Trent'anni a suon di rock - Intervista a Federico Guglielmi

di AA. VV.

Nome di punta del giornalismo musicale italiano, con una lunga militanza sulle pagine di "Rockerilla", "Velvet" e "Mucchio Selvaggio", critico, scrittore e produttore discografico, conduttore radiofonico dai microfoni della Rai e oggi direttore del trimestrale "Mucchio Extra", Federico Guglielmi ha voluto festeggiare con noi trent'anni di "servizio". Ne abbiamo approfittato per sottoporlo a un fuoco di fila di domande. Chiedendogli conto di testimonianze, giudizi, tabù e trasformazioni della critica musicale e del mondo del rock. E senza risparmiargli qualche velenosa curiosità...

Trent'anni fa uscì il tuo primo articolo. Ci puoi ricordare di cosa si trattava? E qual è, in assoluto, l'articolo a cui sei più legato?
Si trattava di due recensioni, entrambe uscite sul n.21 del Mucchio Selvaggio: gli album d'esordio di Bizarros e Tin Huey, due band new wave di Akron, Ohio. Ai tempi, 1979, ero in pieno trip per punk e post-punk, e andavo a cercare - non senza fatica - artisti sconosciutissimi. Erano recensioni piuttosto lunghe, attorno alle 3.000 battute ciascuna: scritte correttamente ma troppo didascaliche, puntigliose e prive di fantasia. Però avevo solo diciannove anni ed ero un totale autodidatta, mi sono perdonato.
Per quanto riguarda l'articolo che più mi è caro, la scelta è molto, molto difficile. Dopo averci riflettuto a lungo, direi la recensione di "Hai paura del buio?" degli Afterhours uscita sul Mucchio: mi sbilanciai moltissimo e sono lieto di averlo fatto. Sono poi legato a parecchie interviste: Jeff Buckley, Bobby Gillespie, Billy Corgan, Greg Graffin e Brett Gurewitz, Francesco Guccini.

Hai vissuto "in diretta" un'epoca in cui la passione per la musica era fatta spesso di scelte di campo radicali, a partire dalla famigerata contrapposizione "rock contro discoteca". C'è qualche presa di posizione che rimpiangi di avere fatto in quegli anni? E nella frammentazione dell'attuale era digitale ti capita mai di sentire la mancanza di quella sorta di fede nella "propria" musica, di identificazione assoluta che si respirava allora?
Ogni medaglia ha il suo rovescio, no? Quindi, sì, mi capita di rimpiangere quei giorni in cui le cose erano più "tagliate con l'accetta" e pertanto più semplici da gestire a tutti i livelli; però sono pensieri transitori e comunque sterili, alla fine è meglio accettare il "magnifico casino" attuale e per quanto possibile goderne. Le prese di posizione di quegli anni erano frutto di un clima generale in cui chi ascoltava rock si poneva in antitesi con il "sistema" e la sua musica ritenuta falsa: bisognava scegliere da che parte stare e magari si faceva di ogni erba un fascio. Per mia fortuna, mi sono sempre schierato dalla parte della musica che ritenevo valida, senza pregiudizi di genere, e dunque non mi pare di avere clamorosi scheletri nell'armadio come i colleghi che invece, spesso solo per il gusto della "sparata" sensazionalistica, sposavano violentemente la causa di uno stile specifico e gettavano merda addosso a tutti gli altri: nei 70, quando ero un giovane appassionato e non un addetto ai lavori, "rock" era Rolling Stones e Led Zeppelin ma anche Popol Vuh e Tangerine Dream, Grateful Dead e Fairport Convention ma anche Weather Report e Beaver&Krause, Creedence Clearwater Revival e Jackson Browne ma anche Stooges e Pink Floyd, Black Sabbath e Genesis ma anche Guccini e Battisti, e il mio approccio è sempre stato questo anche se naturalmente cambiavano i nomi. Poi, certo, qualche mitragliata la sparavo anch'io, ma verso bersagli precisi e non nel (ehm...) mucchio.

Più in generale, cosa è cambiato nel modo di fare critica rispetto agli anni in cui hai cominciato a lavorare per il Mucchio Selvaggio?

Parecchie cose. Innanzitutto, trent'anni fa documentarsi era difficilissimo per la carenza di fonti, mentre oggi - con Internet - è esattamente il contrario; con un minimo di tempo e impegno scrivere inesattezze è diventato quasi impossibile, e se in Rete si leggono lo stesso un sacco di cagate, la colpa è della superficialità e del "copia e incolla" passivo. Poi, all'epoca, recensire significava molto spesso presentare dischi quasi sconosciuti e spiegare perché meritavano o no l'acquisto... che, se avveniva, era il più delle volte "a scatola chiusa", solo per fiducia nei confronti del critico di turno; adesso, se vogliamo, c'è meno responsabilità, perché "al buio" non compra più nessuno e dunque il parere della stampa è più orientativo, o al limite serve come riscontro. Inoltre, adesso si dovrebbe essere molto più attenti a quello che si scrive: allora, delle eventuali cazzate si accorgevano in pochi ed era complicato propagandarle, mentre ai giorni nostri - tra siti, blog e forum - si finisce alla berlina in un attimo. Direi anche che oggi, in generale, si tende a curare maggiormente la forma.
Sul piano più pratico, prima le recensioni si scrivevano con calma e avendo in mano il disco acquistato in negozio, oggi con promo orribili - anche in Mp3 - e note quasi sempre ridotte all'osso per la fretta di "arrivare prima"; le interviste si facevano solo all'estero o quando gli artisti capitavano in Italia per un tour, le telefoniche erano rarissime; i riferimenti, in termini di etichette e uffici stampa, erano molto meno numerosi; le riviste vendevano di più e, in proporzione alla quantità di lavoro, i compensi erano più alti. E di sicuro dimentico qualcosa.

Un male diffuso della critica musicale italiana è l'autoindulgenza che si porta appresso, una sorta di complesso di superiorità verso tutto ciò che è nuovo. La conseguenza è che si finisce con l'incensare sempre gli stessi nomi da decenni, e a considerare i nuovi impulsi musicali come figli di un dio minore. Questo nei rari casi in cui ci si accorge in modo compiuto del loro svilupparsi. Ti senti immune da questa osservazione?

Almeno tra i colleghi "anziani" credo di essere senz'altro uno dei più interessati al nuovo, reale o presunto che sia. Certo, trent'anni fa - ma anche venti, o dieci, o cinque - ero più concentrato, non negli ascolti bensì negli argomenti dei quali occuparmi, sulle novità, ma credo sia scontato: per una questione di esperienza e di competenza, sono quasi condannato a trattare molti artisti storici. In campo italiano, però, non ho mai smesso di scrivere, e tanto, di emergenti, un ambito rognosissimo per mille motivi.
Comunque, onestamente, non mi sembra che la critica cosiddetta ufficiale snobbi il nuovo: anzi, a me pare che l'indulgenza sia proprio nei confronti dei giovani artisti, spesso esaltati ben oltre i loro effettivi meriti... un po' per entusiasmo, un po' per assecondare le logiche della continua ricerca delle "next big thing", un po' per autoconvincersi di stare vivendo davvero "tempi moderni nuovi forti interessanti", per dirla con Giovanni Lindo Ferretti. Per come la vedo io, il vero problema della musica di oggi è l'eccesso di offerta che inevitabilmente sposta la qualità media verso il basso, specie per quanto riguarda la creatività: in mezzo ai troppi dischi inutili scoprire i pochi validi è complicato, e non c'è da stupirsi che taluni preferiscano puntare sulle certezze.

Non credi che in questo le riviste su web si rapportino in modo diverso, forse più vicino ai nuovi mezzi d'ascolto della musica e ai loro nuovi ascoltatori?

Mi pare invece che, in linea di principio, le riviste on line sfruttino solo in parte le opportunità offerte dal web, preferendo invece ricalcare gli schemi tradizionali di quelle di carta. Poi, è naturale, adottano per quanto è possibile l'interattività, ma tutto sommato non mi sembrano così tanto rivoluzionarie. Sia chiaro, però, che non ho la minima idea di cosa ci si potrebbe inventare, di radicalmente nuovo: se ce l'avessi, l'idea, la metterei immediatamente in pratica!

Cosa ricordi del modo in cui fu recepito il movimento new wave dalla realtà italiana?

A livello di pubblico, l'iniziale diffidenza poi trasformatasi in un bel consenso di culto, e l'eterna diatriba se i testi dovessero essere in inglese o nella nostra lingua. Per quanto concerne i musicisti, l'entusiasmo con cui molti cercavano di fare propri gli input che arrivavano dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti: c'era molta ingenuità, ma c'erano anche talento e coraggio.

Sul
forum di OndaRock hai spesso affermato che certo pop da classifica, tipo quello proposto dai Duran Duran negli anni Ottanta, sia da considerare futile, specialmente se paragonato a tutta quella musica che ha ben altra caratura artistica. Mi pare, quindi, che tu sia un sostenitore della dicotomia tra musica frivola vs. musica artistica. Qual è, dunque, la discriminante che rende i Duran Duran liquidabili come un gruppo di scarso valore artistico e Carmen Consoli degna invece di essere raccontata in un libro-monografia?
Considerato l'impatto che i Duran Duran hanno avuto sul mondo intero, ritengo che fossero più "degni" di Carmen Consoli di essere raccontati in un libro... e infatti, su di loro, di libri ne sono stati scritti parecchi. Sul piano giornalistico penso che entrambe le storie siano interessanti, e il fatto che io abbia voluto raccontare quella di Carmen Consoli non significa che ritenga "da censurare" quella dei Duran Duran: semplicemente, preferisco la prima ai secondi, soprattutto perché sono convinto che Carmen sia, al di là dei gusti, un'artista di primo piano, pressoché unica per il contesto italiano e nemmeno così "leggera" come molti superficialmente pensano.
Rispetto alla contrapposizione frivolezza-arte, non credo che il pop da classifica sia automaticamente merda: provo però un'istintiva repulsione per tutto quel pop che, seppure ben realizzato, ha la funzione esclusiva di fare arricchire i suoi artefici e soprattutto chi ne muove i fili per il proprio tornaconto... specie quando tutto nasce in modo industriale, senza anima.

Leggendo le pagine del Mucchio spesso si ha la sensazione che da quelle parti i pregiudizi nei confronti del progressive rock siano duri a morire. Possibile che gli unici gruppi prog degni di nota siano i soli Van Der Graaf Generator e King Crimson? Cosa pensi personalmente di gruppi come Yes, Gong, Caravan e Genesis?
Sì, i pregiudizi ci sono e tutto sommato hanno una loro ragion d'essere, nel senso che anch'io - di sicuro il più "moderato", almeno tra i membri più attivi dello staff - trovo talune espressioni del prog davvero insopportabili per ridondanza e onanismo... così come, però, trovo insopportabili gli eccessi kitsch di certo glam, o le pantomime di certo punk.
Personalmente, amo molto gli unici Genesis mai esistiti, cioè quelli di Peter Gabriel, e ancora rinfaccio ai miei genitori di non avermi permesso di assistere al loro storico concerto romano in quanto troppo piccolo. Gli Yes avrebbero forse fatto meglio a sciogliersi dopo "Close To Edge", ma fino ad allora quasi niente da eccepire. Di Gong e Caravan conosco le discografie dei 70, ma su di loro - come sulla scena di Canterbury in genere - è difficile se non impossibile dire meno che bene.

Ci sono delle stroncature di cui ti sei pentito nel corso degli anni?
Mi sono più pentito di certi entusiasmi esagerati, ma se potessi tornare indietro nel tempo non scriverei - per esempio - due-righe-due piuttosto stupide, all'interno di un articolo riepilogativo, a proposito di "London Calling" dei Clash, una recensione decisamente non positiva su "Lysergic Emanations" dei Fuzztones e una tiepidina sul primo album della Jon Spencer Blues Explosion. Altro non ricordo, ma di sicuro ci sarà...

Quali sono i colleghi che apprezzi di più? E quelli che invece non sopporti? Mi risulta ad esempio che ci sia una certa ruggine tra te e Scaruffi... credo che non abbia gradito i tuoi giudizi sulla sua Storia del rock.
Se parliamo di apprezzamento professionale, lasciando perdere le questioni personali, per quello che scrivono e come lo scrivono, i miei preferiti in assoluto sono Eddy Cilìa, Stefano Isidoro Bianchi e Riccardo Bertoncelli. Sul fronte opposto non digerisco Christian Zingales, che ha un'ottima penna ma che troppo spesso sembra calcare esageratamente la mano per voglia di protagonismo, e naturalmente il Sommo Tuttologo Scaruffi, ovvero l'egotismo fatta persona. Non so se lui non abbia gradito i miei giudizi - cosa che, sia chiaro, mi auguro fortemente - a proposito dei suoi scritti, con lui non ho mai avuto alcun tipo di contatto e spero di non averne mai.

Secondo te il rock è morto? E, se sì, chi lo ha seppellito?
Il rock, qualunque sia il significato specifico che si vuole attribuire alla parola, sembra godere di ottima salute, non solo nella forma ma anche nella sostanza. Chi ha dubbi in merito si ascolti, ad esempio, i Tinariwen, magari leggendo anche la loro storia.

Tu sei un grande esperto di punk, movimento considerato giustamente rivoluzionario. Saresti disposto però a inquadrarlo da una nuova prospettiva, e cioè come un ritorno reazionario (e non rivoluzionario) alla forma-canzone semplice e grezza che fu del rock degli anni Cinquanta, come opposizione quindi alle sperimentazioni ardite a cui tante band d'avanguardia erano giunte a metà anni Settanta?
"Reazionario" e "rivoluzionario"... è nato prima l'uovo o la gallina? Scherzi a parte, se il r'n'r delle origini fu una rivoluzione, e senza dubbio lo fu, perché il punk - che, in sintesi, voleva riallacciarsi proprio ai suoi primordi più selvaggi e "pericolosi" - dovrebbe essere considerato diversamente? Poi, sì, volendo si può anche parlare di "reazionarietà", ma non bisogna dimenticare che il punk non era solo uno stile musicale bensì una forma di espressione legata anche al sociale e all'arte.

Una volta hai scritto che "Il testamento di Tito" era la tua personale "Anarchy in the Uk" Qual è stato il tuo rapporto con De André e cosa ne pensi del modo in cui il cantautore genovese viene ora ricordato?
Fabrizio De André è stato l'artista che mi ha introdotto alla musica "seria", grazie ai dischi della mamma di un mio compagno di scuola che ne era appassionatissima: è partito tutto da lì, doveva essere il 1971 perché ricordo benissimo che era uscito da poco "Non al denaro, non all'amore né al cielo". Ho il rimpianto di non averlo mai incontrato, il bel ricordo delle varie volte che l'ho visto dal vivo - anche nello storico tour con la Pfm - e le emozioni che le sue canzoni continuano a darmi ogni volta che le ascolto, benché le conosca praticamente tutte a memoria. Mi fa uno strano effetto, oggi, vederlo celebrato come un qualsiasi "normale" cantante, quando lui era un artista davvero scomodo, trasgressivo, difficile da maneggiare... uno che andava "in direzione ostinata e contraria" e che sfuggiva a qualsiasi omologazione.

Per chi è giovane nel 2000, le immagini di Venditti, De Gregori e altri che subiscono un "processo politico" sul palco di un concerto negli anni Settanta sono pura fantascienza. Come giudichi le pressioni subite allora dalla scena musicale?
I 70 sono stati anni strani e, sì, mi rendo conto del fatto che certe cose all'epoca "normali" possano oggi sembrare a dir poco pazzesche. In quei giorni, quando la politica era una questione maledettamente seria e faceva parte della vita di tantissimi ragazzi, i cantautori impegnati erano reputati simboli importanti della Sinistra e quindi venivano sottoposti a critiche anche feroci. Magari si esagerava, d'accordo, ma l'idea che certi personaggi pubblici - che si erano comunque esposti - dovessero "render conto" di eventuali contraddizioni non mi sembra poi così sbagliata. In questo mondo di voltagabbana e di qualunquismo all'eccesso, un minimo di "richiamo all'ordine" e di ritorno all'impegno non sarebbe male.

Il Mucchio ha una particolare predilizione per Springsteen, che nella lista dei 500 dischi fondamentali della storia del rock stilata da Extra conta ben cinque titoli. Al di là dello spessore del personaggio, non hai paura che la testata sulla quale scrivi possa peccare di indulgenza critica verso il Boss?
Storicamente parlando, non posso negare che Il Mucchio abbia avuto un atteggiamento a volte troppo benevolo, ma negli ultimi anni non siamo stati granché teneri con il Boss... che, al di là dei passi falsi, resta comunque artista e uomo meritevole di stima e rispetto. Riguardo al libro, non bisogna dimenticare che si trattava di una raccolta di articoli a schede, ciascuno dedicato a un decennio, apparsi su cinque diversi numeri di Extra: insomma, la lista era in realtà un insieme di liste con dei vincoli ineludibili, e non un unico elenco organico. Abbiamo scelto "The Ghost Of Tom Joad" per i 90, e ci sta; "Nebraska" per gli 80, e credo nessuno possa avere da ridire; semmai si è esagerato nei 70, inserendo sia "Born To Run" che "Darkness On The Edge Of Town" e "The River", ma lasciar fuori uno di questi tre - contando che si trattava del Mucchio - era improponibile.

Cosa pensi delle sfuriate isteriche di Max Stefani nei confronti della religione? Credi siano funzionali alla politica editoriale del Mucchio Selvaggio?
Più che con la religione in sé Max ce l'ha con il clero, e io sono con lui al 100%. Sono ormai decenni che Il Mucchio non è una rivista di sola musica, e che si pone in modo scomodo: di Max non condivido tutta la "visione" e magari il linguaggio, ma è un dato incontrovertibile che quel tipo di approccio sia uno dei tratti distintivi della rivista. Se va avanti così dagli 80, e il Mucchio c'è ancora e vende comunque benino, credo proprio che, sì, siano funzionali.

Non pensi che sia stato un po' da paraculo tornare al Mucchio fallita l'avventura Velvet, dopo che con proprio con quel giornale (e con la società Essediemme) gli avevi apertamente dichiarato guerra e fatto concorrenza? E con il Mucchio Extra non cerchi di trovare un altro modo per emanciparti ancora una volta da Stéfani?
Di mia iniziativa non avrei mai ribussato alla porta del Mucchio, ci sono rientrato - dopo lunghe session di chiarimenti - perché Max mi ha chiesto di farlo e mi ha dato precise garanzie che avrei potuto lavorare in modo sostanzialmente autonomo, fatti salvi i sacrosanti confronti dialettici. Dal 1996 a oggi ci sono stati alcuni scontri, credo sia normale anche alla luce dei bei caratterini di entrambi, ma nella sostanza quella promessa è stata onorata. Extra è una rivista ideata da me e pubblicata, come il Mucchio, dalla Stemax; la gestisco senza ingerenze e non vedo perché dovrei emanciparmi, mi va benissimo così.

Immagino che tu ti senta un critico autorevole. Da cosa proviene la tua autorevolezza? È più una questione di esperienza o di capacità di analisi?
Premesso che alla definizione "critico autorevole" preferirei quella di "bravo giornalista", penso che tale autorevolezza derivi dal fatto che mi si riconoscano esperienza e conoscenze musicali, unite alla capacità di analisi e a una certa piacevolezza di scrittura. Ovviamente questo non mi rende infallibile, tutt'altro, ma l'aver vissuto intensamente e in una posizione privilegiata gli ultimi trent'anni di rock e dintorni, e soprattutto il continuare a farlo con i piedi ben saldi nel presente, dovrebbe conferirmi credibilità.

Hai mai ricevuto "pressioni" da parte di etichette affinché un disco ricevesse una recensione positiva?
Se nelle "pressioni" si comprendono anche le richieste non vincolanti di favori, accade più o meno ogni giorno: il "mi dai una mano?" è un classico di etichette, distributori e uffici stampa. Adesso, comunque, più che recensioni positive vengono chieste semplicemente recensioni, magari recensioni più in evidenza delle altre, e interviste. È normale, non ci vedo nulla di strano. In misura minore, ho però visto anche ritorsioni - sotto forma di mancati acquisti di inserzioni pubblicitarie - per recensioni negative. Per quanto mi riguarda, nessuno mi ha mai offerto soldi né minacciato... e se a volte sono stato più indulgente di quanto forse avrei dovuto, l'ho fatto per eccesso di bontà, magari dovuta all'apprezzamento globale del percorso di un'artista o di un'etichetta.

Come vedi l'informazione musicale del futuro? Quale sarà il mezzo privilegiato (webzine, blog, riviste cartacee, tv, web radio etc.)? E, se sopravviverà, come credi che dovrà cambiare l'informazione di tipo "tradizionale", che sia quella dei magazine cartacei o anche quella delle webzine più orientate su quel modello?
L'informazione sarà essenzialmente sul web, con un maggiore sfruttamento delle possibilità interattive insite nel mezzo. Dubito che le riviste di carta scompariranno del tutto: di sicuro si ridurranno di numero e punteranno più all'approfondimento e al "filtraggio ragionato" delle troppe proposte in circolazione.

Hanno partecipato: Claudio Fabretti, Antonio Ciarletta, Francesco Nunziata, Salvatore Setola, Marco Bercella, Gabriele Benzing, Gianni Candellari, Lorenzo Salzano.