LES APACHES - LIDI SUD (Brutture Moderne, 2022)
psych-rock
I cesenati Matteo Santini dei Last Killers, voce e chitarra, e Mattia Depaola dei Hormonauts, batteria, si incontrano per la prima volta per formare i Thee Fuzz Warr, devoti come non mai al garage lo-fi vecchio stile nell’unico “Emporium & Overdose” (2017). Il revival continua ma pure si approfondisce nel loro successivo progetto comune, i Les Apaches di “Lidi Sud”. Primo obiettivo del loro revisionismo sembra essere il blues, quello “swamp” di Slim Harpo in “The Importance Of Being I.S.”, ma rallentato, ovattato e funestato da rimbombi e colate di sfrigolii, e quello mosso da spirito voodoo di Bo Diddley, “Warm Cola#2”, altresì ripieno di strepiti elettronici. Poi viene la musica lisergica tout-court, ma la breve “Bateu Ivre” ha più a che vedere col collage d’avanguardia che con la canzone psichedelica, mentre “San Berillo” e “Trapdoor” sottopongono rispettivamente anthem Rolling Stones-iani e passi pop Beatles-iani a dosi abnormi di allucinogeni fiaccanti. Allo stesso modo “Karman Ghia” suona come dei Steppenwolf implosi in una trance animista. C’è infine una zona dedicata alla chanson francese, sia incrociata con una sorta di vaudeville cubista (“Jane”) che ridotta a pochi versi sperduti sopra un’altra pulsazione di palude (“Un Jour Sans Fin”). Largamente basato su jam improvvisate, coronate da un basso di tutto rispetto (Francesco Giampaoli, anche produttore) e le chitarre di Alessandro Tedesco - anche se il pezzo lungo del caso, “Libanese Karawane”, non riesce a farsi compendio finale -, è un disco dedito a uno stregato disorientamento, spazializzato ma da incubo, arieggiato ma di zolfo. Non proprio ricco di autentico scavo armonico, diviene allora muzak per la sala d’attesa dell’antinferno. Registrato durante il lockdown in quel di Lido Di Dante il cui clima ha funto da ispirazione, da cui il titolo (Michele Saran, 6,5/10)
NERO DIASPORA - SHADOWS ON EARTH (Folderol, 2022)
avant-rock
Dopo aver dato un altro capo a nome Illachime Quartet, “Soundtrack For Parties On The Edge Of The Void” (2019), il partenopeo sperimentatore Fabrizio Elvetico resuscita anche il progetto Nero Diaspora, che taceva da “Mirros/Miroirs/Specchi” (2014), con “Shadows On Earth”. I nuovi esperimenti hanno un buon incipit nel cantico propiziatorio post-Galas di “Tribalism”. “The Rumble” è un’ode all’implosione: implose le ondate oscure che la scandiscono come un cerimoniale satanico, imploso il canto da fattucchiera in trance, implose le distorsioni in lontananza. “White Wall” è un incubo per vocina folk e poi chanson, battito cardiaco, archi dissonanti e rumori industriali. “O bene mio” è una villanella cantata ad alto volume su un sottofondo tempestoso di droni informi tramutato in un accompagnamento tonitruante degno dei primi Swans e orchestra d’avanguardia. Poco calibrato in questo clima di sabba suona “Madonie”, uno squarcio di luce colto tra blues vocale e raga trascendentale in un crescendo sinfonico. Opera desunta da una serie di improvvisazioni in quel di Polizzi Generosa nel 2019: il livello stilistico è eccezionale, specie nell’ampio spettro vocale e anti-vocale di una Rossella Cangini più in forma che mai. Altrettanto ammirevole è la coscienza della musica d’avanguardia che frutta picchi di verace terribilità, ma a un certo punto ci si accorge che procede per accumulazione, non per sviluppo creativo. “O bene mio” decostruisce “O bene mio famm’uno favore” di A. Willaert, la più scricciola “Fight Fight Fight” contiene parlati di eroi attivisti (I. Cucchi, M. Prysner, H. Khalaf). La chiusa di “A Balloon”, un gestualismo elettrovocale, è una piccola meraviglia (Michele Saran, 6,5/10)
NELIDE BANDELLO BAR TRITOLO - MILAGRO (Flying Robert Music, 2022)
jazz-rock
Il batterista jazz Nelide Bandello (Verona) aumenta la line-up del suo Bar Tritolo che aveva partorito il valido omonimo “Bar Tritolo” (2014), con l’aggiunta della seconda chitarra (sette corde) di Giancarlo Bianchetti, già saggiato nel precedente “De Ludo” (2018), oltre a quella del solito Enrico Terragnoli e al sax dell’altrettanto fido Piero Bittolo Bon, per dare il seguito “Milagro”. Il disco pulsa dissociazione: il tema fusion truculento dell’estesa “Poda Poda”, non solo variato e improvvisato ma pure generato e tallonato dal caos entropico, e quello bebop demenziale di “P Genius”, deformato e allucinato in soundscape chitarristiche svanite, la palude di lemmi jazz-funk via via più vorticosa di “Hi Bags”, l’iperrarefazione di “Song For Song” trasformata magicamente in ballad tenebrosa. Una delle prove più difficili del jazz italiano 2022, parente stretta, o proprio figlia, della pandemia, delle vicissitudini personali, di un sentore catastrofico generalizzato. Interventi di qualità da parte di tutti, buono l’esercizio persino virtuosistico di composizione del leader. I difetti stanno nell’imballaggio, nei troppi brani medi (“Artritolo”, “N”, “Blind Dumb And Polite”, etc). Secondo parto della propria Flying Robert Music (Michele Saran, 6,5/10)
MICHAEL IT’Z - CHROMATIC NOSTALGIA (Shimmering Moods, 2023)
ambient
In “Chromatic Nostalgia” di Michael It’z svettano da subito due piccole prodezze di montaggio sonoro elettroconcreto: “Never Forget You”, conciliabolo di voci aliene, interferenze siderali e scampoli di nursery rhyme, e “Harmonic Violence”, ammasso di frammenti triturati di ballate pop-soul ascoltati dall’esterno di una stazione aerospaziale, una via aulica al sub-genere del deconstructed club. C’è comunque anche “Everything Was Beautiful”, un “lento” cosmico sparpagliato nell’intera volta celeste per ondate immani, alla maniera di Klaus Schulze. Passato qualche brano molle si riprende pregnanza, e punto di massimo sconforto, nella lentissima “In The Silence We Disappear”, funestata da una tempesta di sabbia e spettrali simil-cordofoni iraniani, e infine nel florilegio di parlati perforato da lame di droni abbaglianti di “Anatomy Of A Memorie”. Dal prolifico M. Carria, sardo di Valledoria eppure ormai pienamente cosmopolita, un altro frutto mezz’acerbo, episodico e non granché coerente, ma dal passo lungo. La resa scenografica delle tappezzerie di campioni diventa un’opera nell’opera: Radiohead (“How To Disappear Completely”), De André (un’intervista del periodo “Domenica della salme”), Elisa (“Eppure sentire”), brusii di gente al Tate Modern, telefonate di donne immigrate, sirene. Preceduto da “Amo Re” (2022) e il più intimo “Iris” (2022) (Michele Saran, 6/10)
FRANCESCA NAIBO - SO MUCH TIME (Ramble, 2022)
avantgarde
Il secondo “So Much Time” della chitarrista sperimentale veneta Francesca Naibo si annuncia con “Solletico”, risatine di bimba e un feedback che imita un ciuf-ciuf di trenino incastonati in una densa polifonia di stridori, svuotata in tocchi cacofonici nel silenzio e poi via via ricostituita ma con movenze di cyborg. La chiusa “Non sarebbe meglio se tu venissi al posto mio?” è invece finora la sua migliore prova vocale, uno spiritual new age senza parole sospinto tra echi con una pregnanza tutta crepuscolare. Tra questi due brani intervengono episodietti e numeri minori di poco conto, ma “E se poi te ne penti?” e “Al mio 3 spingi” sparano fitte di distorsione arricciante, moltiplicata, tendente a una grottesca catarsi. A due anni da “Namatoulee” (2020) Naibo espone il referto della personale autoanalisi insita alla quarantena Covid-19 con cui è regredita alla sua infanzia, ripescando e inserendo vecchi nastri della sua vocina dell’epoca. Risultato a doppio taglio. Nella sua irrealizzata fusione tra innocenza e apocalissi sa comunque trascendere la banale nostalgia grazie allo strumentismo ostico, sfaccettato, capace di portentose (s)torture post-Derek Bailey e, novità, anche d’intonazioni elegiache. Le didascalie ai brani coi “Time” di volta in volta aggettivati (“Dilated Time”, “Compressed Time”, “Excited Time”, etc) forse non servivano. Buona grafica dell’indiano Atharwa Deshingkar. Approdo alla piccola australiana Ramble Records (Michele Saran, 6/10)
OSSO SACRO - URLA DAL CONFINE (Zoopalco Poetry Label, 2022)
folk
In quel di Benevento quando il talento del poeta e performer Vittorio Zollo incontra quello del violinista, multistrumentista e arrangiatore Corrado Ciervo, fondatore dei La Rua Catalana e detentore del solista “Mousiké Téchne” (2022) e di suo fratello produttore Carlo, nascono gli Osso Sacro del primo breve “Urla dal confine”. Dopo l’invocazione e la presentazione del pezzo eponimo si entra nel vivo con la paradigmatica “Demetra sul tamburo”, cantilena propiziatoria tentata dalla musica rap attorniata da armonie prosciugate, sottaciute, pure trasformata in urlo soul e lamentazione folk. “Le serpi angizie” si dota di un’armatura vagamente gangsta-rap e un ritornello melodrammatico corale, ma dirompente suona soprattutto “Judeca”, con le sue rime da sceneggiata popolare e un finale assolo di folk-blues vocale. La chiusa della doppia “A’Beat” e “Pruserpina” suona più tradizionale, in compenso “Affaciati” fa da baricentro di dramma in un alto grido, i droni tragici delle corde e l’orologeria impassibile dei pizzicati. Disco autodefinito “metastorico” sulla vicenda dei sanniti, popolo “liminale” tra Lazio e Campania. Non un’opera rock né un concept: non sono chiarissimi, infatti, né storia né svolgimento; la resa sonora però li sospinge per bene con le tipiche, focose tinte forti e un po’ smargiasse del caso. Registrato in un ex essiccatoio di tabacco nelle fonde campagne di Ripa Lupina, pende ingordamente dalla parte della poesia in rima, lo spoken word, l’andazzo da cantastorie e monologante plateale, e prende spazio a una musica che cerca a stento di far ponte tra arcaico e avveniristico, nonostante riesca a intessere decorazioni niente male. Ospiti ben integrati: le voci di Dennj De Nisi e Alfredo D’Ecclesiis, il flauto di Vittorio Coviello, il poeta dialettale Toi Giordani (Michele Saran, 6/10)
THE SOMNAMBULIST - SOME MORE SONGS LOST IN THEMSELVES EP (Slowing, 2022)
alt-rock
La nuova fase della sigla italotedesca The Somnambulist capeggiata dal romagnolo Marco Bianciardi (ex Caboto e Elton Junk) riparte dalle cure d’arrangiamento del multistrumentista berlinese Paul Peuker. Il nuovo Ep si può allora fregiare di romanze oscure e caracollanti come “Flower From Where You Go” e “Not A Song For You”, e in parte della Screaming Trees-iana “Lowerin’ Sun”, tutte introdotte dal preludio wave per accordi deformi e imbonitore di “All Strain Is Over”. Non si esprimono a dovere invece “Lametech” e “The Freewheelers” (vagamente Talking Heads). In origine concepito come Lp e poi spezzettato in due sottocapi (questo è il primo), è una discreta aggiunta al loro canone non tanto per il suo carattere spesso sghembo e acido, quanto per la bagna di sobrietà che mancava al predecessore “Hypermnesiac” (2020). Mossa fertile: mentre gli strumenti riscoprono la tipica sapidità neurotica del post-rock, Bianciardi aggancia con una certa eleganza il baritono istrionico di Bowie (Michele Saran, 6/10)
MARCO GIUDICI - ICPSUBS (42, 2022)
new age
La colonna sonora di Adele Altro per “Limoni” (2021), podcast per il ventennale dei fatti del G8 di Genova 2001, poi raccolta su “Tentativo” (2022), in qualche modo prelude all’esperimento del suo produttore Marco Giudici del mini “ICPSUBS”, acronimo di “Io cerco per sempre un bivio sicuro”, suite meditativa di 17 minuti in quattro brevi parti suonata alle tastiere elettroniche, con la voce e il sax della medesima Altro e le percussioni di Alessandro Cau. Dalla prima parte “Io”, un continuum incolore di toni e vocalizzi aurorali, si passa a una seconda “Cerco”, la più musicata (campane tibetane, batteria rada, duetto di piano e sax), uno pseudo-jazz modale su tono continuo che cerca di raggiungere una certa altura armonica, per poi ridiscendere in serenità al punto di partenza con la terza “Per sempre”, e infine demolire quanto restava di buono con l’ultima “Un bivio sicuro”, una canzoncina da catechismo. Strambo, un po’ anemico progetto-evento (preso dal vivo alla milanese Casa degli Artisti) di premesse brillanti e altalenanti esiti (Michele Saran, 5/10)
LVTVM - IRRATIONAL NUMBERS (Cave Canem DIY et al., 2022)
prog-metal
I toscani Lvtvm si ripresentano coerenti: sempre solo strumentali e di nuovo con la loro configurazione data dai due bassi di Carlo Bellucci e Isacco Bellini, la batteria di Alessandro Marchionni, e tastiere elettroniche, stavolta - unica differenza - rimpiazzando il fratello Mike Marchionni con Matteo Borselli dei Anthelion. Diversità (deludenti) del breve “Irrational Numbers” stanno piuttosto nel risultato. Il pezzo più corto, “Holzwege”, è anche quello più effettivo, sorta di mesto adagio barocco (l’apporto più sostanzioso del nuovo membro) il cui “contrappunto” del caso lo dà l’instabile metalcore di bassi e batteria. Quello più lungo, “Speculum” (ma nemmeno 7 minuti) comincia con toni grandguignoleschi, pure approfonditi in un interludio rarefatto, poi però dispersi in una jam senza mordente. Il resto fa peggio: “Hic Sunt Leones” retrocede goffamente al neo-prog dei Marillion e “Oscillator” ha la stessa “spinta” di una languida ballad pop-metal. Neanche il primo “Adam” (2015) brillava particolarmente, ma ben sette anni e ben cinque label (Cave Canem DIY, Controcanti Produzioni, Drown Within Records, Vollmer Industries, Zero Produzioni) non hanno fatto che un seguito-moncherino, un concept dedicato ai numeri privo di numeri. Di loro ci mettono un interplay misurato, non così inflaccidito (Michele Saran, 4,5/10)
MOSÈ SANTAMARIA - COME I CANI PER STRADA (autoprod., 2022)
songwriter
Dal primo valente “Risorse Umane” (2015) Mosè Santamaria (Verona) imbocca la discesa della scrupolosa aderenza priva di originalità ai recenti dettami dell’it-pop, il semiacustico “Salveremo questo mondo” (2018), ancora qua e là decente, e poi, immancabile, la collosità pomatosa del revival synth-pop misto a neo-soul, per il singolo “Tutto torna” (2020) e il terzo “Come i cani per strada”. Dalla padella alla brace. Risulta pure difficile citare canzoni se non per via di lati negativi o proprio risibili (“Occhi nudi” sembra Baglioni col featuring dei Righeira, “Yoko Ono” si impenna in un non necessario refrain isterico), fatta eccezione al massimo per l’onesta spinta ballabile. Mortificante nei triti arrangiamenti e nei ritriti argomenti nostalgici (con la nonchalance di rito ai gerghi di tendenza). 21 minuti in tutto: a pari merito insulto e grazia (Michele Saran, 3,5/10)