Anaïs Mitchell

Anaïs Mitchell

Tra l'Ade e la luce

Ripercorriamo l'affascinante viaggio in musica di Anaïs Mitchell, rivelatasi come uno dei volti più spigliati e peculiari della canzone d'autore americana dell'ultimo decennio. Dai timidi esordi voce e chitarra, all'ideazione della magistrale folk-opera “Hadestown”, finendo con l'esplorare il canone anglosassone, una carriera sempre al di là di tendenze e aspettative, a cavallo tra delicato intimismo e fervore politico

di Vassilios Karagiannis e Stefano Ferreri

Non dev'essere facile portare un cognome del genere per un musicista. A maggior ragione se sei donna, cantautrice, impugni una chitarra e hai un'età che verosimilmente potrebbe corrispondere a quella di una figlia di una ben più blasonata omonima, che ha riscritto le coordinate del cantautorato, non soltanto al femminile. Forse sarà merito proprio di quest'omonimia, di questa bizzarra stranezza del destino, ma parte di quello spirito ardente che animò la divina Joni decenni addietro deve essersi riversata in Anaïs Mitchell, rivelatasi nell'ultimo decennio tra le voci più avvincenti e appassionate della canzone statunitense. Sono infatti quella stessa avida curiosità, quella voglia di mettersi costantemente in discussione, di misurarsi con la tradizione (e non soltanto) aggiustandola alla propria grande sensibilità, a rappresentare la vera forza di entrambe. Una forza che dai timidi esordi in punta di chitarra ha via via consentito alla bionda autrice statunitense di viaggiare nello spazio e nel tempo, tra le taverne di New Orleans negli anni Sessanta e il Midwest più profondo, tra i boschi incantati della Gran Bretagna e perché no, anche dentro se stessa, coniugando introspezione e sguardo “popolare” in un affresco che ha contribuito a ridare lustro, tra i tanti che ci hanno provato, al significato primigenio di “folk”. Ma procediamo per ordine.

Stornelli acustici per la caduta di Roma

In fondo, la passione per l'arte alla cantautrice dev'essere stata inculcata, come nel più idilliaco dei quadretti familiari, sin da bambina. Nata e cresciuta in quel del Vermont, che non brilla di certo per fama o coolness tra le cinquanta stelle della bandiera statunitense (e che forse ha avuto il suo massimo momento di gloria grazie ai jam-rockers Phish), figlia di un professore universitario nonché romanziere, ci piace credere che sia stato proprio il suo contributo a far muovere i primi passi all'allora infante nelle stanze dorate della letteratura e del genio umano, spalancandole la strada a universi sconosciuti.
D'altronde, il nome che porta, omaggio alla scrittrice franco-americana Anaïs Nin, vale ben più di qualche sfuggente supposizione, sembra anzi quasi predestinarla al suo futuro. Futuro che, tra la fattoria di famiglia e i frequenti viaggi in giro per il mondo (che la portano anche dalla parti del Medio Oriente e dell'America Latina) comincia a materializzarsi, ad assumere una forma concreta verso la fine dello scorso secolo, quando una diciassettenne Anaïs, con la chitarra in mano, comincia a scrivere i suoi primi pezzi. Occorrerà aspettare ancora qualche anno, prima che quei piccoli, intimi monologhi ricevano una meritata registrazione, la testimonianza “imperitura” del proprio passaggio da questo pianeta. Non si sa quanto di quei cimenti privati si sia riversato poi nella stesura del disco, fatto sta che The Song They Sang When Rome Fell, uscito nel 2002, ben riflette la dimensione domestica in cui le canzoni sono state concepite.

anais_iRegistrato in una sola giornata, scritto nella sua interezza e autoprodotto dalla Mitchell, The Song They Sang When Rome Fell mostra un'autrice per quanto acerba, dotata comunque di un buon fiuto melodico e di una scrittura irriverente, istintiva, affidata più alla sensibilità dell'artista che a un reale piano compositivo. E' infatti il forte taglio narrativo, l'impronta da moderna cantastorie, quanto insuffla, ispira la scrittura delle canzoni, le quali, più che guardare alla crescente riscoperta della tradizione appalachiana (si era ancora ben lontani dal boom indie-folk che soltanto qualche anno dopo sarebbe stato di dominio pubblico), sembrano voler fornire un ideale congiungimento con l'epopea alt-rock di fine Millennio, un collegamento con le “eroine” del cantautorato anni 90, delle quali vengono preservati gli umori piuttosto che la veste sonora.
Pezzi quali “Parking Lot Nudie Bar” o “Make It Up” avrebbero avuto giusto bisogno di un'iniezione di elettricità nemmeno troppo marcata per poter ambire a essere tra i pezzi più dolci del repertorio di una Juliana Hatfield o di una Liz Phair. Analogamente, il chitarrismo d'impronta della Mitchell, volto più a commentare con poche pennellate di suono che ad ambire a ruolo di primattore, funge da mero supporto rispetto a una voce guizzante e capricciosa, tra il bambino e l'adulto, affascinante nel fraseggio quanto ancora leggermente indisciplinata nelle interpretazioni (giusto la sottigliezza espressiva della breve “Orleana” lancia segnali della Anaïs che verrà), che si prende tutto lo spazio a disposizione per raccontare le proprie storie.
Ben poche sono le concessioni ad una dimensione propriamente folk, ma alla resa dei conti appaiono come i momenti più convenzionali del lotto, nonostante tutte le buone intenzioni (“Work Makes Free”, la title track).
Un po' per la natura irrisolta del disco, un po' per le insicurezze di un'artista ancora non totalmente conscia della sue capacità, The Song They Sang When Rome Fell è insomma una raccolta di brani che tradisce, nonostante una buona ricerca sulla scrittura, una notevole inesperienza, l'impaccio e la tensione del “principiante” alla prima prova importante della propria carriera. Un peccato tutto sommato veniale, ad ogni modo, per un cammino che a partire da questo lavoro sarà tutto in ascesa.

I could tell you stories like government tells lies...

anais_iiNonostante l'immaturità della penna, un'espressività ancora allo stato embrionale, tutta da esplorare, gli attestati di stima per la Mitchell non tardano a bussare alla porta, a richiamare l'attenzione su un talento emergente dell'Americana. La partecipazione ai primi festival a tema e i riconoscimenti che ne conseguono (tra cui va segnalata la vittoria al Kerrville Folk Festival, importante kermesse texana dedita alla scoperta e al lancio di nuovi folksinger) costruiscono attorno al suo nome un piccolo seguito, un circuito che spianerà la strada per il primo contratto discografico propriamente detto. Una firma che arriverà grazie all'interessamento della Waterbug di Andrew Calhoun, per la quale uscirà il secondo album della Nostra, libera finalmente di sbocciare.
Hymns For The Exiled, uscito nel settembre del 2004, certifica infatti l'evidente stato di crescita dell'autrice, sempre propensa a una dimensione artistica intima, per voce e chitarra (e poco più), ma con una confidenza totalmente diversa, un approccio più smaliziato e al contempo più severo nei confronti del proprio songwriting. Il retaggio delle icone alternative Nineties s'affievolisce (sparisce molta della carica “rock”, latente o meno che fosse), le dinamiche diventano decisamente più ordinate, ma soprattutto, l'impronta folk si fa davvero preponderante, una strada da seguire piuttosto che un espediente a cui ricorrere di tanto in tanto.
La scelta ripaga pienamente, per quanto alla fine fosse l'unica percorribile, resisi conto dei presupposti tematici del disco: “Gli inni per gli esiliati”, come titolo recita, sono infatti canzoni pienamente popolari non soltanto nella scrittura e nelle scelte musicali, ma anche nella concezione, nel profilo lirico, che comincia a risentire in maniera decisiva dell'influsso delle visioni politiche di Anaïs, decisamente critiche nei confronti dell'operato bushiano. Il picking di chitarra, ondivago e austero, tratteggia così con la forza quasi esclusiva delle sue progressioni canzoni che, oltre a una tangibile urgenza espressiva, sfoderano una maggiore elaborazione, in qualsiasi senso si voglia intendere il termine. E nonostante la penna, senz'altro più affilata, stenti ancora spesso a lasciare davvero il segno, la ricchezza dei messaggi da essa convogliati supera l'ostacolo senza troppi patemi, portando all'ideazione di un ciclo di brani in cui la Mitchell guadagna realmente il proprio spazio.
Storie di quotidiano disagio e dolore, di perdite incolmabili (la piccola perla “Orion”, commosso tributo a un amico musicista scomparso), di scelte politiche disgraziate e di memorie di una vita intera (l'istantanea d'infanzia “Two Kids”, lontana da stucchevolezze assortite grazie al sottile dramma che incurva la voce dell'autrice)  infiammano melodie a cui non serve poi molto altro (giusto qualche svolazzo di archi in “Quebreek Flood”, una spruzzata di basso sotto la mesta malinconia di “A Hymn For The Exiled”) per arrivare dritte al punto, e guardare con occhiate ardenti e appassionate il mondo intero, pur dalle piccole ante della finestra di casa. La ricerca dello stile perduto va piano piano completandosi.

Bagliori di lucentezza

anais_iiiI primi lavori e il successo tra gli emergenti al Kerrville Folk Festival del 2003 sono valsi alla Mitchell una certa considerazione nel circuito delle giovani cantautrici alternative e, cosa ancor più significativa, la fiducia di una Ani DiFranco sempre a caccia di talenti puri da assicurare alla sua vivacissima Righteous Babe.
Il primo frutto di questo nuovo e più intenso segmento di carriera sarebbe stato The Brightness, scritto in concomitanza con la prima stesura della folk opera “Hadestown” e pubblicato per l’etichetta di Buffalo nel 2007. Per il ruolo di svolta giocato e per la sua pregevole fattura, The Brightness merita di essere annoverato tra i dischi importanti di Anaïs. E’ il ritratto di un’artista genuina, appassionata e contagiosa, capace di illuminare trame folk votate alla sobrietà grazie alla limpidezza della sua particolare, freschissima, voce da bimba.
Come suggerito dai primi emblematici episodi, “Your Fonder Heart” e “Of A Friday Night”, la cantante americana vi appare straordinariamente comunicativa, diretta e alquanto convincente nel tenere a freno gli eccessi del proprio temperamento o le ingenuità dei suoi venticinque anni.
A lasciare ammirati è in prima battuta il riuscito mix di confidenza ed equilibrio che nelle precedenti uscite non era andato al di là delle pur lodevoli intenzioni. Qui Anaïs dimostra invece di essersi scrollata di dosso ogni timidezza e di voler lasciare affiorare senza remore scorci sempre più ampi della propria personalità, pur continuando a prediligere registri dalla marcata impronta introspettiva.
A destare comunque le migliori impressioni è ancora una volta la sua interpretazione calda ed entusiastica, davvero preziosa nel preservare quel canto traboccante meraviglia dai rischi della maniera, dalle pose affettate e dalla stucchevolezza di cliché tanto abusati quanto logori. Lo schema resta orientato sulla formula del voce e chitarra predisposta al meglio (come in Hymns for the Exiled) dalla mano fidata dell’arrangiatore e produttore Michael Chorney, essenziale dietro la console come nei parsimoniosi interventi strumentali qua e là disseminati con ponderato intento decorativo: oltre al pianoforte suonato con oculatezza dalla stessa Mitchell, entrano in scena come ospiti occasionali anche un sax baritono, che smussa le asperità e conferisce ulteriore colore, un hammond, una lap steel e il banjo di Ben Campbell, responsabile del pronunciato aroma traditional di “Shenandoah” ma anche del vivacissimo duetto con la sei corde che in “Hobo’s Lullaby” è tutto giocato su toni di radicale nudità (in odore di Naturalismo, complice una viola assai vibrante) e dedicato all’immaginario dei vagabondi e all’omonimo brano di Woody Guthrie. Episodi come questi conservano il fascino semplice degli acquerelli, delicatissimi ma rinfrancanti, a riprova che alla sorridente fanciulla del Vermont non occorrono grandi mezzi per incantare davvero e una dimensione raccolta, quasi domestica come quella appena descritta, le è anzi particolarmente congeniale.
Muovendosi con grazia sorprendente, danzando appena sul nylon delle corde, Anaïs definisce le condizioni ideali per arrivare al cuore di chi l’ascolta con le sole suggestioni della sua voce candida, adamantina, aliena alle maschere. Talvolta si mostra discreta, trattenuta sin quasi ai sussurri, ma sempre deliziosamente amichevole e confidenziale. E’ il caso di “Old-Fashioned Hat”, gioiellino prodigioso e teatro d’azione della Mitchell miniaturista, abilissima nella cura del dettaglio, della sfumatura minima, senza perdere un solo grammo della sua incredibile visceralità o di quelle sue fragranze così peculiari. Nondimeno la Nostra conferma un’eccellente giustezza nel alternare momenti più impressivi a pause e silenzi dall’innegabile carica emotiva (“Changer” è esemplare), dote evidentemente rubata alla sua mentore e mecenate Ani.

Le canzoni di The Brightness risplendono come frammenti di un impetuoso stream of consciousness, disciplinato in forma di schietta poesia a metà strada tra il diario e la pagina di giornalismo di strada, grandi passioni giovanili della Mitchell: piccoli quadretti, storie d’amore e vita che raccontano di meraviglie sospese, solitudini, poeti scomparsi, stanze e finestre spalancate per accogliere la luce della luna e, assieme ad essa, l’inarrivabile magnetismo di un’ispirazione notturna. L’album assume così i contorni della raccolta di istantanee scattate non con una macchina fotografica ma con la penna e l’inchiostro, lasciando il giusto respiro ad uno storytelling sapido come pochi, che omaggia implicitamente il già citato Guthrie, la più celebre delle scrittrici omonime (ovviamente Anaïs Nin, presenza fantasma in “Namesake”) e la New Orleans post-Katrina (“Out of Pawn”). La palma per il testo migliore se l’aggiudica però “Song of the Magi”, dove il risaputo scenario da presepe della nascita del Cristo perde ogni alone oleografico per via dell’amarissimo ribaltamento nell’attualità brutale dei nostri giorni:

Welcome home, my child
Your home is a checkpoint now
Your home is a border town
Welcome to the brawl
Life ain’t fair, my child/
Put your hands in the air, my child
Slowly now, single file, now
up against the wall


Le sue doti di affabulatrice, già apprezzabili, guadagnano allora ulteriori punti. Non manca un significativo estratto da quella “Hadestown” che nel corso del 2007 sarebbe stata più volte riscritta e portata in scena. E’ il dialogo imbevuto di eros e thanatos intitolato “Hades & Persephone”, interessante per la franchezza da brutta (neanche un po’) copia e già forte di quella stessa esuberanza espressiva, qui abbozzata con buona personalità dall’autrice e unica interprete, che sarebbe tornata in una nuova veste con il titolo “How Long?” nel disco successivo. Una promessa insomma, ancora con l’indeterminatezza fascinosa della pura ipotesi, destinata a concretizzarsi nel vero e proprio capolavoro di Anaïs solo tre anni dopo con un più adeguato dispiego di risorse e interpreti (nella nuova versione sarebbero stati – nello specifico di questo brano – Ani DiFranco e Greg Brown).
Nel presente di The Brightness mancava il colpo di genio sensazionale ma non la serenità di un’artista finalmente consapevole del proprio estro luminoso. Un passaggio “di formazione” quindi, senz’altro interlocutorio ma comunque prezioso nel registrare spunti già molto importanti. L’opera di una cantautrice giunta agli ultimi passi nella personale ricerca di uno stile, assai meno fragile che in passato e ammirevole nel non voler bruciare le tappe, per dare concretezza alla propria sensibilità artistica in un lavoro gentilmente intimista, proprio come lei.

Nostra Signora dell'Ade

anais_vGiunti a destinazione, sfatte le valigie, quello che resta da fare è rendere più accogliente l'ambiente circostante, a misura della propria sensibilità e del proprio essere, gli spazi adiacenti la più fedele mimica del suo abitatore. E se ciò comporta perdersi per strada, rinchiudersi un momento nel proprio io e l'altro aprirsi con avidità al mondo, ben venga: la soddisfazione di essere riusciti alla fine a conquistare il proprio spazio naturale sarà decuplicata, a maggior ragione quando le tappe del viaggio si sono rivelate così stimolanti e proficue. Prima dell'avvenuto insediamento, occorre però fare un passo indietro, due annetti prima che la cittadella infernale prendesse forma nei teatri attualizzando il mito orfico ai tempi dell'uragano Katrina.
La Anaïs Mitchell del 2008 è infatti una cantautrice ormai pienamente affermata nel settore, riviste e webzine anche non specializzate hanno cominciato a notarla e ad annoverarla tra i volti al femminile da seguire, accanto a una Marissa Nadler e una Joanna Newsom. La ristampa di Hymns For The Exiled e la pubblicazione del breve Country Ep arrivano quindi a cementificare l'ascesa agli onori di cronaca della musicista, a chiudere una stagione feconda e piena di successi per l'autrice del Vermont.
In combutta con Rachel Ries, figura schiva e defilata del folk a stelle e strisce, le cinque canzoni di Country Ep, come da titolo, si muovono con grande conoscenza e tatto all'interno dell'universo country, mai realmente avvicinato dalla Mitchell fino a quel momento. In effetti, una certa scolasticità di fondo permea tutte le canzoni del disco (in particolare “Come September” e il suo risaputo giro armonico), eppure quanto si evidenzia è ancora una volta una scrittura che centra il bersaglio, incisiva anche in questi intimi passi a due (col cantato più corposo della Ries a prendersi gran parte della torta, lasciando Anaïs ad occuparsi piuttosto dei backing vocals), che tinteggiano di coloriture romantiche l'Americana di “O My Star”, cedono inermi alla tradizione in “Grace The Fall”, parlano dal profondo del cuore in “When You Fall”.
Al di là della grande (forse eccessiva) riconoscibilità degli elementi che compongono il disco, la collaborazione estemporanea tra le due musiciste mette in risalto tutta la loro duttilità d'approccio, una dote che soprattutto lancia segnali su quanto la Mitchell tiene in serbo per il suo pubblico.

anais_ivTutto infatti è pronto per il lancio della sua fatica più ambiziosa, di un lavoro capace di coniugare musica, letteratura e teatro risaltando per la sua incredibile fruibilità e per una totale assenza di pesantezza, che lo rende sorprendente popolare nel senso più nobile del termine. Dramma e passione, lirica e cori greci, New Orleans e la crisi Americana, questo e tanto altro anima Hadestown, la cosiddetta “folk-opera” che catapulta definitivamente la sua firmataria nell'empireo dei cantautori folk più importanti del decennio. Il lavoro nasce infatti come un musical teatrale interpretato da attori del Vermont (il direttore Ben Matchstick, l'arrangiatore Michael Chorney e il produttore Todd Sickafoose), per cui la Mitchell scrive tutte le canzoni e i testi dando vita a un corposo lavoro drammatico e corale che ambienta il mito di Orfeo ed Euridice in una città occidentale moderna.
Nella nostra visione, l'Ade è però il Paese dei Balocchi nel quale siamo convinti di vivere, dove fame e povertà vengono respinte via grazie a un muro di separazione. L'Ade è il mondo dei morti che vive mangiando e ignorando l'al di là del muro, il mondo dei vivi, dove, per paradosso, si muore di fame e di virtù (la musica di Orfeo). C'è la crisi economica, c'è Obama, ci sono le guerre per le materie prime, ci sono le difficoltà degli artisti, ma niente di tutto questo viene mai citato esplicitamente. La giovane cantautrice del Vermont offre un quadro contemporaneo che se fosse stato visto nell'Ottocento sarebbe stato commentato con un "che futuro apocalittico ci aspetta". Già: Anaïs interpreta la crisi culturale/morale che stiamo vivendo attraverso le caselle narrative di un mito greco e le riempie di elementi negativi che ruotano attorno a idee di base, l'amore/l'odio, la fame/l'abbondanza, l'inclusione/la separazione. Il finale è noto, scordiamoci il lieto fine.
Ciononostante, la durezza dei temi si scioglie fin dal primo ascolto lungo il percorso dell'album, perché le canzoni sono di bella fattura pop, i suoni e gli arrangiamenti per molti strumenti danno varietà all'ascolto, e le diverse voci coinvolte scandiscono la storia. C'è l'Ade interpretato da Greg Brown (voce cavernosa ma quasi paterna "Hey Little Songbird"), Euridice è Anaïs (commuovente in "Flowers"), Orfeo è Justin Vernon o Bon Iver (vedi la dolcezza di "Epic 1 e 2"), l'amico Ermes (interpretato da Ben Knox Miller dei The Low Anthem) li accompagna in alcuni episodi (il migliore: il vaudeville "Way Down Hadestown") e lo stesso fa Ani DiFranco con Persefone (meravigliosa in "Our Lady From The Underground"). Ci sono poi le tre gemelle dell'Ade che rappresentano la voce del popolo ricalcando lo stile leggero swing e sbarazzino delle Andrews Sisters o delle più moderne Puppini Sisters (la nostra favorita "When The Chips Are Down").
Ottoni, pianoforte, ragtime, chitarra acustica, banjo, archi, campioni di rumori cittadini, tradizione americana, country, jazz, gospel, musical. Anaïs riesce a creare un'opera folk-pop-da camera puntuale, creativa, convincente, pur nelle immediate referenze di genere e nell'abbondanza di materiale (lungo le 20 tracce dell'album, almeno una decina sono bellissime canzoni, altre sono "riempitivi" di scena). Il disco costringe insomma a mettere in pausa la corsa quotidiana e a riservare quasi un'ora di tempo all'ascolto da cima a fondo, per poi chiedersi qual è il famoso traguardo della corsa se non nella città dell'Ade.

Con l'appoggio di una critica raramente di questi tempi così unanime nel decretare la validità di un lavoro, seppur ben distante dai favori commerciali di altri artisti indipendenti quali la Newsom, Fleet Foxes o i Decemberists, Hadestown affronta con un coraggio raro e una resa straordinaria secoli di eredità culturale americana, trasfigurata attraverso il ricorso di una cornice letteraria che ne nobilita ulteriormente i caratteri. Ben pochi si erano spinti a tanto, ancora meno avevano riportato una vittoria così schiacciante.

Dalla parte del popolo

anais_viPassano così altri due anni, prima che la songstress torni a dare sfoggio della sua arte, a ricalacare le scene forte del supporto di una critica ormai letteralmente ai suoi piedi, e di un pubblico notevolmente accresciuto. Il rischio di strafare a causa di questa straordinaria contigenza di favori era forte, ma l'ambiziosa Anaïs, a scapito di attese e aspettative, spiazza un'altra volta. Decisa a mettersi in proprio, privandosi così del sostegno della Righteous Babe e di una Ani DiFranco che l'ha letteralmente proiettata nell'empireo cantautorale contemporaneo, la Nostra fonda la sua label personale Wilderland e grazie ad essa dà alle stampe il suo quinto album, in cui la spinta politica diventa ancora più marcata e irrinunciabile.
Se la splendida folk-opera Hadestown era riuscita, nella sua complicata fisionomia, a trasfigurare il mito orfico e a trasportarlo tra le bettole di New Orleans e i monti della sua terra natale, in un senso di apocalisse incombente che alludeva all'attuale, sventurato, tracollo delle certezze della civiltà occidentale, adesso, nell'anno della fine del mondo, esce Young Man In America, album che presenta una Mitchell sorprendentemente dimessa rispetto al recente passato, ma non per questo meno ambiziosa sotto il profilo narrativo. Il musical è finito, gli orchestranti hanno riposto gli strumenti nelle loro custodie, e la cittadella infernale è sprofondata di nuovo negli abissi della Terra. Di questa grandiosa rappresentazione rimane vividissimo però il ricordo, una traccia soffocata, ma indelebile, che ha finito per ripercuotersi inevitabilmente nella realizzazione dell'ultimo lavoro. Senza poderose allegorie a trasporre il contenuto tematico delle canzoni in una dimensione di aulico (quanto intenso) distacco, la quinta fatica della Nostra racconta delle difficoltà di un giovane ragazzo statunitense a trovare la sua strada nell'America durante l'epoca della crisi, di una vita fatta di miseria, stenti e inesorabile sconforto.
Un paese alla deriva, che ha smarrito la strada maestra da tempo immemore, e non sembra nemmeno desiderare ritrovarla: il protagonista di questa narrazione in undici atti non esita a scagliare pesanti accuse all'indirizzo della sua madrepatria ("Wandrin' in the wilderland, look upon your children, wandrin' in the woods", canta nel brano d'esordio), che continua, indefessa, a rimanere indifferente ai lamenti della sua prole.
anais_viiOberato dal peso della sua difficile condizione, il nostro eroe sogna di una nazione più genuina, umana: in un certo senso, attraverso le sue parole, rivive il mito di un'America edenica, remota nel tempo e nello spazio, della quale fantasticare ad occhi aperti. Il senso quindi di un così accentuato classicismo, sul solco della grande canzone folk americana, è presto detto. I soggetti delle canzoni (titoli come "Tailor" e "Shepherd", ispirata ad un racconto scritto trent'anni fa da suo padre, non sono affatto casuali) fotografano istantanee di personaggi popolari a cui è stata data nuova vita, un'altra possibilità di illustrare la propria storia, e valori sepolti sotto cumuli di noncuranza. Il folk della tradizione quindi, quel folk che ha immortalato secoli di storia statunitense, diventa veicolo prediletto a cui l'autrice affida pensieri e confessioni, condendoli di una vocalità vibrante e incisiva, che nasconde nei suoi echi fanciulleschi alla Joanna Newsom un'inusitata severità.
Severi e ponderati si fanno pure gli arrangiamenti: il pizzicare compassato della chitarra, talvolta sostituito dal pianoforte (nel soffocato avanzare di "Coming Down"), fumosi tappeti d'archi, e per finire un'indistinta coralità si limitano ad accompagnare e a indirizzare il taglio deciso della scrittura, qui più evidente che mai. È a questo livello che si rivela però una certa stanchezza: un'innata classe interpretativa (ben evidente nei primi due brani, complessivamente i migliori del lotto), e i limpidi fregi musicali non riescono a celare, talvolta, la mancanza di melodie all'altezza, di canzoni che oltre all'appassionante urgenza testuale si avvalgano anche di una cornice lirica di pari intensità. L'easy listening vagamente elettrico in "Venus", vera e propria mosca bianca del disco, il mantra sonnacchioso della conclusiva "Ships", unica circostanza in cui sembra far capolino una remota possibilità di speranza, come pure il posato stornello country "You Are Forgiven", testimoniano una cantautrice dall'incontestabile temperamento, alle prese con un'eredità di cui stavolta non sa come disporre al meglio.
È necessario dare credito, ad ogni modo, all'autrice di porsi continuamente in discussione, di essere uno dei massimi (e più ambiziosi) talenti al femminile degli ultimi anni, un talento che riesce, per quanto appannato, a inviare grandi, quando non grandissimi, barlumi di splendore.

Tra i boschi d'Inghilterra

anais_viiiInarrestabile, sempre più desiderosa di conoscere, di approfondire tradizioni e linguaggi del passato e del presente, la Mitchell licenzia giusto l'anno dopo la seconda uscita della sua label personale, che la vede alle prese nuovamente con qualcosa di sensibilmente diverso dagli schemi. Era infatti da molto che la cantautrice del Vermont nutriva in seno il desiderio di dare alle stampe un lavoro simile, e già qualche dichiarazione in tal senso era venuta a galla prima delle registrazioni del suo ultimo album solista. Dopo di che, la collaborazione col cantautore e polistrumentista roots-folk Jefferson Hamer, già altre volte al suo fianco, e una scrupolosa opera di documentazione e selezione, hanno fatto il resto, consentendo alla musicista di concretizzare un'idea tenuta in serbo a lungo.
Fatte le debite premesse, che disco è Child Ballads? I più informati sicuramente avranno già svelato l'arcano, per tutti gli altri basti sapere che quel “Child” piazzato a mo' di epiteto non si riferisce a infanti che faticano a prendere sonno, bensì al letterato e filologo Francis James Child, che ha speso parte della sua vita nello studio critico e nel recupero delle ballate popolari di diverse nazioni, ivi comprese quelle dell'Arcipelago Britannico, raccolte e catalogate in una imponente collezione. Ed è proprio da questo voluminoso archivio, da questo ricchissimo canzoniere, che già tanti in passato hanno utilizzato come fonte d'ispirazione (da Bob Dylan ai Fairport Convention passando per i Fleet Foxes), che attinge il duo americano, il quale dopo un'attenta lettura della corposa antologia ha selezionato sette delle trecentocinque ballate catalogate, e le ha riadattate ai propri fini artistici, in un prezioso processo di rilettura che non ha minimamente intaccato l'arcana potenza evocativa degli originali. Appropriatamente riarrangiate e rielaborate, queste ballate mostrano invece quanto ancora sappiano rivolgersi al presente e affascinare anche un pubblico non necessariamente avvezzo ai linguaggi del folklore, specialmente sotto la veste divulgativa che la Mitchell e Hamer hanno disegnato loro.
Non vi è alcun ricorso a strumentazione elettronica o a qualche bizzarro escamotage compositivo, i due musicisti hanno tenuto pienamente fede all'austerità del canone originale, abbinando alle raffinate armonizzazioni vocali il pizzicare delle loro chitarre acustiche e nient'altro, preservando così l'atmosfera incontaminata, per non dire magica, delle ballate. E' più che altro nella scelta di attualizzare la lingua, passando dalle cromie antiche dell'inglese arcaico a quello contemporaneo, che si coglie lo sforzo divulgativo dell'opera, tesa quindi ad introdurre a una platea potenzialmente ignara un mondo avvolto dalle nebbie del tempo, in cui realtà e immaginazione non sono poi così distanti.
Lo sforzo, manco a dirlo, viene ripagato ampiamente nell'esito: i moduli melodici su cui si basano le ballate folk anglosassoni, ripetuti costantemente, uguali a se stessi all'interno dei brani, in questo breve florilegio (poco meno di quaranta minuti di musica) riescono perfettamente a trasportare l'ascoltatore nel loro universo incantato, fatto di tragiche peripezie, storie di ascese e ricadute, destini ineluttabili e creature sovrannaturali.
Senza entrare nel merito dell'analisi dei vari brani (esercizio alquanto sterile in quest'occasione), basti prendere a riferimento la conclusiva “Tam Lin”, totalmente modificata nella struttura e nell'incedere rispetto a gloriose interpretazioni quali quelle dei Fairport Convention o dei Current 93, oppure l'incantevole passo a due di “Geordie” (riproposta in una chiave più sommessa e “domestica”, ma non meno espressiva rispetto all'incredibile versione del nostro Fabrizio De André) per constatare quanto al validissimo mestiere si accosti tutta una componente di elaborazione e ricerca personale, che fa di un disco simile un racconto individuale e collettivo al tempo stesso.
In queste sette rivisitazioni Anaïs Mitchell, riallacciandosi ai costumi musicali più profondi di una lontanissima terra d'origine (d'altronde, è dalla perfida Albione che pur discendono molti dei primi coloni), mostra di saper destreggiare con la dovuta padronanza il suggestivo vocabolario del folk inglese, senza mai denaturarne l'essenza o guardarlo con un occhio turistico.

Nemmeno la gravidanza riesce a fermare la Mitchell dal suo fervore creativo, o sarebbe meglio dire, in quest'occasione, rielaborativo. Trascorso poco più di un anno dall'ultima pubblicazione, giunge il momento per la cantautrice di guardarsi indietro. Osservare quanto è stato fatto, ripensare ai momenti fondanti del tragitto, rileggere le pagine del diario della propria vita, e soprattutto, rendere il proprio omaggio a tutte quelle persone che nel corso degli anni hanno creduto e sostenuto il tuo progetto. Ed è specialmente attorno a quest'ultima intenzione che ruota l'idea attorno a Xoa (2014), album formulato come una sorta di personale ringraziamento, una testimonianza di sincera partecipazione rivolta a chi ne ha seguito nel tempo le gesta e la continua evoluzione. Per una volta, un disco che può tranquillamente definirsi “for fans”, senza mal camuffati sottintesi dispregiativi a inficiarne l'effettivo valore.
Ridurre infatti l'esperienza d'ascolto derivante dal disco a un manipolo di “semplici” auto-cover (comunque accuratamente selezionate) non presenterebbe sotto la giusta luce un lavoro animato da un senso di progettualità decisamente più complesso e strutturato di quanto le fugaci apparenze potrebbero far sembrare. Anche perché, sparso qua e là, si affaccia pure del materiale inedito, talmente ben inserito nel contesto da fondervisi alla perfezione. Ricomposte con il solo ausilio della chitarra acustica (l'esperienza con Jefferson Hamer in tal senso si è rivelata fruttuosa), private dell'immaginifica teatralità e dell'afflato più ruvido che rispettivamente caratterizzavano Hadestown e Young Man In America, le nuove versioni dei brani stravolgono in larga misura il materiale originario, sì riconoscibile ma mostrato sotto una luce totalmente diversa, un'angolazione dalla quale donare loro un'identità del tutto nuova.
Il concetto è tutt'altro che figurato: sparita la banda festante dell'Ade, canzoni originariamente adibite a una gioiosa e ironica coralità trovano, alla luce dello sprezzante e sbarazzino canto di Anaïs, una forza del tutto diversa, una personalità a dir poco inedita, accresciuta da un'asciuttezza espressiva che esalta messaggio e scrittura. A voler far passare per brani originali “Why We Build The Wall” e “Our Lady Of The Underground” non si avrebbe poi grosse difficoltà, in definitiva. Non da meno sono i rimaneggiamenti dei pezzi tratti dal disco successivo, forieri di un carattere e di una sagacia rimasti perlopiù inespressi inizialmente: la stessa title track dello scorso disco solista rifulge con ancora maggior brillantezza rispetto al già valido originale, pure un episodio tutto sommato minore quale “You Are Forgiven” vibra su frequenze più nitide e decise, sfoderando un'insospettabile profondità nella scrittura.

In fondo, sotto questo aspetto nel corso della sua carriera ha avuto ben poco su cui recriminare: superate di slancio le prime timide prove, da The Brightness (qui testimoniato attraverso la sorprendente rielaborazione di “Your Fonder Heart”) in poi il suo percorso ha saputo destreggiarsi con naturalezza e sincera devozione con i più disparati tra i registri, fondendo fervore politico e raffinatezza intimista, senso della tradizione e lucidità eversiva, quando necessario. Questa nuova raccolta non fa che ribadire il concetto con fermezza. Se trova comunque ragione d'essere è nella trasfigurazione e nella contemporanea fortificazione di un repertorio che può vantare una plasticità che al momento rimane caso più unico che raro.
Una semplice chicca per fan allora? Se anche la si considerasse come tale, definirla come un capitolo minore, un'uscita tappabuchi sarebbe quantomeno inopportuno. La duttilità del materiale sfodera senza timore i propri artigli, mettendo al riparo la Mitchell da facili accuse di un precoce inizio della fine.
A questo punto, non resta davvero che domandarsi cosa abbia intenzione di sottoporre alla nostra attenzione negli anni a venire.

Musical e supergruppi

anaismitchellhadestownbwayQuesti stessi anni saranno spesi infatti nel formalizzare un sogno in nuce già contenuto nella versione in studio di Hadestown, ma che finora era rimasto sprovvisto dei mezzi necessari per crescere come meritava. Col nucleo espressivo dell'album espanso e rielaborato per essere adattato in un contesto teatrale, la folk-opera dell'autrice (una splendida registrazione a cura del cast vede la luce nel 2019) approda alla sua dimensione naturale, il palco, in cui donare nuovamente vita al mito greco attraverso una ricca sensibilità popolare, prettamente americana. Col suo debutto al New York Theatre Workshop nel 2016, il musical, già presto sostenuto da ottime critiche, compie il giro degli Stati Uniti, approdando in breve tempo anche in Canada e in Regno Unito. È un assoluto tripudio, un'energia (supportata anche dalla sapiente direzione di Rachel Chavkin) che porta la rappresentazione non solo a calcare i palcoscenici di Broadway, ma a guadagnarsi ben 8 Tony Award, un Grammy come migliore album per musical e una menzione speciale per Mitchell come una delle 100 persone più influenti del 2020 da parte di Time.
Con un simile successo ci sarebbe di che montarsi la testa. Eppure se c'è un dono che ha sempre contraddistinto l'autrice, quello è la sua profonda umiltà, una discrezione che negli anni lontani dal suo percorso primario la porta anche ad abbracciare una prima esperienza di gruppo. Spetta infatti all'etichetta di Justin Vernon (Bon Iver) tenere a battesimo il trio dream-folk Bonny Light Horseman, del quale fanno parte la stessa Mitchell, Eric D. Johnson (Fruit Bats, Shins) e Josh Kaufman (Craig Finn, Josh Ritter, The National, Hiss Golden Messenger).
Esibitasi per la prima volta all'Eaux Claires Festival organizzato dallo stesso Vernon nel 2018 nel Wisconsin, la collaborazione spontanea tra i tre musicisti si è poi evoluta in un progetto compiuto. Nelle dieci canzoni di Bonny Light Horseman si riscontra infatti lo stesso spirito introverso e appassionato dell'esordio di Vernon, solo che tutto qui è moltiplicato per tre: la grazia, l'arguzia armonica, l'empatia, la spiritualità e perfino la fragilità.

I musicisti reinventano la tradizione folk pescando nel canzoniere irlandese e britannico alla maniera dei Planxty, ma con lo spirito dei moderni autori folk, con una leggerezza che viaggia in sincrono con un acume creativo, percepibile in ogni piccolo anfratto di questo piacevole e inatteso album. Concepito come un progetto one-off, l'album dei Bonny Light Horseman si affida a un linguaggio musicale semplice, essenziale, quasi ermetico, eppure potente. È infatti magico il crescendo di "Deep In Love", che nel suo incalzante flusso acustico incrocia melodie ancestrali e frammenti di storia del folk, senza mai risultare pretenziosa.
Altamente suggestivo è il duetto tra Johnson e Mitchell in "Jane Jane", un gioioso brano folk natalizio qui riletto con uno spirito burlesque. È sempre dal contrasto di voci che germogliano le suggestioni di melodie senza tempo come "Blackwarterside"o "Bright Morning Star"

Spesso la band si diverte a reinventare e rimodellare il passato, ed ecco che dalle meraviglie del testo di "Loving Hannah" (che ricordiamo nella splendida versione di Shirley e Dolly Collins) prende forma "The Roving", la cui intuizione melodica è così forte che non ti meraviglieresti se fosse un classico ritrovato. "Magpie's Nest" è invece alterata non nella sua struttura musicale, quanto in quella lirica con un testo in parte ammodernato, mentre l'incedere ritmico tende a enfatizzare curiose similitudini ("All Night Long" di Lionel Richie).

On The Brooklyn Bridge

Dopo simili peana racimolati in anni di peregrinazioni in lungo e in largo per il mondo anglofono, era insomma il tempo di un nuovo raccoglimento, di un ripiegamento verso una vita più raccolta, una dimensione votata alla contemplazione. Semplicemente intitolato a se stessa, Anaïs Mitchell segna il ritorno alla produzione personale dopo un quasi un decennio di esperimenti collaterali, consentendo alla musica di trovare un nuovo respiro, il suo passo naturale. Riflessiva, guardacaso intitolata come la sua stessa firmataria, l'ottava raccolta si avvale di una luminosa introspezione, costruisce ponti tra memoria e speranza con l'acutezza di un gesto, una linea melodica. L'impatto non potrebbe essere più docile.

Poco importa che sia la BMG a licenziarlo, che l'interesse verso Mitchell sia sensibilmente aumentato: quasi a ripudiare le ricchissime colorature del suo adattamento mitologico, con i dieci bozzetti del nuovo album si delinea il ritratto di un'autrice desiderosa di raccontare la propria storia, senza eccessive marcature, con un'onestà dimessa, appena pennellata da piccoli arrangiamenti da camera. Non che manchino i momenti di puro slancio espressivo, un pezzo come “Bright Star” a suo modo ha quasi la grana del classico indie-pop, le memorie della musicista prediligono però punte di dita, emozioni accolte senza grandi dichiarazioni. Tutto scorre insomma con grande eleganza, finanche prevedibilità, il compendio di un'espressività che ha inevitabilmente agguantato la sua idea di classicità.

Aperture cinematiche piene di abbandono e incertezza (una “Brooklyn Bridge” che inquadra l'intero impianto narrativo), fasci di Americana intrecciati a doppio filo attorno a vecchi carteggi (una “Revenant” che lascia vedere in tralice il santino di Tom Petty), violenti raffronti col proprio passato (“Little Big Girl” e il suo torrente di parole): Mitchell si scruta e si espone, senza applicarsi sconti ma con innata gentilezza, anche nella rievocazione di illustri scomparsi (“On Your Way”, dedicata all'amico produttore Felix McTeigue). Tra pillole di un'infanzia non indorata e la prospettiva di un futuro in fuga dalle metropoli l'omonimo dell'autrice spalanca le porte a un presente colmo di incertezze, dotato però di un'innegabile onestà di fondo. Dopo la discesa nell'Ade, questo era comunque un necessario cambio di prospettiva.


Contributo di Livia Fagnocchi ("Hadestown"), Gianfranco Marmoro ("Bonny Light Horseman").

Anaïs Mitchell

Discografia

ANÄIS MITCHELL

The Song They Sang When Rome Fell(autoprodotto, 2002)6
Hymns For The Exiled(Waterbug, 2004)6,5
The Brightness(Righteous Babe, 2007)7
Hadestown(Righteous Babe, 2010)8
Young Man In America(Wilderland, 2012)6,5
Xoa (Wilderland, 2014)7
Hadestown - Original Broadway Cast Recording (Sing It Again, 2019)7,5
Anaïs Mitchell (BMG, 2022)6,5
ANÄIS MITCHELL & RACHEL RIES
Country Ep (Righteous Babe, 2008)6,5
ANÄIS MITCHELL & JEFFERSON HAMER
Child Ballads(Wilderland, 2013)7
BONNY LIGHT HORSEMAN
Bonny Light Horseman (37d03d, 2020)7,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Your Fonder Heart
(live, da The Brightness, 2007)

Flowers
(videoclip, da Hadestown, 2010)

 

Why We Build the Wall
(live, da Hadestown, 2010)

Our Lady of the Underground
(live, da Hadestown, 2010)

Wedding Song
(live, da Hadestown, 2010)

Coming Down
(videoclip, da Young Man in America, 2012)

Young Man in America
(videoclip, da Young Man in America, 2012)

Shepherd
(live, da Young Man in America, 2012)

Geordie
(live, da Child Ballads, 2013)

Willie's Lady
(live, da Child Ballads, 2013)

 

Tam Lin
(live, da Child Ballads, 2013)

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