Il 25 luglio 1965 è una di quelle date della storia del rock da segnare con il fatidico circoletto rosso. Quel giorno di sessant'anni fa, infatti, a Newport, andò in scena il concerto che rischiò di costare la carriera a Bob Dylan e che cambiò la musica per sempre. Un evento temerario, che non nacque per caso e che il suo protagonista concepì come sfida definitiva alle barriere del suo genere d’elezione: il folk.
La sera precedente, l’uomo di Duluth esegue un breve set acustico con tre brani. Ma, secondo il racconto del tecnico Jonathan Taplin, è quella notte che prende la decisione definitiva: sfidare il pubblico e gli organizzatori. Raduna in segreto una band composta da membri della Paul Butterfield Blues Band (Sam Lay, Jerome Arnold e Barry Goldberg) e dai musicisti con cui aveva appena registrato il dirompente singolo “Like A Rolling Stone”: Mike Bloomfield alla chitarra e Al Kooper all’organo. Passa la notte a provare in una casa nei dintorni, senza avvisare nessuno.
Il 25 luglio del 1965, Bob Dylan si presenta al Festival di Newport, Rhode Island, roccaforte della cerchia intellettuale dei puristi del folk revival. Nel 1965 il folk è il suono della coscienza civile americana: impegnato, militante, erede della tradizione di Pete Seeger e Woody Guthrie. È la musica dei campus universitari, sempre più presente nelle radio, colonna sonora del cambiamento. Il rock’n’roll, al contrario, è ancora percepito come un fenomeno frivolo, commerciale, privo di spessore culturale. Dylan decide di scardinare questo schema.
Il Newport Folk Festival, fondato da George Wein nel 1959, aveva già consacrato artisti come Joan Baez, Peter, Paul & Mary e lo stesso Dylan, che nel 1963 aveva conquistato il pubblico con “North Country Blues” e nel 1964 si era imposto definitivamente con “Mr. Tambourine Man”. Ma nel 1965 qualcosa è cambiato: Dylan è già in piena metamorfosi, guidato da un’idea d’arte come autenticità in perenne movimento. Con “Bringing It All Back Home” aveva pubblicato il suo primo album elettrico, aprendo nuove strade alla musica americana con brani come “Subterranean Homesick Blues” e “Maggie’s Farm”. Secondo molti, era stato cruciale anche l’incontro con i Beatles nell’agosto del 1964: “Il rock’n’roll non è mai stato molto interessante, fino a quando non sono arrivati i Beatles”, dirà in seguito. Ma più in generale, Dylan inizia ad allontanarsi dalla canzone di protesta per esplorare territori più introspettivi, spingendo la forma canzone verso nuove possibilità espressive.
Quindi, la svolta di quel 25 luglio non arriva per caso. Ma certo le modalità sono clamorose. Introdotto da Peter Yarrow di Peter Paul & Mary, Bob Dylan sale sul palco vestito di nero, in giacca di pelle e stivali. Sul palco con lui il chitarrista Mike Bloomfield, il bassista Jerome Arnold, il batterista Sam Lay e il tastierista Al Kooper. Fa un cenno alla band e compie un gesto inaspettato e dirompente: attacca la sua Fender Stratocaster a un amplificatore. È l’inizio della cosiddetta “svolta elettrica”, un momento spartiacque nella sua carriera e nella storia della musica popolare.
Possibile che quel ragazzo 24enne in giacca di pelle e stivali che sale sul palco imbracciando sfrontato una Fender elettrica sia lo stesso Bob Dylan che appena due anni prima guidava il coro di "Blowin' In The Wind" in tenuta da folksinger operaio? E che cos'è quel frastuono assordante che si riversa sul pubblico come una colata di lava incandescente? Più che un affronto premeditato, quello di Dylan è un gesto di candida follia. Dylan è impaziente di far conoscere a tutti la nuova via che sta intraprendendo e quando sente l'esibizione della Paul Butterfield Band va subito da Bloomfield e gli chiede senza pensarci due volte se il gruppo vuole accompagnarlo in un paio di brani insieme ad Al Kooper.
"Maggie's Farm" aggredisce subito la platea con una nervosa energia che fa impallidire la versione contenuta in “Bringing It All Back Home”. La chitarra urticante di Bloomfield fa da contraltare alla voce beffarda di Dylan. Il volume è così alto da non permettere quasi di distinguere le parole, l'irruenza della band travolge i dettagli. Il pubblico comincia a rumoreggiare, fischia, protesta frastornato: la leggenda vuole addirittura che Pete Seeger, nel backstage, cerchi di tagliare i cavi della corrente con un'ascia.
Dopo "Like A Rolling Stone" e il blues aspro e scoppiettante di "It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry", Dylan lascia il palco: non ha avuto il tempo di provare altri brani con la band. Il pubblico si sente defraudato e quella che scoppia è una specie di insurrezione. Al microfono, Peter Yarrow si guarda intorno smarrito, poi cerca di placare gli animi annunciando che Bob sta tornando con una chitarra acustica. Ma quando Dylan si ripresenta in scena, scosso e ferito nell'orgoglio, per intonare "It's All Over Now, Baby Blue" e "Mr. Tambourine Man", il suo suona come un definitivo commiato e non certo come una sconfitta. Gli applausi si mescolano a richieste di bis. Ma lui non tornerà. E non tornerà a Newport per i successivi 37 anni. Quando lo farà, nel 2002, salirà sul palco travestito: cappello bianco da cowboy, parrucca e barba finta. Ancora una volta, confonderà le attese.
Quella chitarra Fender verrà venduta all'asta nel 2012 per quasi un milione di dollari, la Telecaster con cui lo accompagnò sul palco Mike Bloomfield passerà di mano nel 2025 per un quarto di milione.
Il biopic "A Complete Unknown" con Timothee Chalamet, candidato agli Oscar 2024, ne ha ricreato il clima: fischi assordanti, oggetti tirati sul palco, l'ira dell'establishment del folk, rappresentato da Pete Seeger e dall'etnomusicologo Alan Lomax. Di recente Dylan ha scritto su X che Newport fu "un fiasco", ma quella performance divenne subito leggendaria, caricandosi di significati nel tempo come l'esempio di tutti gli artisti che seguono la propria strada sfidando le aspettative del pubblico a costo di pagarne le conseguenze.
"Molti eventi storici diventano cruciali col senno di poi. Questo fu uno di quei momenti in cui tutti sapevano che stava succedendo qualcosa di importante", ha detto al New York Times Joe Boyd, il producer di Newport 1965. Il concerto è stato rappresentato più volte sul grande schermo prima del film di James Mangold: nel documentario di Martin Scorsese del 2005 "No Direction Home", e prima ancora da Murray Lerner in "Festival" (1967) e poi "The Other Side of the Mirror" (2007). Quello stesso anno, nel corale "I'm Not There" di Todd Haynes, è Cate Blanchett che sale sul palco con i musicisti della band che aprono le custodie degli strumenti e sparano sul pubblico: una scena teatrale, violenta e allucinata che voleva simbolizzare la rottura e il tradimento percepito dal pubblico folk.
L’esibizione del 1965 a Newport resta una delle sue più iconiche non solo per l’audacia del gesto, ma perché segna l’ingresso del rock nella modernità. Dylan ridefinisce i confini del possibile, mostra come l’artista debba, prima di tutto, essere fedele alla propria ispirazione.
Con ancora l'eco dei fischi di Newport nella mente, tra la fine di luglio e l'inizio di agosto Dylan torna in studio per portare a compimento la traiettoria della pietra scagliata da "Like A Rolling Stone", che proprio in quei giorni sta entrando in classifica in America e in Gran Bretagna. Dylan decide di allontanare Tom Wilson per ragioni mai del tutto chiarite e lo fa sostituire con un produttore molto meno invadente come Bob Johnston, dopo aver pensato di rivolgersi persino a Phil Spector. Le sedute di registrazione occupano complessivamente meno di una settimana e sono dominate dal tipico caos dylaniano. Alla fine di agosto, “Highway 61 Revisited” farà la sua comparsa nei negozi di dischi, annunciato in copertina da un Dylan in sgargiante camicia floreale e t-shirt da motociclista, che lancia il suo sguardo di sfida verso l'obiettivo di Daniel Kramer. E per Mister Zimmerman sarà un altro trionfo.
25/07/2025