ANAM - DOLPHINS, SCORPIONS AND OTHER CREATURES (autoprod., 2020)
progressive
La vocalist multistrumentista veneta Mirka Valente è una delle voci del coro di “Gobi” da “Tabula Rasa Elettrificata” (1997) dei Csi quando entra nel giro del Consorzio di Ferretti e Zamboni per produrre “Aghar Piar Milegha” (1997) a nome Miraspinosa in collaborazione con Filippo D’Este, dando così il suo contributo alla via italica al world-beat. Dopo una congrua pausa Valente richiama a sé qualche collaboratore dei Miraspinosa per costituire i Shesaid. Chiuso anche quel progetto prende parte al collettivo d’improvvisazione Jus Primae Noctis, dove conosce Francesco De Biasi. Assieme a De Biasi prosegue l’idea improvvisativa di folk etnico a nome SIS, per poi espanderla, richiamando qualche componente dei Shesaid (Mirko Baruzzo, Pierpaolo Enzo), in Anam. Il loro “Dolphins, Scorpions And Other Creatures” raccoglie quattro giganteschi sconfinamenti vocal-strumentali. “Falene” (16:50) è una lunghissima preghiera sahariana accompagnata da un sibillino e instabile contrappunto, che negli ultimi 4 minuti implode in misteriose mareggiate elettroniche. Proprio da questa surreale atmosfera marina emerge l’incantesimo da Maga Circe di “Unica via” (16:05), forte anche di una cristallina sortita para-jazz per vibrafono elettronico e una sorta di deforme conciliabolo vocale. Ibridata mostruosamente tra una boutade creativa alla Canterbury e un tabarin espressionista è invece “Chat Noir Parlant” (13:24), risolta in una coda elegantemente paradisiaca. La più estesa, “Dolphins Are Calling Scorpions For Help” (25:35), è una riverberata sonata dolente per canto sillabato, fiammeggianti virtuosismi di violino, crepitii di organo e chitarra e astratti graffiti di elettronica, da metà scientemente decostruita secondo un pianismo velenoso. Improvvisato sul momento, registrato in presa diretta, tutto missato senza post-produzione. Va iscritto agli estemporanei travelogue para-mistici dei Taj Mahal Travellers questo lavoro libero per durata (con la breve “Ich Warte” di chiusa si arriva all’ora e un quarto) e concezione (strumenti acustici, elettrificati ed elettronici, anche autocostruiti, ma neanche l’ombra di percussioni), ne ha, perlomeno, tutto quel sapido gradiente evocativo fino all’insistenza, l’ipnosi. Ingenuità e sfocature: normali effetti della sua spontaneità. Anticipato dalla sonorizzazione del classico di Buñuel, “Un Chien Andalou” (2020) (Michele Saran, 7/10)
SVNTH - SPRING IN BLUE (Transcending, 2020)
post-black-metal
I Seventh Genocide abbreviano il nome - ora solo SVNTH - senza ridimensionare, fortunatamente, la mole e la potenza della loro musica oscura e impetuosa. “Spring in Blue” è uscito il 28 agosto per Transcending Records, registrato dal vivo a New York insieme a un'istituzione vivente come Colin Marston presso il suo studio (Menegroth, The Thousand Caves). A tre anni da “Toward Akina” (2017) il gruppo capitolino composto dai chitarristi Jacopo Gianmaria Pepe e Stefano Allegretti, Rodolfo Ciuffo al basso e voce e Valerio Primo alle percussioni, incide un lavoro alimentato da profonde riflessioni sulla natura umana. Musicalmente, questo terzo atto discografico si apre con l'introduzione a tinte doom “Who Is the Dreamer?” per poi dipanarsi nei territori post-black-metal/blackgaze cari alla band romana, senza trascurare qualche significativa apertura. Tra i dolenti accordi di “Erasing Gods’ Towers” (un richiamo “in negativo” alla “Luciferian Towers” dei Godspeed You! Black Emperor?), passando per i territori shoegaze di “Chaos Spiral in Reverse” fino al gran finale di “Sons of Melancholia” - terrificante e bellissima come una tempesta romantica. A spiccare però è “Wings of the Ark” (impreziosita dalla voce di Marco Soellner dei Klimt 1918), con quel suo scambio/duello tra furia black-metal e scorci sognanti. Con “Spring in Blue” i SVNTH si confermano passaggio obbligato per lo scenario musicale estremo italiano (Alessio Belli, 7/10)
IDONTEXIST - CRUSH TEST EP (Futura Dischi, 2020)
trap
Angelo Ferrante, classe ’95, Avellino, debutta come idontexist per un primo singolo “Cinema” (2018), con cui è notato dal produttore GiMa che gli si affianca per un secondo “800-797-634” (2018). A partire dal primo Ep “Sempiternal” (2019), oltre che per il singolo di lancio di Canntona, “Gran Torino” (2019), la sigla diventa un trio con l’aggiunta di un altro produttore, Christian “Adler” De Guglielmo. Il secondo Ep, “Crush Test”, è guidato dai singoli “Berghain” e “Crashhh”, il primo un anthem su tempo techno-reggaeton, il secondo una confessione sentimentale languidamente allucinogena invece priva di beat. Li affiancano numeri altrettanto diversificati con buona immaginazione: “Testing”, per pianoforte mesto e melmoso d’elettronica e qualche scampolo di arrangiamento da camera, “Polvere”, più lenta e melodica ma con cut-up di vocalizzi femminili responsabile di un clima purgatoriale, e “Madame”, analogamente “generativa” in senso Cronenberg-iano: le lamentazioni rese quasi inintelligibili dai distorsori sembrano estroflessioni di droni staccati dei synth. Stefano “Losko” Crispino e Andrea Suriani in regia esaltano i talenti versatili in gioco, anzitutto il flow cubista e il crooning elettronico di Ferrante, e poi le graziose scenografie dei comprimari, capaci di evitare gli stereotipi e le banalità del genere (eccezione: “Santandre”). Artwork e concept grafico di Lorenza Liguori (Michele Saran, 6,5/10)
FRANCESCA NAIBO - NAMATOULEE (Aut, 2020)
avantgarde
Dopo aver eseguito il componimento-dedica di 17 minuti a lei stessa riservato di pugno di Marco Colonna per gli “Esercizi di immaginazione” (2020), la chitarrista di ricerca Francesca Naibo riversa una prima trancia di esperimenti solisti per strumento, voce ed elettronica nel suo album di debutto, “Namatoulee”. I primi quattro sono piccole prodezze. “Mae Lougon” è sia un “adagio” per sibili della steppa che un continuum illusionistico alla Ligeti. “Toundaleda” si muove tra i pigolii di un carillon scassato e un sostrato di folk psichedelico supersonico. “Nadare Nura” è in pratica un trio: pause di silenzio, vocalizzi serafici e contrappunto dissonante dell’archetto. “Fadadada” utilizza il fingerpicking tradizionale per mandarlo a una letterale disintegrazione. A questi vanno però aggiunti “Gontenghen” (apice della modulazione del timbro per un poemetto elettronico astratto), “Fron-Ne” (altra incursione nella musica da camera dissonante da cui guizzano infine i suoi flebili lamenti canori) e “Groff” (record di efferatezza strumentale). Veneta (vittoriese) ma rilocata a Milano, diplomata in libera improvvisazione e insegnante di chitarra acustica, Naibo fa un’opera prima frammentaria di schizzi e studi che va di medio-alti e medio-bassi, da cui pur fuoriesce uno spettro compreso tra una selvaggia inventiva e un’aliena scrittura microscopica, tra l’amore per lo stilema folk e la propensione a uno slabbrato gestualismo. Valorizzanti riprese di suono di Stefano Castagna. Consigliabile in special modo a chi conosce Alessandra Novaga (Michele Saran, 6,5/10)
NOVA SUI PRATI NOTTURNI - NOVA SUI PRATI NOTTURNI (Dischi Obliqui, 2020)
post-rock
Massimo Fontana, Giulio Pastorello, Federica Gonzato e Gianfranco Trappolin, ossia i Nova Sui Prati Notturni, come sempre attivi anche nella colta multimedialità, tornano infine al disco di studio con l’omonimo “Nova Sui Prati Notturni” che, però, difficilmente si giustifica per la generosa collezione di ninnenanne slowcore, dalle più catatoniche (“Nervi e sangue”, quasi forgiata sulla “Albatross” di Peter Green, “Una notte”), a quelle senza canto (“Studio e famiglia”), alle più spedite (“Dal deserto”, quasi una versione ambient dei Feelies). Nessuna di queste diffonde un pathos cruciale: forse solo lo stomp Yo La Tengo di “Oggi 2020” e, quasi agli antipodi, il cantico crepuscolare di “Il mantello”. Dallo stesso impasto il complesso ottiene comunque due momenti di ricerca, una “Nokinà” ricavata dal conterraneo Bepi De Marzi e trasformata in dilatata meditazione mantrica post-psichedelica, e “AmT” (acronimo di “Ambiente meccanico Tripartito”), prolungata scorsa aritmica d’impressionismo ultraterreno. Opus numero 6 per la compagine vicentina, una conferma del ritorno in forma pur privo dell’intransigente austerità avanguardista del blog-album videoambientale in collaborazione con Pietro Scarso, “Last Ride” (2018). Netta la preferenza per una forma cantata più omogenea e scorrevole - e dotta - rispetto a “Non Expedit” (2016), fiaccata da armonie vocali (Fontana, Pastorello e Gonzato) troppo timidamente sussurrate. Brani estesi (“Nokinà” è ispirata dagli strazianti resoconti di Auschwitz di Katia Bleier) invece da incorniciare (Michele Saran, 6/10)
FRANK MARTINO DISORGAN - EGO BOOST (Auand, 2020)
jazz-rock
Il chitarrista Frank Martino comincia la carriera solista a tu per tu con il tastierista Claudio Vignali, che occasionalmente co-compone, e con una sezione ritmica, con i vari brani-labirinto “Serial Red”, “Seveneight” e “Nude”, presentati nel debutto “Revert” (2016), incorporando stilemi di nu jazz nordico, jungle e neoclassica cameristica. Il progetto successivo di Martino-Vignali è il Disorgan Trio, senza più basso, con chitarra a otto corde e la batteria di Niccolò Romanin, per un “Level 2 Chaotic Swing” (2018) forte di una “Magnificent Strumble”. Dopo essersi unito ai Los Fermentos di Rosa Brunello per “Shuffle Mode” (2019) Martino amplia il Disorgan Trio a quartetto con l’aggiunta del sax tenore di Massimiliano Milesi. Ne risulta un “Ego Boost” ironicamente più “organico” che “disorganico”, talvolta proprio per la presenza di un sax particolarmente Coltrane-iano, da “Fring” a “Split The Brain”, fino all’elettronica, sincopata e marciante “Trees Of Silence And Fire” (co-scritta proprio da Milesi), a fare da legante. I “soliti” Martino-Vignali dialogano in “5443”, con occasionali rigurgiti jazz-core e un assolo-ologramma di chitarra, “Raving With The Cats”, la più turgida con schegge di suoni vocali, e il drum’n’bass di “Gravy Train”. Nativo in quel di Vicenza, diplomato a Ferrara ove co-fonda e compartecipa ai MOF con colleghi di conservatorio, appassionato di live electronics (anche attivo come Ylyne) con cui manipola in corsa i timbri strumentali, a cominciare dalla sua chitarra che usa spesso anche come un basso funk, Martino al terzo lavoro fa ancora confusione sul piano della composizione ma è sempre più vittorioso come (dis-)organizzatore del suono. Che infatti produce personalmente con rotonda equalizzazione e spiccata attenzione alla dimensione ritmica. Meno gloria nelle melodie: i brani troppo corti, d’altronde, non possono contemplare tutto (Michele Saran, 6/10)
WOWS - VER SACRUM (Hellbones, 2020)
post-metal
Il sestetto veronese dei Wows, ideato e capeggiato dal multistrumentista Matteo Baldi debutta, dopo una breve “Monster Eyes” (2014) di prova, con un “Aion” (2015) che vale proprio per le architetture ambientali del leader. Il secondo “Ver Sacrum” le integra meglio, a cominciare dalla cavatina pianistica di “Elysium” con i bisbigli angelici di Giulia “Julinko” Parin, che ne fa da introduzione, e poi nei 9 minuti di “Mythras”, che inglobano di tutto, dalla corsa supersonica black-metal alla stasi del drone (Baldi ovviamente si occupa proprio di quest’ultima estrema porzione di spettro aurale). Nei pezzi lunghi, maestosi e impegnativi, invece s’impongono viepiù in apertura. I 14 minuti di “Lux Aeterna” cominciano con una lunga intro di rintocchi delle chitarre, a trasportare in volo un recitativo gregoriano svanito, e gli 11 minuti di “Resurrecturis” si aprono su un duetto tra un ticchettio sfumato e miasmi d’elettronica abrasiva. Quanto segue, per entrambe, va per litanie post-metal non così arroventate, sia pur con qualche cambio di tempo vertiginoso. In co-produzione, oltre a Hellbones, con Dio Drone, Shove e Coypu, e nelle mani dell’esperta ingegneria ad hoc di Enrico Baraldi, è un disco tirchio di vera originalità, insistentemente gotico, che quantomeno si erge e imperla di passionalità e drammaturgia nell’esecuzione. Anche in edizione limitata in box ligneo con una cassetta di inediti. Ben più devastante il coevo “Secret Drone Session” (2020) di Baldi a nome Golden Heir Sun con collaboratori (Michele Saran, 6/10)
ORANGE COMBUTTA - VOL. PE I (Irma, 2020)
easy listening
Orange Combutta è la denominazione di un collettivo con base a Bologna fondato dal batterista Giovanni Minguzzi e i comprimari Davide Tardozzi, chitarra, e Lorenzo Serasini, basso. Oltre a loro si alternano quasi una dozzina di musicisti per forgiare il loro primo estratto di studio: “Vol. Pe I”. I brani cantati (Michele Ducci degli M+A) hanno esiti misti. “Dunthe” mette dentro un po’ di tutto: vocalità soul, rap, arrangiamenti orchestrali e armonie del vecchio vaudeville. “Zero Kappa” è revisionismo vintage ancor più esoso (Beck che duetta con gli Air mentre Bacharach ci dà dentro sullo sfondo), ma almeno “Bear” ne è una sua versione più sobria e pure più centrata sulla spettacolarità. I momenti strumentali accusano tutti, chi più chi meno, l’esigua durata e la maniacale tendenza al retrò: dalla lounge vecchio stampo (“Combutta Cares”) all’acid-jazz datato (“Orange Combutta”), fino a una “Into The Woods” che cerca a suon di sincopi forsennate di svecchiare il classico ambience alla John Barry e a una “Senguta Theme” che si rifà al trip-hop ma, di nuovo, solo per retrocedere alle sue sorgenti (Barry, Schifrin, Bacharach, etc). Di queste si salva forse “LCELAM”, tributo iperfrenetico allo space-age pop, sempre però troppo corto per aspirare a qualcosa di più dell’innocuo bozzetto. C’è un certo fascino afferente alle big-band del passato, ma è quello della decalcomania, in questo album tanto espertamente rifinito quanto congenitamente capriccioso, con momenti decurtabili (le chiuse di “Zero Kappa” e “Bear”) o anche dimenticabili (“AAA”), tutto preso in una sua (re)visione di postmodernità, divertente sì e no. Tra i promossi della “combutta”: il fiatista Bertocchi, Vasi al theremin, e il reparto tastiere di Carbone e Squassabia (Michele Saran, 5,5/10)
PANAEMILIANA - PANAEMILIANA (Brutture Moderne, 2020)
latin-fusion
Formato tra 2017 e 2018, il quintetto bolognese dei Panaemiliana (due chitarre, i due ideatori Davide Angelica e Paolo Prosperini, due percussionisti, Manuel Franco e Danilo Mineo, e un contrabbasso, Filippo Cassanelli) confeziona il suo debutto omonimo all’insegna dell’exotica. Nelle varie “Orgas Mambo”, la jazzata “Tredici”, la folkish valzeristica “Requiem F433”, la rumba di “Panaemiliana”, etc, non c’è molto che Ry Cooder e Santana non abbiano già esposto decenni fa, ma “Santa Sangre” si apre con un piccolo saggio di contrappunto nello stile delle “Bachianas Brasileiras” di Villa-Lobos, e “Pernaco” si propone come un’umile incursione nella musica palustre elettroacustica di Hassell. Gradevole sottofondo suonato e prodotto con una certa destrezza, se non per originalità musicale va annoverato per il ritardo stoicamente noncurante rispetto al boom latinoamericano dei 2000, quindi al riparo da pressioni di tendenza e più coscienzioso sul versante della riscoperta. “Panaemiliana” si rifà alla Pan-American Highway, la strada più lunga del mondo. Cameo di Julia Hart (voce in “Requiem F433”) e Pasquale Mirra (vibrafono in “Tredici”) (Michele Saran, 5/10)
MALARIMA - IN EQUILIBRIO (A Buzz Supreme, 2020)
alt-rock
Dopo aver dato vita ai Vidia del frontman Enrico Greppi nei primi 90, Max Rossi (basso), Alberto Agnelli (chitarra) e Riccardo Scianca (batteria) si riuniscono nel 2016 con un secondo chitarrista, Maurizio Gangi, per rinominarsi Malarima e ri-debuttare con il breve autoprodotto “Credere a tutto” (2017). Nel secondo “In equilibrio” questo “neonato” quartetto di Firenze espone ben bene le proprie voglie di ballate quasi-Aor elegantemente radiofoniche, “In equilibrio”, “Dalla mia finestra”, “Frontiera”, e altre a queste sovrapponibili. Praticamente due dischi in un colpo solo: un primo fondato su soundscape folk-rock sdate, senza pretese ma modellate con suggestiva competenza dai due chitarristi e la produzione di Marco Lega, un altro di canzoni ingenue e loffie da far sembrare Ligabue un Mozart. Il secondo inquina il primo (Michele Saran, 5/10)
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Wows |
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Panaemiliana |
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