Foals

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I puledri del math-pop da classifica

Partendo dalle sorgenti del math-rock, la band di Oxford è riuscita a creare una formula indie-rock spigolosa ma irresistibile, capace di proiettare in classifica ritmiche intricate e strutture complesse. Una ricetta insieme cerebrale ed easy listening, che ha conquistato la generazione indie degli anni 10 del nuovo millennio

di Michele Corrado

Partendo dalla comune passione per il math-rock, i Foals da Oxford hanno ideato e realizzato una formula indie-rock spigolosa ma irresistibile, che avrebbe portato in classifica ritmiche intricate e strutture complesse. Una ricetta insieme cerebrale e easy listening che ha conquistato la generazione indie degli anni 10 del nuovo millennio.
Un’impresa sulla carta ardimentosa, che è stata possibile grazie alle doti tecniche sopra la media della band, al suo talento melodico cristallino, ma anche grazie a un momento storico propizio. Quando sul finire degli anni 00 i Foals muovevano i primi passi, il boom di band indie che aveva interessato il Regno Unito in quel decennio andava via via scemando, lasciando ai ragazzi di Oxford terreno propizio e poca concorrenza. Un vuoto pneumatico da colmare con le loro chitarre taglienti sparate a volumi difficili da trascurare.

Legatisi in quel fertile humus che ha dato vita a decine di band monumentali (Ride, Radiohead, per citarne un paio facili) che sono i campus delle università di Oxford, tutti i membri dei Foals avevano esperienze pregresse in band della scena locale. Il cantante e chitarrista Yannis Philippakis (originario di Karpathos nell’Egeo) e il batterista Jack Bevan avevano militato insieme in una formazione math-rock di culto, gli Edmund Fitzgerald, che avevano però sciolto perché stanchi dell’atmosfera troppo seriosa del progetto; mentre il bassista Walter Gervers e il tastierista Jimmy Smith, entrambi studenti della Abingdoon School (la stessa frequentata dai Radiohead), avevano suonato insieme nella band indie-rock Face Meets Grill.
Inizialmente faceva parte del gruppo, che aveva peraltro contribuito a fondare, anche il cantante dei Youthmovies Andrew Mears, che lo lasciò ancor prima degli Ep d'esordio. Fu proprio il precoce allontanamento di Mears a far sì che Philippakis diventasse il cantante principale della band. Non propriamente quel che si suole definire un vocalist dotato, con il suo tono di voce lievemente stridente, sempre teso quasi fino a spezzarsi, Yannis era però quello che mancava alla musica dei Foals per risultare inimitabile.

Proprio a causa del bisogno di svago di Yannis e Jack, esausti dall’esperienza con gli Edmund Fitzgerald, i presupposti alla base della musica dei Foals erano molto pochi. Lo stesso Philippakis in un’intervista definì le semplici regole che la band si era data in sala prove così: solo ritmi staccato (articolazione musicale in cui due o più note sono suonate separatamente, retaggio dell’estrazione math di Yannis e Jack) e chitarre molto, molto alte. Molto giocosa e semplice è anche l’origine del nome della band, che in italiano vuol dire puledri, nomignolo affibbiato a Yannis e soci da un amico comune che li definì “a bunch of foals, like stinky, smelly, and, you know...”.

Il materiale raccolto nei primi singoli ed Ep, in particolare “Hummer” del 2007 (brano contraddistinto da un micidiale mix di math-rock e dance-punk che infiamma un episodio dell’iconico serial “Skins”), fu sin da subito buono, quando non ottimo. Non tardò quindi ad arrivare l’interesse di una casa discografica medio-grande, la Transgressive, che li scritturò già nel 2007. Già quell’anno, la band cominciò a lavorare sul suo primo Lp sotto l’egida di Dave Sitek dei Tv On The Radio.
Da quel momento in poi la carriera dei Foals sarebbe stata fortunata e inarrestabile, tanto che il solo Jimmy Smith avrebbe trovato il tempo di terminare gli studi.

2008 – 2012: Antitodes e Total Live Forever

foals1_v1000Distribuito in Europa da Transgressive e negli Usa da Sub Pop, Antidotes del 2008 è stato registrato negli Stay Gold Studios di Brooklyn. Il produttore Dave Sitek lasciò che la band incidesse da sé tutto il materiale, per mettere le mani su questo soltanto a posteriori, in sede di mix. A sentire la formazione, non proprio contentissima dell’operato del blasonato producer e membro dei Tv On The Radio, il tocco di quest’ultimo è stato però piuttosto invadente. Il più duro verso il produttore fu proprio Yannis, che spazientito dichiarò alla stampa che Sitek aveva incasinato tutto in fatto di profondità dei suoni ed echi, facendo suonare il disco come provenisse dal Grand Canyon.
In realtà in molti episodi, in particolar modo quelli più dilatati (“Red Socks Pugie”, “Like Swimming”),  la tanto vituperata profondità sviluppata da Dave Sitek funziona molto bene, e mai inficia l’incisività ritmica del quartetto. L’episodio portò però i Foals a una maggior intransigenza e controllo sul proprio materiale, che dal disco successivo in poi avrebbero preteso con gran decisione.

L’energia che i Foals sin dai loro esordi sono capaci di sprigionare esplose in faccia agli ignari ascoltatori dell’epoca già nelle prime due tracce. In pratica, il tempo di mettere su il disco e schiacciare play. “The French Open” e “Cassius”, entrambe innescate da ritmi convulsi e squadrati, fondono a freddo le strutture matematiche dei Battles alla sfacciataggine dance-punk dei Rapture. Impossibile non ballarle, ma è una danza a scatti, guidata da chitarre adamantine e taglienti. Ha eguale potenza di fuoco “Electric Bloom”, che è però venata da reminiscenze post-punk e dall’impronta dei Bloc Party.
“Heavy Water” mette l’andamento frastagliato della ritmica e la precisione degli incastri dei musicisti al servizio di un’evoluzione quasi progressive. Sul finale arrivano anche azzeccatissime suggestioni ska dei fiati, che ritroviamo in tutti i brani più baldanzosi del lotto (“Balloons”, la stessa “The French Open”).
In episodi più fluidi e dilatati come “Big Big Love (Fig. 2)”, “Olympic Airwais” e la subacquea “Like Swimming” osserviamo emergere una propensione per atmosfere dilatate e fumose che in futuro avrebbe portato la band a lambire il post-rock.
Nonostante la vivacità ritmica e quell’euforia palpabile tipica delle band al loro debutto, Antidotes non sempre è cristallino e spensierato, esplora sovente anche sentimenti ambigui. Come in “Cassius”, che tra un ancheggiamento e un movimento di gamba ti costringe al ricordo di quel partner bifronte, che aveva due facce proprio come Cassius Clay.

Se Antidotes non è all’altezza dei due dischi che lo avrebbero seguito - senza alcun dubbio gli apici della carriera della band di Oxford - è solo per l’eccessiva ambizione della band, che, strabordante e irruenta com’era, non pensò di sfoltire una tracklist afflitta da qualche momento fotocopia di troppo. Incluse in diverse special edition tanto da venir considerate parte della scaletta ufficiale, “Brazil Is Here” e “Dearth” non aggiungono ad esempio nulla a quanto detto dai brani originalmente nella tracklist.
Al netto dei perdonabili difetti, Antidotes è un ascolto necessario e imprescindibile per comprendere le origini stilistiche della band, nonché per assaporare una ferocia e un’urgenza compositiva che sarebbero state presto (almeno in parte) sacrificate, per favorire maggior misura e organizzazione negli arrangiamenti e nel modo di incanalare un’emozionalità straripante.
Con un tonante terzo posto nella classifica vendite inglese e il talento che si ritrovavano, la strada per conquistare il pubblico e guidare una nuova generazione di band indie made in Uk era però già spianata. Insieme a band della stazza di These New Puritans, Klaxons, Late Of The Pier e Metronomy, i Foals avrebbero infatti costituito una scena indipendente di prima grandezza, di quelle che di questi tempi possiamo soltanto ricordare o sognare, della quale furono peraltro tra i rappresentanti più longevi e qualitativamente continui.

Registrato anch’esso fuori dai confini inglesi, questa volta a Gothenburg, Total Live Forever (2010) non sarebbe riuscito a consacrare i Foals commercialmente (avrebbe difatti peggiorato il risultato del disco precedente nella classifica inglese, fermandosi all’ottava posizione), ma avrebbe esteso la fama della band all’estero e avrebbe conquistato definitivamente la critica, che lo arriverà a promuoverlo a pieni voti quasi all’unanimità.
Sebbene la tecnica chitarristica messa in campo sia all’incirca la stessa utilizzata in Antidotes, è chiaro sin dall’opener “Blue Blood” quanto i due dischi differiscano. I ritmi sono squadrati proprio come nel primo disco, ma meno esagitati, mettono i loro angoli aguzzi al servizio di melodie più chiare e rilassate. Anche la voce di Yannis è meno affilata e scoordinata, graffia meno e nei ritornelli accarezza morbidezze fino a quel punto inusitate. Sono le avvisaglie di quanto sarebbe successo a partire da Holy Fire e soprattutto What Went Down, che proponendo brani chiaramente pop avrebbero consacrato definitivamente la band presso il pubblico medio-grande.
Infine, la tendenza di alcuni brani di Antidotes a lasciarsi andare a cavalcate ambient o post-rock prende in Total Life Forever il sopravvento in quasi ogni episodio.
Durante il consueto giro di interviste promozionali la band definì il tema del disco come “il sogno di un’aquila morente”. Espressionista e onirica, questa iperbole promozionale ben incornicia le sensazioni che l'album è in grado di evocare.
Le sue linee strumentali sono in grado di disegnare luoghi geografici che diventano luoghi dell’anima, come succede nella meravigliosa “Spanish Sahara”. Un posto dove per loro stessa ammissione nessuno dei Foals è mai stato, ma che significa ben altro che una coordinata geografica: un luogo dove “lavarsi lo sporco dalle mani e liberarsi dell’orrore”. Uno spazio metafisico simile a una grotta azzurra luccicante di cristalli e aure divine, verso il quale le chitarre aprono un portale a metà canzone. Uno dei landscape musicali più stupefacenti degli anni 10.
Meno abbagliante, anche “Black Gold” sul finire sfocia in quello che potremmo definire un fluido paesaggismo emozionale. Così come la mutante “After Glow”, che dopo un’apertura chiaramente post-rock spara sulle chitarre urlanti una mitragliata di ritmo che è math puro. Siamo davanti a una band al massimo delle sue potenzialità, espresse a questi livelli anche in “This Orient” altra chiara concessione al math-rock che scandisce il ritmo di un groviglio di filastrocche nonsense.
Il singolo “Miami” e la title track sono le canzoni più affini ai primi vagiti della carriera dei Foals. Il loro andamento da funk squadrato, però, piuttosto che farsi ballare in un club dove girano cocktail colorati e Mdma, è adatto a una passeggiata su una spiaggia in festa. Probabilmente, se fosse stato scelto anche “Total Life Forever” come singolo, il disco avrebbe macinato un altro paio di posizioni in classifica.
In “2 Trees” Yannis sfodera un inedito falsetto al velluto sulle chitarre, che sfrigolando in preda del tremolo si producono in un vibrante dreamgaze; mentre “Alabaster” sfrutta il passo marziale di un basso math-rock per condurci tra le imponenti rovine di una civiltà mesopotamica.

Prodotto da Luke Smith (Depeche Mode, Everything Everything), con l’intervento di Alan Moulder in sede di mix per la sola “Spanish Sahara”, Total Live Forever vede però i Foals accreditati come direttori artistici dell’intero progetto, dalla musica alla superba copertina subacquea curata da Tinhead. A questo aspetto i Foals avrebbero dedicato sempre grandissima attenzione, proponendo alcuni tra gli artwork più suggestivi e sofisticati degli ultimi dieci anni.

2013-2018: Holy Fire e What Went Down

foals_03Total Live Forever
divide però la palma di miglior disco dei Foals con Holy Fire del 2013. Un lavoro che porta avanti molti dei discorsi aperti dalla band con i due capitoli precedenti, stabilendo però l’enorme statura dei Foals anche come scrittori di canzoni pop, di quelle perfette per il pubblico indie quanto per un passaggio radiofonico battente. Per molti dei fan, nonché per parte della stampa specializzata, Total Live Forever è l’apice della produzione del gruppo di Oxford. Sicuramente si tratta del vertice del loro catalogo in quanto a paesaggi emozionali, quelli che in gergo chiamiamo soundscape. Un aspetto che farà spesso e volentieri ancora capolino tra le canzoni dei Foals, ma mai più a quei livelli.
Dopo un lungo e sontuoso preludio, intitolato per l’appunto “Prelude”, in cui la band scalda i motori di ogni strumento facendo brillare frammenti di riff e ritmiche che innerveranno l’album, è la volta di uno dei migliori brani dei Foals in assoluto, “Inhaler”. Chitarre toste e tese, cantato esasperato, scie cosmiche, un bridge che invece che al ritornello conduce a una tempesta di riff al granito sono gli ingredienti con i quali la band di Oxford costruisce una hit atipica, in cui nulla è dove ci si aspetterebbe, come la conclusione, in cui le chitarre tintinnano un funk placido, ma che funziona comunque come un orologio svizzero.
La segue un’altra bomba, questa volta da dancefloor. Una “My Number” destinata a rimanere il singolo più celebre dei Foals, che alleggerisce la carica dance punk dei pezzi più aguzzi di Antidotes per sfondare le classifiche. Yannis, che giusto un pezzo prima spargeva il suo grido ancestrale tra sciami di meteoriti, azzecca qui uno scanzonatissimo e appiccicoso ritornello (“You don't have my number/ We don't need each other now/ And we don't need the city/ The creed or the culture now”). Nel giro di queste due canzoni, la band dimostra come possa sia giocare secondo le regole che rimescolare le carte a proprio piacimento. Un risultato egregio è garantito in entrambi i casi.
Una ritmica squadrata e un sintetizzatore che gracchia frequenze basse accendono “Bad Habit”, una pop song eterea con chitarre shoegaze che ululano soavemente sullo sfondo; mentre “Everytime” sfoggia una ritmica a scatti e un’altra filastrocca appiccicosa.
Si arriva così, senza alcun cedimento, all’altro singolo “Late Night” e con esso al dark side dei Foals. È notte fonda, Ed Congreave sparge oscurità con le note rade delle sue tastiere, Yannis brancola smarrito per le strade buie, sussurra la sua solitudine, la fa esplodere in un grido. L’assolo di chitarra è qui una prova di dolore e leggerezza, che fa sanguinare la canzone prima che sfumi proprio come era iniziata.
La prima con fantasie ritmiche quasi carioca, la seconda con epica e chitarre emozionali: “Out Of The Woods” e “Milk & Black Spiders” riportano la luce fioca del dream-pop a rischiarare il disco prima dell’attacco frontale di “Providence”, un math-blues cibernetico virulento e strillato, ovviamente perfetto per i live.
I dieci minuti finali, divisi tra la filastrocca notturna di “Stepson” e l’atmosfera polverizzata di “Moon” sono invece un morbido allunaggio da cui farsi cullare con gli occhi socchiusi. È il ritorno dei Foals immaginifici di Total Live Forever, grandiosi anche alle prese con suite smaterializzate, nel caso di “Moon” totalmente prive di ritmo.

Racchiuso in una copertina ancora una volta superba, che ritrae un gruppo di cavalli e cavalieri sul bagnasciuga all’imbrunire, Holy Fire è un disco perfetto. Dove la precoce maturità raggiunta dal gruppo al secondo disco, combinata all’immediatezza del pop e dell’indie-rock da classifica, è esplosiva e permette la creazione di 11 canzoni che sono allo stesso tempo profonde, dettagliate e istantanee.

Non solo la nomination al Mercury Prize e il secondo posto nella classifica inglese registrato da Holy Fire: a fare dei Foals la band più chiacchierata del momento, provvedono anche dei live pazzeschi, durante i quali la band sprigiona un’energia irresistibile, con Yannis mattatore assoluto a saltare, dimenarsi e arrampicarsi sulle impalcature del palcoscenico. Con presupposti del genere è facile immaginare che nel 2015, perlomeno in patria, What Went Down fosse il disco alternative rock più atteso dell’anno. Il lavoro, l’ultimo con Gervers al basso, non bissò il successo di Holy Fire, fermandosi alla posizione numero 3. Fu comunque un gran successo commerciale.
I suoni più laccati, ottenuti sotto la supervisione del produttore James Ford (Arctic Monkeys, Last Shadow Puppets), consolidarono la fama dei Foals presso il pubblico generalista. Allo stesso tempo, iniziarono però a scontentare chi aveva seguito la band dalla prima ora.
Il fuoco del math-rock e del dance-punk, infatti, sono in What Went Down quasi completamente esauriti. La promessa di Yannis, che aveva annunciato il disco come il più rumoroso mai realizzato dalla band, viene mantenuta praticamente solo dalla title track e dalla muscolosa “Snake Oil”, mentre a prevalere sono brani lenti e dai ritornelli vellutati e ammiccanti (“Birch Tree”, “Give It All”, “London Thunder”).
“Night Swimmers” ricalca il canovaccio dei brani più arzilli e pop di Total Live Forever; mentre “A Knife In The Ocean” è il consueto lento conclusivo, sebbene sia più incalzante ed epica dell’accoppiata “Moon”-“Stepson”.
I brani migliori del lotto, che potremmo tranquillamente annoverare tra le vette della carriera dei Foals, sono dunque pochi e poco aggiungono a quanto già detto dalla band inglese fino a quel punto. Tra questi annoveriamo certamente “Mountain At My Gates”, accompagnata da un innovativo video esplorabile a 360 gradi, e la succitata “What Went Down”. Praticamente una “Inhaler” dopata, con le chitarre ancora più tirate e scattanti, efficacemente accompagnate dall’alta definizione del video che indugia sui muscoli di un pitbull in corsa.

2019–oggi: Everything Not Saved Will Be Lost Part 1 & 2

foalsreeperbahnfestivalabgesagtgettyimages1160363983992x560Delle minacciose, ma dannatamente trendy, palme dal folto fogliame rosa adombrano, quasi inghiottono un palazzone alto-borghese d’altri tempi. È lo scenario post-apocalittico scelto dai Foals per la copertina della prima parte di quello che sin dagli intenti è il loro lavoro più ambizioso. Un concept-album diviso in due parti sulle minacce cui la contemporaneità espone noi e il nostro pianeta, colmo di paure, sos e cantati febbrili.
Sonicamente, Everything Not Saved Will Be Lost (Part 1) si muove nel solco segnato dai due dischi precedenti. Lavori che, pur non rinunciando ai ritmi sincopati e agli stop and go chitarristici tipici del math-rock, avevano orientato queste caratteristiche alla forma-canzone e alle posizioni alte delle chart inglesi. Obiettivo raggiunto egregiamente con entrambi i dischi, ma che aveva registrato in What Went Down un calo della qualità rispetto al capolavoro del 2013.
Si parte con “Moonlight”, una breve e accorata invocazione, lamentata da Yannis con il capo ritorto verso la luna. È insieme all’ipnotica e sperimentale “Cafè D’Athens” - dove il cantato si trascina in una labirinto di percussioni scintillanti - uno dei rari momenti ritmicamente rilassati del lotto. Per il resto si tira il fiato molto di rado, che si tratti di indie-rock rutilanti come “Exits” e “White Onions”, così come del funky “In Degrees”, pezzo tutto da ballare che ricorda addirittura i !!!.
Sia in quest’ultima che nell’ammaliante “Syrups”, dove piazza un giro ipnotico e originale, il cantante di origini greche non fa rimpiangere l’allontanamento del bassista Walter Gervers (dal vivo viene sostituito invece da un altro funambolo delle quattro corde, Jeremy Pritchard degli Everything Everything).
“Sunday” è due canzoni in una, prima ballad trascinata, scritta appositamente per spaccare il cuore delle fan, poi d’improvviso mina electro. Un brano ibrido che ricorda le mutazioni dance in corso d’opera sperimentate dagli Stone Roses in “I Am The Resurrection” e poi dai Franz Ferdinand in “Lucid Dreams”. Senza però perdere un briciolo in termini di personalità e riconoscibilità, grazie al tradermark del canto sguaiato di Philippakis. Chiusura tra la polvere di stelle con una mesta ballad pianistica intitolata “I’m Done With The World (& It’s Done With Me)” dal retrogusto un po’ Coldplay.
Non siamo all’altezza di Holy Fire, ma un passo in avanti rispetto alla scrittura un po’ appesantita di What Went Down è stato certamente registrato.

Una copertina meno sgargiante di quella di Part 1, ma più romantica e decadente, con i fiori che si attorcigliano con dolcezza alle croci di un cimitero, al crepuscolo (coordinata temporale da sempre cara alla band), ha il compito di contenere l'energia promessa dai Foals sin dalla release del capitolo precedente – invero più morigerato in termini di riff e volumi di Part 2.
Che la promessa fosse stata mantenuta era chiaro già dai singoli: "The Runner", solito tiro foalsiano con in più un basso pompato e il pianoforte a fare da rinforzo alle chitarre, ma soprattutto "Black Bull", tesissima che quasi si strappa, adrenalinica e urlata. Ne sottolinea la potenza anche il video, che, così come quello di "What Went Down" intrappolava la corsa di un molossoide esaltandone con l'alta definizione la tensione di ogni muscolo, immortala un toro imbizzarrito che sfonda un muro di fiori.
"Wash Off" cerca invece di essere la "My Numbers" di questo disco, con il suo math-funk squadrato ma dannatamente fluido, in quella maniera che riesce naturale solo alla premiata ditta Smith (chitarra), Philippakis (basso) & Bevan (batteria). Non siamo ai livelli del singolo del capolavoro "Holy Fire", ma è comunque un gran sentire, e di conseguenza ancheggiare. "Like Lightning" importa il calore di un riff alternative blues nel sound cerebrale della band, tanto da ricordare per un istante i Black Keys; una scelta coraggiosa, ma tra le meno riuscite della scaletta.
A "10.000 Feet" il compito di aprire il tris finale, con una ritmica slabbrata e una melodia ascendente un po' scontrosa. Nonostante sia il brano più delicato della partita, "Into The Surf" è probabilmente anche il più ammaliante: atmosfera da mondo sommerso, un arpeggio di tastiere che sembra propagarsi direttamente dalla barriera corallina e il cantato di Yannis avvolgente come un abbraccio.
Chiudono i dieci minuti di "Neptune". Siamo ancora ad Atlantide, o forse nell'iperspazio (che differenza fa), per una lunga cavalcata elettrica che esplode al centro invece che sul finale, allungandosi altrimenti in attriti chitarristici e sbuffi elettronici prima della catarsi del ritornello caldo e conciliante.
Part 2 non brilla in ogni sua sezione, come accadeva a Part 1, ma conferma il grande stato di forma di Yannis e soci, che, riposte le velleità mainstream di What Went Down, si confermano grandi facendo quello che riesce loro meglio. Vale a dire un indie-rock matematico e potente, nervoso, talvolta irto, ma ormai così familiare, che si riconosce al primo accordo.

Nel 2020 è tempo di resoconti per i Foals, band non certo nuova a collaborazioni con la scena elettronica. Nel corso degli anni il quartetto ha spesso invitato dj e producer di fama mondiale con lo scopo di rimaneggiare il proprio materiale per creare versioni più adatte ai club. Dopo il doppio discontinuo Everything Not Saved Will Be Lost (la nostra sulla parte 1 e sulla parte 2) arriva una retrospettiva con tutti i remix più significativi della loro carriera, riuniti nei tre volumi di Collected Reworks, dei quali al momento è stato diffuso il primo.
Il nome più altisonante qui compreso è senza dubbio quello degli Hot Chip, non a caso posizionati a inizio tracklist, anche se la loro versione di “My Number” non si colloca fra i momenti più entusiasmanti della compilation, risultando a conti fatti meno ballabile dello spigoloso ma irresistibile ritmo math-funk dei Foals. L’apoteosi si raggiunge semmai con il remix inedito di “Into The Surf”, immerso da Hot Since 82 in atmosfere da disco anni 80, con tanto di sax e superbi bass drop, oppure con la deep house applicata da Solomun a “Late Night” (oltre 55 milioni di visualizzazioni su YouTube), che cambia veste sonora ma conserva l’atmosfera livida e notturna del brano originale, e quella ancor più balearica di “Olympic Airways”, opera di Ewan Pearson.
Il remix più ardito è senza dubbio quello di “Spanish Sahara” (con ben tre remix il brano più presente della collezione) ad opera di John Dahlbäck, che trasforma un brano spirituale in una piece dance al limite del coatto, sfruttando i vocals originali di Yannis per innescare pathos da europop dei primissimi 00. Può piacere o no, ma è tra le operazioni più interessanti in scaletta.
Molto bene anche “The Runner” manipolata al ritmo di una cassa dritta e rinforzata con synth dopati e coretti femminili da RÜFÜS DU SOL.


Dopo un doppio disco a puntate che ostentava ambizioni e complessità sin dal suo titolo e dal suo concept (“Everything Not Saved Will Be Lost”), è stato chiaro sin dalla pubblicazione dei primi singoli che “Life Is Yours” sarebbe stato tutt’altra cosa: un Lp dalla vocazione estivale, tutto energie positive e chorus sbarazzini. I Foals non sono nuovi a brani smaccatamente pop, nel quale il loro taglio math-funk viene impegnato nella creazione di ammiccanti groove da ballare (basti pensare alla sempiterna “MY Numbers”), ma questo loro settimo lavoro in studio rappresenta la prima volta in cui questo genere di brani costituisce la maggioranza della scaletta. Data anche la sua data di uscita, viene facile infatti vederlo come una specie di disco dell’estate.
Posti tutti in apertura del disco, i quattro singoli che hanno anticipato l’uscita della nuova fatica della band di Oxford comunicano tutti grande positività e un senso di riconquista del proprio destino (la title track), ora mediante spigoli tutti da ancheggiare e un cantato euforico al confine col rap (“Wake Me Up”), ora schitarrate limpide e vivaci (“2 A.M.”) e infine un andazzo disco-funk in scia di Chic e Daft Punk.
Guidato da un basso schioccante e baldanzoso, l’intermezzo “(Summer Sky)” conduce ad una seconda metà di disco dove però non tutto gira come la band avrebbe voluto, specie quando le varie “Flutter” e “The Sound” addolciscono un po’ troppo il tiro facendo smarrire un po’ la sua puntuta identità. Per una “Under The Radar” invece spiccatamente Foals ma invero poco ispirata, troviamo però una “Looking High” nella cui tensione verso un orizzonte accecante è delizioso smarrire lo sguardo.
Si chiude tra i ritmi balearici, le chitarre pizzicate con gran verve e gli irresistibili cori sbiaditi dal sole di una “Wild Green” che si potrebbe considerare a tutti gli effetti la summa dell’operazione.
Certamente non privo di pecche, ma perfetto per la bella stagione e pregno di potenziali mine live, “Life Is Yours” conferma la duttilità della band di Yannis Philippakis e mette da parte non soltanto i cattivi auspici del capitolo discografico che lo ha preceduto, ma anche tutte le tendenze del rock indipendente britannico contemporaneo. Forti di una carriera lunga ormai oltre tre lustri, i Foals dimostrano così gran voglia di divertirsi e trasformarsi e non lasciano indizi per un futuro che potrebbe assumere davvero ogni forma.



Contributi di Claudio Lancia ("Collected Reworks Vol. 1")

Foals

Discografia

Antidotes (Transgressive, 2008)

Total Live Forever (Transgressive, 2010)

Holy Fire (Warner Bros, 2013)

What Went Down(Transgressive, 2015)

Everything Not Saved Will Be Lost Part 1 (Warner Bros, 2019)

Everything Not Saved Will Be Lost Part 2 (Warner Bros, 2019)

Collected Reworks Vol.1 (Warner Bros, 2020)
Life Is Yours (Warner Bros, Ada, 2022)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Red Socks Pugie
(da Antidotes, 2008)

Spanish Sahara
(da Total Life Forever, 2010) 

Inhaler
(da Holy Fire, 2013)

What Went Down
(da What Went Down, 2015)

 

Sunday
(da Everything Not Saved Will Be Lost Part 1, 2019) 

 

Black Bull
(da Everything Not Saved Will Be Lost, 2019)

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