Anche se una forma fatta e finita verosimilmente non la assumeranno mai, la metamorfosi dei Thee Oh Sees che vi raccontiamo da qualche tempo a questa parte può in un certo senso dirsi compiuta. Registrato dall'ormai irrinunciabile Chris Woodhouse, che con i suoi contributi percussivi, chitarristici e all'organo funge di fatto da regista occulto e membro aggiunto del gruppo, il diciottesimo capitolo della loro avventura discografica, questo "A Weird Exits", è anche la prima raccolta di materiale inedito con la nuova sezione ritmica, già impiegata dal vivo negli ultimi diciotto mesi (la si può ascoltare nel primo vero live album della band, "Live In San Francisco", uscito a inizio estate), e composta dai due batteristi Ryan Moutinho e Dan Rincon, oltre al bassista dei Sic Alps Tim "Hecubus" Hellman.
La doppietta che apre i giochi si impone come discreto assalto frontale, con menzione speciale per la muraglia di granito di "Ticklish Warrior" che vede il capobanda sgolarsi prima di soccombere sotto il nerissimo marasma sonico della sua elettrica e le onde d'urto del doppio reattore ritmico. Da parte sua, l'opener ricorda piuttosto i calibri pesanti dell'emulazione segalliana del verbo Hawkwind, con un sound anche più muscolare di una media già ragguardevole e un refrain che sembra cannibalizzare il Lenny Kravitz degli anni d'oro. Fin qui non si registrano anomalie espressive degne di nota, ma la sorpresa, evidentemente, aspetta dietro l'angolo.
Come il titolo suggerisce, il varco della strumentale "Jammed Entrance" equivale all'ingresso in una diversa dimensione, che non è inappropriato definire una ricodifica prog-psych-rock delle spirali elettroniche e delle trame kraute della più recente fatica, a nome Damaged Bug, del frontman: un'odissea tascabile, serenamente allucinata, nei meandri bizzarri della mente dell'autore californiano, resa confortevole dai morbidi canaloni plasmati dal synth e accesa a intermittenza dalle sue tortuose vampe chitarristiche. Altro chiarissimo punto di contatto con "Cold Hot Plumbs" è rappresentato dall'artwork, a cura dal musicista e artista visuale Robert Beatty (già creatore di alcune copertine di Tame Impala, Neon Indian e Real Estate), che con le sue suggestioni seventies amplifica il potenziale mesmerico di un disco sorprendentemente fluido ed elegante, che sa di libera dissertazione revivalista - elefantiaca, come in diverse delle ultime produzioni del Nostro - ma oltremodo godibile.
In "Plastic Plant" questa estetica quasi motorik è spinta alle estreme conseguenze e i debiti nei confronti del kosmik-rock dei Can (di "Mother Sky", in particolare) si fanno pesantissimi, ancorché scoperti. Il Dwyer cantante, altrove assente per lunghi tratti, dà prova qui delle sue qualità con fare insinuante, placidamente maligno. E se "Unwrap The Fiend Pt. 2" è un altro brano non cantato e dall'andamento ritornante, solo con un groove più aggressivo e guizzante (in linea con un canone ormai consolidato), la rabbiosa centrifuga di "Gelatinous Cube" riporta piuttosto alla memoria l'incarnazione punk efferata dei Coachwhips, con certa visionaria retorica hard-rock in vece del sadismo rumorista dell'originale.
I due episodi più orientati alla psichedelia si ritagliano da soli l'ultimo quarto d'ora e rallentano vistosamente i giri, ospiti una rediviva Brigid Dawson e il violoncello degli amici The Mallard, Greer McGettrick. Lanciata verso la stratosfera space-rock per testimoniare in modo ipnotico la sublime alienazione di un autore che non sembra avere più molto da dimostrare, la navicella dei Thee Oh Sees orbita con perizia attorno al lato oscuro della luna ("The Axis") prima di incendiarsi e tornare a precipitare rovinosamente sulla Terra.
Cosa ne sarà del capitano John e del suo equipaggio è forse presto per dirlo, ma siamo pronti a scommettere che ne vedremo ancora delle belle.
28/08/2016