverso il mood dei brani. Diverse le voci. Quella della Diamandis è vigorosa, funambolica e incredibilmente espressiva, in grado di dar vita a interpretazioni che potremmo definire vere e proprie "onomatopee espressive", aiutandosi anche con piccoli artefizi retorici disseminati nelle varie canzoni e creando inoltre una reale corrispondenza tra la materia cantata e il come essa viene cantata. Così la sentiremo fluttuare, umile e vibrante, nel decantare le "Obsessions" che pesano sul nostro vivere quotidiano e farsi quasi scimmiesca e cartonizzata al ritmo di "Mowgli's Road".
E ancora, sporcandosi di tanto in tanto in sonorità elettroniche ripescate dagli anni 80 (lo sfottò di "Shampain"), Marina ci guiderà nella grottesca presentazione di un'America frivola e bizzosa - tema questo che tornerà prepotente nel suo sophomore Electra Heart - , facendo il verso ai personaggi caricaturali delle sue canzoni ("Hollywood"), nonché a se stessa ("Oh No!").
Il paragone più centrato potrebbe essere quello con il cantautorato di Regina Spektor, con cui la Marina dell'Era dei Gioielli condivide l'attitudine alla creazione di chiaroscuri e contrasti, nonché ai ghirigori vocali e al comporre su base pianistica ma, laddove quest'ultima è più raffinata, classica e di derivazione toriamosiana, il sound di Marina risulta nettamente più energico e variegato, e anche più grossolano, se vogliamo. E non è detto che ai fan della Diamandis piaccia Regina Spektor, né viceversa.
Per comprendere quanto la vivacità espressiva della prima Marina sia originale, è bene ascoltare anche i brani che non hanno trovato spazio nel suo debutto, come "Sinful", ispirata al dolore del suicidio osservato da occhi cristiani, e la cover della Gary Numan-iana "Space And The Woods" dei Late Of The Pier, in realtà B-side di "Mowgli's Road", in cui esplode con inaspettata energia punkettona (scopriremo in seguito della sua ammirazione per Johnny Rotten e, soprattutto, Brody Dalle, a cui tenta di rubare la voce graffiata).
Esiste un intero album contenente i demo della cantante risalente a questo periodo: si intitola "Give Me The Money!" e non è mai stato rilasciato ufficialmente, si tratta bensì di un leak all'opera di un fan, che merita di essere citato già solo per l'iniziale "Starlight", tra i migliori brani della cantautrice gallese, e per la cover di "Perfect Stranger" di Katy B e The Magnetic Man. Marina spoglia letteralmente il brano dal ritmo sincopato drum'n'bass che contraddistingue l'originale e lo reinventa, dandogli un volto nuovo, che è struggente, profondo, potente. E se la cosa vi sorprende, provate ascoltare la sua versione di "Boyfriend" di Justin Bieber con cui si è esibita alla Bbc Radio 1 nell'aprile del 2012!

L'era dei Gioielli è dunque un periodo fruttuoso per la Diamandis, durante il quale pare trovare finalmente un equilibrio e la propria strada artistica, nonostante le iniziali carenze dal punto di vista tecnico, soprattutto al pianoforte.

L'era di Electra Heart

Nell'estate del 2011 la Diamandis verrà chiamata, insieme a Robyn, ad aprire i concerti del "California Dreams Tour" di Katy Perry, e questa esperienza le sarà certamente utile dal punto di vista formativo. Circa un annetto dopo pubblicherà, anticipato da vari singoli, il suo secondo disco, il concept album Electra Heart, la cui protagonista incarna diversi stereotipi della moderna donna americana, interpretati secondo una visione cinematografica. Ma Electra è anche l'antitesi di tutto ciò in cui Marina ha sempre creduto, è una costruzione ideologica, una storia da raccontare: il lato corrotto del sogno americano. È, insomma, pura finzione. Come la musica pop. E per interpretare al meglio la parte, Marina si cala anche fisicamente nel personaggio: i capelli neri vengono coperti da una parrucca bionda, in modo da ottenere un effetto totalmente plastico e innaturale, e sulle gote compare un cuoricino nero, simbolo di Electra Heart. Il look si fa più costruito, morbido e femminile, decisamente girly, a tratti vintage, e il corpo morbido e prosperoso di Marina inizia a essere messo in risalto.

"La mia più grande paura, che è poi la paura di tutti quanti immagino, è quella di perdermi e diventare una persona vuota. Ed è facile che questo accada quando sei molto ambizioso", racconta la cantautrice nel presentare la sua creatura, Electra Heart, riflesso tetro e ambiguo di tutto ciò che Marina Diamandis ha scelto di non essere. Ascoltando l'album si ha, però, più volte l'impressione che la cantautrice si sia calata fin troppo nei panni di Electra, e in brani come "Teen Idle" e nella fintamente gioiosa "The State Of Dreaming" - in cui compare il fantasma di Kate Bush - il confine tra persona e personaggio si percepisce nettamente come più labile. A questo si aggiunge l'aver aperto i concerti di Katy Perry, una delle popstar più famose e più vacue dei giorni nostri, ed ecco servito il misfatto su un piatto d'argento: i fan di vecchia data iniziano a chiedersi chi sia la vera Marina, se la ragazza acqua e sapone di "I Am Not A Robot" o quella con parrucca bionda e cuoricino sulla guancia di "Primadonna". E dov'è che bisogna cercare, ammesso che esista davvero, il confine di demarcazione che separa Electra dalla sua creatrice.

D'altro canto è vero pure che la Diamandis non ha mai nascosto la sua passione verso la musica pop (pur avendo dichiarato di fare una distinzione tra popstar e artisti pop) né la morbosa quanto reticente fascinazione nei confronti del sogno americano. Beninteso, Marina è consapevole del fatto che si tratta solo di una seducente illusione e, come sappiamo, aveva usato già in precedenza l'autoironia per farsi beffa di questo suo punto debole.
In "Electra Heart" non celebra il lato glamour dell'America, come fa invece inconsciamente, o quasi, la Perry, ma utilizza l'illusione americana - vista con gli occhi di una non americana - come sfondo "storico" per raccontare storie di fallimenti, di cadute, di solitudine e alienazione. Tutto sembra scritto come fosse la sceneggiatura di un film o, meglio ancora, di un moderno melodramma - già il nome Electra rimanda alla tragedia greca - affondato in un sound volutamente kitsch. E il risultato, per quanto non sempre riuscito, segna la delimitazione tra popstar (Katy Perry) e artisti pop (la Diamandis).

La cantautrice greca non ha cambiato se stessa nel realizzare questo lavoro, si è solo trasfigurata in una sorta di alter ego; a fare in realtà la differenza è la produzione del disco, ad opera di rinomati guru degli studi come Liam Howe, Greg Kurstin, Dr.Luke, Diplo e Stargate. Ed è per il loro zampino che l'attitudine un po' indie un po' new wave della prima Marina viene qui sublimata in electro-pop dal taglio commerciale. Ma, una volta spogliata di questa produzione sovrabbondante e modaiola, la maggior parte dei brani risulta perfettamente coerente con l'archeologia pop di Marina And The Diamonds. Spesso, infatti, le canzoni sono state riproposte in versione acustica dal vivo; ed ecco "Teen Idle" diventare un'accorata e intima confessione al piano, "How To Be A Heartbreaker" perdere la sua anima maliziosa e vestirsi di malinconica fragilità, rivelando la sua natura narrativa, mentre "Starring Role" lascia a bocca aperta per l'interpretazione vivida ed emozionante che viene offerta.
Sono dunque poche le canzoni di Electra Heart nate esclusivamente dal cuore prepotente ed energico della stessa Electra. Tra queste, sicuramente "Bubblegum Bitch", vera e propria introduzione al personaggio e alle sue contraddizioni, e "Radioactive", scritta da Marina ispirandosi all'atmosfera frizzantina e folgorante di New York. Ci sono poi gli incalzanti singoli che hanno trainato l'album in cima alle classifiche di mezzo mondo: "Primadonna", in cui la sua voce sfiora territori lirici, dandoci già un assaggio di quanto la tecnica vocale di Marina sia sorprendentemente migliorata, "Power And Control", co-scritta con Steve Angello degli Swedish House Mafia, forte di un umore da dance club, e infine la già citata "How To Be An Heartbreaker", che si riallaccia alla prima, con il piglio ironico ben in evidenza.
La versione standard di "Electra Heart" si conclude con uno dei brani più seducenti ed eleganti di quest'era, "Fear And Loathing", mentre quella deluxe, nonostante contenga solo poche tracce in più, inizia a risentire un po' troppo dalla sopracitata produzione enfatica e ruffiana. Ma si sa che Electra Heart è così, prendere o lasciare. E sarà proprio con la parrucca bionda di Electra che Marina raggiungerà un ampio successo di pubblico. Ad aiutarla, oltre all'avvenenza pop del personaggio e dei singoli, accompagnati da videoclip ben realizzati, sarà anche il fatto che verrà chiamata ad aprire il "Mylo Xyloto Tour" dei Coldplay, un'ottima occasione per farsi notare.

Ma anche questa fase non è destinata a durare. Nonostante Electra Heart, con le sue contraddizioni, le sue debolezze e le sue incoerenze, abbia conquistato il cuore di moltissimi fan e ormai la maggior parte delle persone tenda a identificare Marina con il suo alter ego, la cantautrice decide che è il momento di passare ad altro. "È stato divertente finché è durato" - le sue parole, ma Marina lascia più volte trapelare l'amarezza unita alla consapevolezza che l'esperienza di Electra Heart le ha lasciato: essere una popstar, sia pure per finzione, non fa per lei. Perché le persone tendono a inquadrarti in un certo modo, se sei una popstar, e pensano che tu non sia in grado di creare la tua musica, ma che tu sia solo un burattino nelle mani degli altri, senza stile, né personalità.

Prima di uccidere il suo audace alter ego, Marina fa in tempo a duettare con una giovane popstar in divenire, la nuova next big thing britannica. Lei è Charli XCX e all'epoca, maggio 2013, aveva appena pubblicato il suo primo album, "True Romance", ed erano in pochi a conoscerla, nonostante il travolgente successo riscosso da "I Love It", cantata dalle Icona Pop ma scritta proprio da lei.
La canzone che la Diamandis compone per l'occasione, cucendola perfettamente addosso alla giovane Charli, al tempo palesemente influenzata da Marina, così come lo è al giorno d'oggi Melanie Martinez, sfrutta uno dei soliti giochi di parole di Marina, dove il titolo, "Just Desserts" sta per "justice hurts". Nel brano risulta, però, talvolta difficile distinguere quando canta l'una o l'altra. Forse più per effetto di un omologante autotune che per incapacità delle stesse di darsi un tono distintivo. La loro timbrica vocale è infatti molto simile, ma gli otto anni e la tanta esperienza in più della Diamandis si fanno sentire, senza contare che la voce di quest'ultima è molto più grave e malleabile rispetto a quella più immatura ma comunque apprezzabilissima di Charli, che qui dà anzi un gustoso assaggio della propria versatilità. Il pezzo, prima collaborazione di Marina con un altro artista, verrà pubblicato su SoundCloud e YouTube.

L'era dei Frutti

A maggio del 2014 Marina rilascia un video musicale sul suo canale YouTube dal titolo "Electra Heart", che segna simbolicamente la fine della sua era artistica più prolifica e complessa. In quello stesso anno si metterà, infatti, al lavoro su un nuovo album, con le idee ben chiare riguardo a come esso dovrà suonare. Se per Electra Heart erano stati chiamati a raccolta i produttori più forti della scena mainstream, Marina ha ora in mente un'atmosfera organica e compatta da conferire al nuovo lavoro e sarà il produttore David Kosten ad aiutarla in questa impresa.

Nel novembre 2014 inizia la promozione del nuovo disco, FROOT. L'operazione mediatica è semplice ma funzionale: pubblicare ogni mese un singolo con annesso videoclip, fino all'uscita del disco, originariamente prevista per aprile, ma poi anticipata al 10 marzo per via dei leak subiti. Fin qui, tutto grandioso: i singoli si susseguono, mese dopo mese, gustosi e interessanti, eccezion fatta per le dozzinali "Forget" e "Blue", e tutto fa pensare che la Diamandis sia tornata alle origini, a quell'onestà artistica e a quella stravaganza pop dell'Era dei Gioielli.
Ma la delusione non tarda ad arrivare: se i brani migliori vengono bruciati proponendoli come singoli (dalla freschezza di "Froot" alla malinconia speranzosa di "Happy", splendida nella versione live acustica pubblicata sul canale YouTube della cantautrice, fino alla conclusiva raffinatezza fosca e pensosa di "Immortal"), gli altri brani finiscono per assomigliarsi tutti, appiattiti da una produzione che non dà risalto alla pur sempre ottima voce della Diamandis - qui tuttavia priva di mordente perché perennemente in cerca vuoi di un'oniricità forzata, vuoi della nota più alta ("Weeds"). Sembra insomma essersi dissolto nel nulla quello stile vocale multiforme e carismatico che rendeva le interpretazioni di Marina tanto accattivanti e, soprattutto, inconfondibili.
Persino la sua potente vena nella scrittura si è appiattita, se escludiamo quei pochi prezzi precedentemente accennati e "Savages", che fa placidamente il verso all'esordio della cantautrice. Ma è solo uno spiraglio silenzioso. Pezzi icastici, ironici ed eccentrici come "Oh No!", "Hollywood" e "Guilty" non sono mai stati così lontani.

E non sarà l'innegabile meticolosità impiegata nel produrre e promuovere questo lavoro a salvare FROOT da una propensione anemica e solipsistica, che annoia l'ascoltatore gettandolo in un mood solo apparentemente raffinato e ricercato.
Non sempre la maturità porta con sé i frutti migliori.

Il disco della maturità: Love + Fear

Marina Diamandis è cresciuta, si è lasciata alle spalle i vagiti indie-pop e lo spleen new wave di The Family Jewels nonché le ormai iconiche nevrosi femminili di Electra Heart. Ha inoltre abbandonato "And The Diamonds" per abbracciare il più semplice nome di MARINA, ed è ripartita da "FROOT" per quanto concerne sonorità e produzione. Ma, laddove FROOT finiva per arenarsi, ancora acerbo, incompleto e tutto teso verso un'attitudine solipsistica, LOVE + FEAR riesce a compiere un piccolo, atteso passo in avanti, abbracciando quell'oniricità tanto amata dalla cantante, che qua sboccia senza forzature.
Bisogna precisare che in realtà l'opera si compone di due dischi, pubblicati a poche settimane di distanza l'uno dall'altro, come fosse un concept album.
"Love" si apre con "Handmade Heaven", che è anche il primo singolo, ode eterea e limpidissima alla vita e alla natura, non priva di un tocco nostalgico dovuto alla presa di coscienza che costruirsi un "paradiso fatto a mano", in una società sempre più tecnologicamente avanzata e al contempo isolata, non sia cosa semplice. Realizzare il proprio locus amoenus sembra dunque il punto di partenza per ricominciare a vivere. Per riprendere contatto col mondo naturale e l'umanità.
Tutte tematiche, queste, che torneranno a più riprese nelle otto canzoni che compongono "Love", e in modo particolare nella coloratissima "Orange Trees", ispirata all'isola greca Lefkada, che ha dato i natali al padre di Marina e in cui la stessa cantante ha vissuto per qualche anno, e soprattutto in "To Be Human", deliziosa ballata in cui la Diamandis canta il suo desiderio di connessione tra persone, lasciando che la sua penna brilli (quasi) come un tempo (I like to think about how we all look from afar/ People driving fancy cars look like beetles to the stars/ The missiles and the bombs sound like symphonies gone wrong: Mi piace pensare a come appariamo da lontano/Le persone che guidano automobili di lusso sembrano scarafaggi dalle stelle/I missili e le bombe risuonano come sinfonie andate male).
Ogni singolo brano di "Love" ha una propria personalità, tant'è che c'è spazio persino per un virgulto latino in compagnia di Clean Bandit e Luis Fonsi ("Baby") e per le capatine commerciali di "Superstar" e "Enjoy Your Life". Ma a sorprendere è soprattutto "End of the Earth", per via di un arrangiamento elettronico gentilmente cupo, che conferisce alla canzone, che è sostanzialmente una canzone d'amore, un elegante riflesso oscuro, un'emotività ruvida e fors'anche gravida di paure. C'è poi un'esplosione finale, che cancella dubbi e timori, e va a lenire tutto quanto al suono di "I love you till the end" con la sola forza della bellezza delle cose più semplici.
Dal secondo disco, "Fear", ci si aspetterebbe un sound design nettamente più cupo e invece costrutti e melodie sono molto simili al primo disco: si va dalla serafica "Believe in Love" a "Karma" che, a suon di ukulele e mandolino, rappresenta al meglio la nuova Marina, tra invettive femministe, ritornelli collosi e una certa propensione radio-friendly. Da segnalare anche "Emotional Machine", la prima canzone scritta dopo FROOT, nonché quella che più di tutte in questo doppio album riesce, grazie a un'innata eccentricità, a spiccare e rimanere impressa.
Ma non è tutto oro quello che luccica. Ci sono almeno due cose che, per la seconda volta, fregano la talentuosa cantautrice. La prima è la solita produzione piatta e informe che ammorbidisce tutti gli spigoli, attenua le particolarità vocali e sonore e mira stolidamente a rendere i brani molto simili tra loro, cosa di per sé non particolarmente difficile dato che l'album è composto per lo più da midtempo.
E poi c’è la questione testi: sicuramente, come abbiamo visto, qua e là si trovano discreti spunti ma, d'altra parte non mancano scivoloni e banalità, che conferiscono all'album un'andatura talvolta un po' superficiale e insipiente.
Il giudizio dipende dunque dalla personale lettura che se ne vuol dare. Lo si può considerare semplicemente il disco frivolo e senza pretese che aprirà definitivamente a Marina Diamandis le porte del successo commerciale, oppure come un semplice inno alla leggerezza e all'armonia, a cui si può perdonare qualche velleità di troppo.
A parere di chi scrive, in media stat virtus. Love + Fear sancisce il definitivo addio della cantautrice all'universo indie-pop da cui era partita. I vari accostamenti a Regina Spektor, PJ Harvey e Fiona Apple risultano ora improbabili e lontani; Marina, scevra ormai del nichilismo ironico e vivace delle origini, risplende ora come una delle tante starlette del pop al femminile, ma al contempo anela al cantautorato più impegnato. Con "Love + Fear" non riesce a trovare realmente posto né sul primo né sul secondo proscenio ma, d'altro canto, è impossibile rimanere impassibili di fronte a questo suo genuino tentativo di stabilire una congiuntura tra le sue due anime.

La svolta e una nuova era: Ancient Dream In A Modern Land

Marina ce l'ha fatta. È riuscita laddove i suoi due album precedenti avevano, in parte o del tutto, fallito. Trainata da un forte afflato ideologico di matrice femminista, in Ancient Dream In A Modern Land (2021) riesce finalmente a condensare il piglio insolente e stravagante degli esordi con le sue velleità cantautorali.
La formula è semplice e trova il proprio paradigma in una sorta di mediazione tra "The Family Jewels" e "FROOT", qua e là spuntano echi di Kate Bush, Late Of The Pier e un gusto kitsch che occhieggia al pop e ai cartoni degli anni 80 e alla musica disco. Molti dei brani invitano infatti ad alzarsi in piedi a ballare, a partire dalla tiratissima title-track, passando per "Purge The Poison", profezia melodrammatica che si configura come un dialogo con una Madre Natura beffarda ma caritatevole, e "I Love You But I Love Me More", sfacciatissimo tormentone pop che farà felici anche i fan di Britney.
Non è un vero album di Marina senza l'invettiva agli Stati Uniti: e infatti l'ironica "New America", scritta il giorno dopo l'assassinio di George Floyd, si scaglia contro l'America bianca e razzista. La produzione, godibilissima, mescola baluginii synthwave e voluttuosità electroclash, ma il testo avrebbe invero potuto indagare la tematica con maggiore profondità. Vi è poi l'inno ecofemminista "Man's World", in cui Marina accentra alcune delle frasi più immediate del disco ("Burnt me at the stake, you thought I was a witch/ Centuries ago, now you just call me a bitch"... "Mi hai bruciato sul rogo, pensavi che fossi una strega/secoli fa, oggi mi chiami semplicemente puttana") e l'ottima "Venus Fly Trap", che si imprime facilmente grazie al basso colloso e a un videoclip che consacra l'estetica new wave della nuova Marina, tra richiami ai film horror degli anni 80 e in generale a quella "future nostalgia" ormai legittimata anche nel mondo del pop mainstream da Dua Lipa.
Ma in Ancient Dream In A Modern Land c'è spazio anche per le ballate contemplative, come "Flowers", che rimanda a "Buy The Stars" e dunque alla florida stagione di Electra Heart, e la dolceamara "Goodbye", che chiude l'album tra stop and go, gorgheggi da chanteuse e flebili rimandi al pop pianistico di Fiona Apple. Entrambi i pezzi, così come "Pandora's Box", offrono spunti interessanti ma, come le ballate del precedente disco, risultano eccessivamente prodotte.
Funziona meglio "High Emotional People". Un po' per il testo, in cui, con grande assennatezza, Marina canta di depressione e turbamenti emotivi ("People say men don't cry/ It's so much easier to just lie/ 'Til somebody takes their life/ Emotions are a part of our design"... "La gente dice che gli uomini non piangono/ È molto più facile mentire/ finché qualcuno non si toglie la vita. Le emozioni sono parte del nostro design"), un po' perché qua la produzione appare più rispettosa della vocalità della cantante e si concede, verso il finale della canzone, una tessitura di debordante e sfarzosa magnificenza.

In Ancient Dream In A Modern Land Marina imbeve di estetica kitsch e di accattivante edonismo le tematiche d'attualità che da sempre le stanno a cuore (difesa delle minoranze e cambiamento climatico in primis), tornando finalmente a giocare un po' con le melodie, l'immagine e le metriche. Sebbene alcuni testi rimangano troppo didascalici e la scaletta dell'album manchi di equilibrio tra i brani più briosi e le ballate, possiamo dire che qui si apre una nuova e fiorente era per la cantante gallese.

MARINA

Discografia

Mermaid Vs SailorEp (Autoproduzione, 2007)
The Crown Jewels Ep (Neon Gold, 2009)
The American Jewels Ep (Chop Shop Records, 2010)
The Family Jewels (679, Atlantic, 2010)8
Electra Heart (679, Atlantic, 2012)6
FROOT (Atlantic, 2015)5,5
Love + Fear (Atlantic, 2019)6,5
Ancient Dream In A Modern Land (Atlantic, 2021)7
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Obsessions
(da "The Family Jewels, 2010))

Mowgli's Road
(da "The Family Jewels", 2010)

Hollywood
(da "The Family Jewels", 2010)

I Am Not A Robot
(da "The Family Jewels", 2010)

Shampain
(da "I Am Not A Robot", 2010)

Fear And Loathing
(da "Electra Heart", 2012)

Radioactive
(da "Electra Heart", 2012)

Starring Role (Acoustic)
(da "Electra Heart", 2012)

Primadonna
(da "Electra Heart", 2012)

Power And Control
(da "Electra Heart", 2012)

State Of Dreaming
(da "Electra Heart", 2012)

Lies
(da "Electra Heart", 2012)

Just Desserts (ft. Charli XCX)
(Singolo, 2013)

Electra Heart
(Singolo, 2013)

FROOT
(da "FROOT", 2015)

Happy (Acoustic)
(da "FROOT", 2015)

Immortal
(da "FROOT", 2015)
I Am A Ruin
(da "FROOT", 2015)

 

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