LUDOVICO PERONI - IL SOGNATOIO (Da Vinci Classics, 2020)
jazz opera
Il maceratese Ludovico Peroni, musicologo e compositore, co-fonda un ensemble sperimentale, il quintetto della Quick Response Orchestra, con cui porta a compimento la propria opera prima, e proprio un’opera con vero libretto (un poema di Filippo Davoli) dedicata interamente alla Shoah, “Il Sognatoio”. Piccolo novello Butch Morris, Peroni procede di dissociazione in dissociazione. In “Nascondino coi fiori” il discorso di Hitler viene contrappuntato seraficamente da un’aria di clarinetto in un contesto circense, a volte lambendo la musica fonetica di Alvin Lucier, laddove in “Notte e nebbia” un coro ebraico sfuma sull’accelerando ferroviario dell’ensemble prima di una sardonica bossa lanciata da una sonata sinistra per piano e feedback chitarristico. L’“Intermezzo”, forse il momento più narrativo, è un’autentica gag distopica: annunci di morte impassibili in sincrono con un campanello. I numeri più improvvisati comprendono il tema svirgolante alla Soft Machine di “Pupo di bestia”, quello swingante e vaudeville di “Sei la neve”, la fusion funerea di “Ipertimesia”, la ballad pianistica di “Macinello”. Ma ognuno di questi riceve sviluppi sobbalzanti: sequele di improvvisazioni isteriche, oppure mutazioni all’insegna della psichedelia, o ancora deformazioni elettroniche. Definita, come da artwork, una “Experimental Opera in 9 Scenes”, ma i pannelli sono sette e hanno un inizio che si chiama “Fine” e una fine che si chiama “Inizio” (il momento scenograficamente più terribile: il gas che inonda un marasma di voci su sottofondo di battito cardiaco mentre il clarino mugugna le sue ultime note). Il “Sognatoio”, leggenda o realtà, era una stanza di una baracca da cui le persone non uscivano più. Davoli, anche sparuta voce recitante, l’ha colta come straziante metafora della speranza delle genti ebraiche, e Peroni l’ha trasformata in un pamphlet in traballio tra asettico e dolceamaro che attinge allo spoken-word, alla soundscape, all’avanguardia elettroacustica e gestuale, oltre ovviamente a jazz e rock, e che si trasmette per sorgenti disgiunte che premono sui propri confini in maniera cerebrale e dissonante, prima ancora che per immagini soniche. C’è un pacato senso dello humour nero, non proprio divertimento, anche grazie al clarinetto di José Daniel Cirigliano, un personaggio aggiunto, forse il rapsodo del caso. Già presentata dal vivo nel 2017, ha vinto il premio “Teatro Musica e Shoah” di quell’anno. Edizione limitata con serigrafia (Veronica Galandrini) (Michele Saran, 7/10)CHARLIE RISSO - TORNADO (Incadenza, 2020)
alt-rock, songwriter
A quattro anni di distanza dall’esordio “Ruins Of Memories”, lo scarto in avanti compiuto da Charlie Risso, giovane cantautrice ligure, è davvero notevole. “Tornado”, il suo secondo lavoro, mostra una scrittura e un’estensione vocale che la portano ad avvicinarsi in maniera impressionante a quelli che senza dubbio sono i punti di riferimento della propria estetica musicale: Lana Del Rey e Dolores O’Riordan. Dalla cantante americana mutua in particolare la dimensione onirica (“Dark” e “Lord Of Misrule”, poste a inizio tracklist, quasi a voler fissare il mood generale del disco) e la dolcezza trasognata (“Nothing At All”, con le sue chitarre in modalità tremolo). Registri tenui che si alternano ad arte con l’elettricità alt-rock espressa nella più urticante “It Makes Me Wonder”, dalla quale emerge il lato più Cranberries. La situazione si increspa anche nella formidabile title track, che parte riecheggiando “Like A Hurricane” di Neil Young per poi vivere di vita propria, centrando il bersaglio soprattutto grazie all’estensione vocale espressa da Charlie. La chiusura assume i contorni lunari di “We’re Even”, per quello che va a simboleggiare un dolce arrivederci. Sulla base del materiale contenuto in “Tornado”, non possiamo che ipotizzare una luminosa carriera (Claudio Lancia, 7/10)REPETITA IUVANT - 3 EP (Loudnessy Sonic Dream, 2020)
post-rock
I Repetita Iuvant nel debutto “3” cercano di esplorare la formula più nota del post-rock chitarristico in tre componimenti dal livello crescente di improvvisazione. “Gusev”, il più composto oltre che il più corto, è un coacervo di progressioni spartite tra arpeggio e distorsione dal piglio atmosferico-brumoso. “Montalto”, ben più complessa ed estesa (e a tratti ambiziosa come pure confusionaria), fa un po’ da suite progressiva del caso: parte da una texture di accordi tremuli spalleggiati da una foschia densa portati via via all’ardore distorto, quindi segue in un quasi-raga Fahey-iano (ovviamente reso più facilmente rock dai riverberi e volto alla solita valanga di suono), e chiude con una terza sezione forte di nuova e ancor più elaborata componente folk in filigrana. “Sapradi”, in teoria la più libera, si protende verso la moderna psichedelia cosmica degli Hash Jar Tempo, pure riscoprendone radici indiane e persiane. “Gusev” sta nelle braccia della convenzione di genere; “Montalto” è la più problematica ma anche la più avvolgente; “Sapradi” suona un tantino piatta, nonostante le premesse migliori. Ep col passo lungo dell’album, fatto di brani col respiro del poemetto tonale, più che dei soliti Godspeed e Mogwai, registrato in presa diretta e con un titolo polisemico (“3” come i membri del complesso spezzino, come i brani, come la trilogia di cui questo fa da primo capo). Da prendere con qualche molla - batteria tuttofare ma non sempre essenziale, finali scarsi, una certa indecisione -, ma questo esempio di muto affresco atmosferico soddisfa perché tende all’entropia, sfinisce in una maniera persino eroica. Parecchio spazio alla capacità d’immaginazione, se l’ascolto è attento. Libero download. Artwork del conterraneo Marco “Brucio” Degl’Innocenti (Michele Saran, 6,5/10)KEEMOSABE - LOOK CLOSER (autoprod., 2020)
alt-rock
Alberto Curtis, chitarra, Andrea Guarinoni, basso e Sebastiano Vecchio, batteria, formano nel 2016 i Keemosabe (originari del Lago Maggiore, ma base tra Milano e Londra). La ricetta del loro “Look Closer” rivela arrangiamenti spesso più che sofisticati. Tracce di dance-pop cibernetico-decadente, dei Queen disco-funk di “Another One”, e una bella scarica hard-rock, si ritrovano in “All Is One”. Un’analoga energia eclettica pervade le varie “The Lights Go Down”, “AnythingAnything” e la glam “Let The Sun Set”, tutta cambi di tempo e con gran finale quasi cameristico. Più seria e seriosa “Lost In The Wind”, in scattante tempo ternario country e correttamente fatalista nell’umore. Il loro talento si spinge da un capo all’altro delle possibilità, da una semplice serenata acustica come “Oh Night” fino a un montaggio sonoro di pseudo-avanguardia in testa a “Storm”. La lussuosa produzione di Tommaso Colliva detta legge in questo debutto - seguito di un Ep omonimo (2019) - dall’indole spiccatamente eterogenea ed esterofila a livelli quasi irritanti, ma lo fa a meraviglia, tante volte elevando materiale melodico altrimenti succedaneo e invigorendo, sofisticando (molti suoni concreti e soundscape) e mettendo in vibrazione il distinto livello tecnico del terzetto. Usare il nuovo brit-rock o resuscitare l’Aor di maniera per veicolare un concept in tre parti su una donna insoddisfatta non è la più gemmea delle idee, ma il disco viaggia col pieno di un buon propellente d’intrattenimento. Non dei Coldplay qualsiasi (Michele Saran, 6/10)HEXN/BLACK LAGOON - NUDE/DUNE (Non Piangere Dischi, 2020)
new age
Due sperimentatori affini per ricerca e sonorità, Hexn (Alberto Brunello) e Black Lagoon (Andrea Signorini, già con Hell Demonio e Afraid) si incontrano, oltre che nell’ibrido “Heroes” (2020) a nome Black Hexn Lagoon, in uno stesso album con due mini dal nome ricombinato anagrammaticamente, “Nude” e “Dune”. Nel lato di Hexn, “Nude”, campeggiano anzitutto i 9 minuti di “Colaoher”, garrula radiazione elettronica con vibrazioni rimbombanti che un po’ sostengono e un po’ squarciano un canto muezzin accoppiato a un synth naturalista alla Kitaro, via via diradata e incupita. Migliore perché più precisa è “Gensi”, che richiama esplicitamente il folk maghrebino con un sottofondo uggiolante da contrappunto sovrannaturale. “Ögonblick” invece riaccende il ritmo, febbricitante con strappi di distorsione e un’aspra innodia strumentale, per metterlo in una pista da ballo ipnotica. Da “Dune” di Black Lagoon proviene “Lisan Al-Gaib”, un drone d’organo estatico, o meglio una versione decisamente rallentata e resa statica di un raga elettronico di Terry Riley, come se fosse stato sottoposto allo stesso procedimento cui Steve Reich sottopone il suo “Four Organs”. Le successive tracce lunghe, “Ayat” e “MuadDib”, condividono il “Passion” di Peter Gabriel per ricavarne la medesima ispirazione, l’associazione di ultraprimitivismo e ultramodernismo, con risultati misti. Co-prodotto con Slimer Records, nel suo insieme è un disco tanto compatto quanto ridondante, piuttosto convincente sul piano della suggestione esoterica e quartomondista (mediorientale certamente, ma anche aborigena), meno in quella della visione. Molto bozzettismo confezionato, pure molto bene, senza prima essere stato portato a maturazione. Da Brunello i maggiori sprazzi di fantasia (Michele Saran, 6/10)FISCHER BOOM - SYSTOLIC AND DIASTOLIC (Rivoluzione Dischi, 2020)
fusion
Due scafati turnisti di sezione ritmica per artisti leggeri mainstream (Pierpaolo Ranieri, basso, e Marco Rovinelli, batteria, entrambi romani) fanno comunella attorniati da una pletora di dispositivi elettronici per incidere, ribattezzati Fischer Boom, il materiale di un primo solo strumentale “Systolic And Diastolic”. Gli effetti più suggestivi stanno in “The Butler” e “A Little Breath”, quando i due sventrano di quel tanto il sostrato più corrivamente funk del binomio basso-batteria per rimpinzarlo d’una quantità di suoni (sussurri, controtempi, armonici, sintetizzatori ambientali o distorti) e giungere comunque a una certa densità aurale. Il groove più imponente sta in “Order And Chaos”, forse il pezzo baricentrico, anche questo smembrato dai fluidi elettronici, e il momento tribale arriva con “Iron Hands”, puntato dall’elettronica acida. Turgidamente disco-funk suona “I’m Late”, pure frequentemente remixata ma mai perdendo davvero il controllo del ritmo; così “Digital Soul”, piccola orgia danzante di dispositivi uggiolanti. Acrobazia dopo acrobazia, tecnicismo dopo tecnicismo, sofisticazione dopo sofisticazione i due non ne sbagliano una. Se manca un contenuto (ma si potrebbe asserire lo stesso di certi storici dischi dei Material), e più di qualche momento non si esime dall’effetto-sottofondo, allora provvede la coinvolgente ossessione per la danza sincopata, di quella che non stanca. Con un buon impianto hi-fi fa un figurone. Primo singolo: “Change Direction”, forse il brano peggiore (Michele Saran, 6/10)EEGO - POP DISEASE (Doubledoubleu, 2020)
soul-hop
Il producer Antonio Castellano, Milano, comincia come eego con il singolo “Rubber” (2014) e “This Is Not A Dance Song” (2017), la prima collaborazione con il vocalist italo-brasiliano Matteo “arua” Novembre, e l’Ep “June” (2018). “Back 2 Bed” (2020), nuovo singolo (una cantilena Prince-iana sopra un piccolo caos glitch-hop), introduce invece il debutto lungo “Pop Disease”. Se “Meteoropathy” scopiazza inconsciamente (anche svogliatamente) la “Olio” dei Rapture, “Seasons” richiama più scientemente le ricerche Anticon (lato Why?), in un intensificando di rifrazioni vocali e vagiti psichedelici, e qualcosa di persino Waits-iano (canto avvilito, delirante e distorto nel mezzo d’un baccano percussivo) affiora appena in “Running Again”, anche se la tentazione rimane quella della produzione sofisticata da chillout. Un’ultima idea abbastanza intrigante sta nell’associazione tra filastrocca da replicante e tromba jazz mimata dal synth in “Her Veins”. Disco di media durata composto prima del lockdown da Covid-19 e poi allungato durante. Forse andava tenuto più stretto. Troppi momenti - vedi parte centrale - di debilitante genericità, che siano strumentali (“The Shape Of The City”) o cantati (“Umbrella”, da Anna). Castellano spinge benissimo sui bassi ma nel resto dell’arrangiamento graffia sì e no, e limita l’importanza dei momenti migliori. Su tutti: i due-minuti-due d’incubo allucinogeno e tribale di “Stolen Past” che insegnerebbe qualcosina ai Massive di “Karmacoma” (Michele Saran, 5,5/10)PINO MARINO - TILT (O’Disc, 2020)
songwriter
Pino Marino ritorna con “Tilt” per dire la sua sui recenti sconvolgimenti socioculturali della nostra era. Il singolo “Calcutta”, pur basato sul boogie pop gioviale di “Buona domenica” di Venditti, è in effetti la sua canzone più duramente j’accuse. “Pensiero nucleare” invece richiama, come spirito e ritornello, “La musica che gira intorno” di Fossati. Meglio la più sintetica (e synthetica) “Caterina volentieri”, anche questa però fondata su un prestito, la “Only You” degli Yazoo. Quasi tremenda “Io non sono io”. Fin qui tutto abbastanza innocuo e datato nel tentativo di suonare contagioso. Co-arrangiato come sempre (ma qui con mano pesante sull’elettronica pop) da Fabrizio Fratepietro e Pino Pecorelli, il quinto disco lungo a vent’anni dal debutto “Dispari” (2000) del navigato cantautore capitolino è quello con le maggiori tentazioni radiofoniche, specie nella primissima parte; dopodiché le intenzioni di commentatore arrabbiato sfumano senza resistenza in un più congeniale tono da torpore nostalgico. Profondità e sincerità retrodatano sempre e comunque ai canzonieri dei suoi dischi precedenti: “La mia velocità”, “Maddalena”, un duetto a rischio Sanremo con Ginevra Di Marco, soprattutto lo stornello pianistico in dialetto cantato dalla sola Tosca (e per lei scritto) di “Roma bella”. Originale il riassunto-collage “rappato” da Vinicio Marchioni - ispirato dal tilt del flipper - nella chiusa eponima crepuscolare. Tra gli altri ospiti Roberto Angelini (chitarra) e Giovanna Famulari (violoncello). Scatto di copertina: “L’ora del bagnetto, Gaza”, Emad Nassar (Sharjah Award 2015). Co-prodotto con Pineta, distribuito da Ird Digital (Michele Saran, 5,5/10)GIOSTRE - GETTONI (Cabezon, 2020)
alt-pop
Il veronese Jacopo Gobber, produttore e sound designer, prima ancora cantautore e co-inventore di Squid To Squeeze, imbastisce Giostre e un primo “Gettoni”, in compagnia di Camillo Dal Forno, tastierista (già nei C+C=Maxigross), e il vocalist Marco Danieli. Gli riescono una “Beach in bici”, parodia dei party di spiaggia con cortina di voci e rumorini, una “Buco nero” confessionale con intenti quasi generazionali, una “In coda alle poste” sincopata come una trance propiziatoria, e “Cassa integrazione”, mix di trap e goa-trance. Sigla estemporanea, più che un concept-album, troppo estemporanea (e corta) per essere presa seriamente, un assemblato che tratta in ritardo di problemucci social e problemi sociali con ironia non così fresca di giornata. Ha nella sua sfilata di pezzi uno attaccato all’altro un corrispettivo di novello teatrino di rivista, e avrebbe, non fosse inquinato da sburre fanciullesche, uno spirito decostruzionista alla Frank Zappa (sfaldare e irridere i generi di consumo tramite quegli stessi generi di consumo). A suo modo è un piccolo scaccia-noia. Quarta “giostra”: Silvio “Michael Knife” Rondelli, elettronica. Cameo della sicula Charlotte Cardinale (Michele Saran, 5,5/10)LUCI - LUCI (Metatron, 2020)
songwriter
La molisana “cantarpista” Luciana Patullo, appassionata di Brecht, forma i Flug da un’idea di Giuseppe Zingaro con Roberto Giamberardino e poi debutta a nome Luci con l’omonimo “Luci”. Il monologo meditativo e melodrammatico di “Dal principio” e il ritornello in levare di “La semplice volontà” (scritta dall’ex compare Zingaro) ne fanno da biglietti da visita, ma appena più genuinamente contagiosa suona la bombastica “Il bolero delle mante”. Davvero poco altro degno di nota. Nelle intenzioni un’opera altamente personale di una giovane donna alle prese con passaggi esistenziali e ripensamenti, negli effetti un timidino album di trip-hop un po’ alla Lamb troppo spesso soggiogato dagli arrangiamenti elettronici di Aurelio Rizzuti, e, peggio, poco sostanzioso e talvolta melenso sul piano delle canzoni (eccezione la più nuda, pianistica “Pezzi”, posta in coda) e con riempitivi. Uno spreco non dare spazio alla sua arpa celtica (una gemmina “Che ore sono”, ma brevissima), come pure limitare i talenti strumentali, due pianoforti, un trio da camera, chitarre, a puro orpello. Co-prodotto con Artist First (Michele Saran, 4,5/10)
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