Peter Gabriel

So, il miracolo mainstream dell’arcangelo rock

Da arcangelo del progressive a guru del nuovo pop-rock elettronico di metà anni 80, infine profeta delle contaminazioni globali della world music. Una metamorfosi radicale e temeraria, quella di Peter Gabriel, che solo pochissimi artisti – da Brian Eno a David Bowie - come lui sono riusciti a portare a termine in modo coerente, senza disperdere l'aura di rispettabilità conquistata presso la critica. Perché, nel rock, il cambiamento frequente e radicale è spesso considerato sinonimo di superficialità o di opportunismo, come se si trattasse di una scorciatoia per chi è ormai a corto di idee. Non è mai stato, però, il caso del compositore inglese, che ha fatto proprio dell'eclettismo e dell'abbattimento di ogni barriera tra generi (e mondi musicali) la sua ragion d'essere artistica.
Se da leader dei Genesis aveva saputo creare una peculiare forma di art rock progressivo dalle forti tinte teatrali, suggellata anche sul palco dai suoi variopinti costumi (incluso il celebre fiore), da solista Gabriel non è stato da meno. La sua ambiziosa ricerca sull'integrazione tra rock, elettronica e world music lo ha portato a realizzare dischi sempre innovativi e sperimentali – anche quando sfacciatamente pop - destinati a lasciare un solco profondo sulle generazioni successive. Artista impegnato in ambito sociale e politico oltre che musicale, autore di opere e spettacoli teatrali, l'ex-leader dei Genesis ha inoltre contribuito, attraverso la sua etichetta Real World, a far conoscere al pubblico le opere di musicisti "etnici" provenienti da ogni angolo del globo con una particolare attenzione al Terzo Mondo.

Quattro pilastri per una svolta

La storia è nota. Abbandonati i Genesis proprio al culmine della loro fama, con il batterista Phil Collins pronto a subentragli alla voce, Peter Gabriel intraprende la sua avventura solista a partire dall'omonimo album del 1977, primo di quattro capitoli di una nuova storia intitolati semplicemente con il suo nome e relativi numeri.
Il primo - detto anche Car secondo una denominazione non ufficiale – è prodotto da Bob Ezrin e impreziosito da musicisti stellari come sua maestà cremisi Robert Fripp e Tony Levin, importante collaboratore degli Yes e dei King Crimson. Un disco che conserva alcune tracce dei Genesis, con passaggi sonori solenni e impetuosi, ma in generale muta sound, virando verso nuovi orizzonti elettronici e meno barocchi, con almeno due instant classic come la toccante “Solsbury Hill” e quella “Here Comes The Flood” griffata dalla chitarra immortale di Fripp.
Il leader dei King Crimson è anche l'ispiratore del secondo disco, “Peter Gabriel II”, detto anche Scratch per via della copertina che raffigura Peter intento a graffiare con le unghie una sua immagine: un lavoro più oscuro e sperimentale, che rinuncia alle sonorità prog e anche alle hit, in favore di un sound più scarno e urbano, con voci distorte, riff abrasivi e abbondante ricorso al Fairlight, il synth-computer che caratterizza gran parte degli arrangiamenti.
Il terzo capitolo, "Peter Gabriel III" (1980), noto anche come Melt, per la copertina con il viso del musicista in dissoluzione, vede al fianco dell'ex-Genesis il chitarrista David Rhodes e alla console il produttore Steve Lillywhite, discepolo prediletto di Brian Eno; riappare anche l'ex-sodale Phil Collins, che usa qui per la prima volta (su “Intruder”) quel gated reverb sulla batteria che avrebbe poi riproposto nella sua immortale hit “In The Air Tonight”. Il vertice è però la filastrocca stralunata e antimilitarista di “Games Without Frontiers”, in cui affiorano i vocalizzi acrobatici di Kate Bush, alla sua prima collaborazione con l'amico Peter. Biko sarà invece il primo, grande inno politico gabrieliano (contro l’apartheid in Sudafrica).
A chiudere la quadrilogia, il successivo “IV” - passato alla storia anche come Security - ovvero il personale contributo di Gabriel alle lotte per l’identità, la libertà, l’uguaglianza portate avanti in mezzo mondo. Il brano-simbolo è "San Jacinto", un luogo immaginario, una finzione artistica; proprio come lo è la world music secondo il musicista di Chobham. Ma a trascinare l’album al successo, anche negli Stati Uniti, sarà soprattutto l’incalzante singolo "Shock The Monkey", divertente apologo sugli istinti umani che Gabriel eseguirà anche al Festival di Sanremo in una celebre performance, con tanto di volo sulla liana a mo’ di Tarzan, culminato in una fragorosa schienata contro il palco.

“IV” apre le porte al boom della world music, esercitando un'enorme influenza su molti altri territori musicali grazie al suo rivoluzionario uso della strumentazione, Era il 1982: due anni prima, Gabriel aveva dato vita al WOMAD (World of Music, Arts and Dance), festival indipendente per la promozione della diversità culturale tramite la musica. Sette anni dopo, nel 1989, fonderà invece la Real World Records, ancor oggi casa-madre di una lunga serie di progetti che uniscono artisti di tutto il mondo e di ogni estrazione musicale. È in questo periodo che inizia anche a comporre colonne sonore per il cinema. Una delle più ambiziose è quella incisa per “Birdy” di Alan Parker (1985), insieme a Jon Hassell (uno dei padri della world-music), Larry Fast, David Rhodes e Tony Levin. Una strada tracciata verso sperimentazione e world music? Niente affatto. Perché l’arcangelo del rock non rinuncia a fare nuovi miracoli. E lo shock, stavolta, non sarà per la scimmia ma per il pubblico che ne aveva seguito la parabola fino a quel momento.

Slave to the rhythm

Peter Gabriel - SoChissà se a spingere Peter Gabriel verso il pop sarà stata anche la “Collinsmania” che imperversava a metà del decennio Ottanta. Certo è che nessuno degli ex-Genesis si sarebbe mai aspettato un successo travolgente come quello che il batterista-cantante di Chiswick stava ottenendo in quel periodo, con una messe di hit prodotte a ciclo continuo (“In The Air Tonight”, “You Can’t Hurry Love”, “Easy Lover”, “One More Night”, “Against All Odds”, solo per citarne alcune). “Chi lo avrebbe mai immaginato”, sarà l’ironico commento del bassista Mike Rutherford.
Insomma, il successo dell’infaticabile batterista, con il quale – come si è visto - Gabriel aveva anche collaborato da solista, rischiava di oscurare l’ex-leader di quei Genesis che lo stesso Collins stava traghettando in quegli anni verso insospettabili lidi pop-rock. E così la stampa e il pubblico del Regno Unito si divertivano a stimolare una competizione tra i due. Senza immaginare nemmeno, però, che su quel ring, consapevolmente o meno, alla fine Gabriel sarebbe sceso davvero. Piazzando un colpo da ko tecnico.

Superata una difficile fase familiare – tra una intensa relazione con l’attrice Rosanna Arquette e terapie matrimoniali per rimettere insieme i cocci del rapporto con la moglie Jill – l’artista inglese si dedica al lancio del suo quinto album, che sarà anche il primo ad avere un titolo vero e proprio, seppur senza particolare dispendio di lettere. Solo due: “So”. “Un anti-titolo... volendo potrebbe essere più un pezzo di grafica, piuttosto che qualcosa con significato e intenzione. E questo è ciò che feci da allora”, spiegherà Gabriel, rinnovando la sua avversità per i titoli discografici che, a suo dire, distoglierebbero lo sguardo dalle immagini di copertina. Un titolo apparentemente senza pretese, dunque, che rifletteva però la particolare intensità che il compositore inglese aveva profuso nel nuovo progetto, dopo aver fatto il possibile per risolvere i suoi problemi personali.
Così vanno le cose, dunque, nell’anno 1986, per il musicista inglese. Ovvero come sempre, continuando a dimostrare come la profondità e l'originalità di un artista non si misurino solo nel suo campo d'elezione, ma siano una dote preziosamente declinabile anche oltre le più imprevedibili frontiere.

Accreditato come profeta del rock politico e della world music più incompromissoria, Gabriel si mette così a flirtare con il pop mainstream, supportato in cabina di regia da Chris Hugues e Daniel Lanois. “'Birdy' era un lavoro basato essenzialmente su trame e suoni e io stavolta desideravo concentrarmi più sulle canzoni, essere più allegro e meno misterioso – racconterà il musicista inglese - Uscivo da un periodo buio e dovevo cercare di aprirmi al mondo”. E riuscirà nell’impresa coronando un’altra delle sue spettacolari trasformazioni. Alle prese con canzoni pop orecchiabili, melodiche, ossessivamente accattivanti, Gabriel si confermerà incapace di partorire prodotti banali e scontati.
Del resto, a garantire un’aura di rispettabilità all’album era già la pattuglia di ospiti e musicisti coinvolti, testimonianza tangibile della credibilità e del carisma di Gabriel presso la scena musicale dell’epoca: i soliti Jerry Marotta, Tony Levin, David Rhodes, lo straordinario batterista francese Manu Katché, una sezione fiati guidata da Wayne Jackson, e ancora L. Shankar, Richard Tee, Stewart Copeland (batterista dei Police), Kate Bush (già apparsa, come visto, su “III”), Jim Kerr dei Simple Minds e Michael Been dei Cali (con i quali aveva già cantato in “Everywhere I Go”). Una prestigiosa équipe che contribuirà a fare di “So” un album comparabile per la profondità dei tempi e per la ricchezza del linguaggio al contemporaneo “The Dream Of The Blue Turtles” di Sting.
Gabriel li porta tutti... a casa, organizzando le registrazioni presso il suo studio casalingo in una villa di campagna nel nordest di Bath, nel Somerset. Uno studio di registrazione economico, allestito nel fienile adiacente alla casa, composto da due stanze, una in cui Gabriel avrebbe registrato la sua voce e lavorato sui testi, e un'altra dove sarebbe invece stata assemblata la musica. Ad accompagnarlo nelle session, anche il suo fido sintetizzatore Fairlight CMI, già utilizzato nel quarto album.

Grande protagonista di “So” è il ritmo, che imprime una svolta non solo alla carriera dell’ex-Genesis, ma allo stesso corso del pop degli anni 80, che pure di pulsazioni elettroniche e battiti incalzanti si era abbondantemente nutrito fino a quel momento. Come scrive Giampiero Vigorito su Rockstar, “C'è tanta tecnologia quant'anima. E quest'anima si chiama ancora ritmo. Un ritmo potente che finisce per colmare tutto lo spazio sonoro con la regolarità di un battito cardiaco, la profondità di un incantesimo ripetuto all'infinito, la semplicità e l'efficacia di un gesto proveniente dal fondo del tempo. Gli otto pezzi che contiene sono altrettanti inni al futuro, delle ballate sincopate che gettano un ponte verso gli anni 90”. Già, perché la genialità di Gabriel – similmente a quella di Bowie, a pensarci bene - sta nel non sottrarsi all’abbraccio con le tendenze musicali del momento, trasformandolo però in un lungimirante sguardo gettato sul futuro. “So” è un disco perfettamente calato nello scenario synth-pop che ha dominato gli Eighties, ma altrettanto libero dai suoi dogmi e proiettato in tutto ciò che avverrà nel decennio successivo. Forse anche per questo conoscerà una significativa rivalutazione negli anni successivi: nessuno, all’epoca, si era accorto di quanto fosse avanti rispetto alla contemporaneità.
Ascoltare per credere l'iniziale “Red Rain”, cupa profezia avvolta in dense coltri di elettronica, con la batteria tempestosa di Copeland e un sound mai così complesso e stratificato, che infatti il suo autore faticherà a tradurre in versione live nei successivi tour. Gabriel sfodera il suo registro più alto e aspro per inscenare una nuova avventura-incubo di Mozo, lo straniero vagabondo che era apparso nei suoi due primi lavori solisti: “I am standing up at the water's edge in my dream/ I cannot make a single sound as you scream…/ Red rain is coming down”. Ed è proprio da un sogno ricorrente dell’autore, in cui il mare diveniva rosso per il sangue versato dagli uomini, che il brano prenderà forma. “La storia costruita su quell'immagine – racconta il suo biografo Chris Welch in “La vita segreta di Peter Gabriel” - prevedeva che il mare rosso e la pioggia rossa fossero altrettanti simboli dei pensieri e dei sentimenti repressi nella società umana. La pioggia rossa era il sangue versato quando i sentimenti di dolore e rabbia ristagnavano nella psiche umana senza trovare uno sfogo”. Un progetto, quello di “Red Rain”, che risaliva addirittura agli anni 70, all'epoca dell’abortito progetto Mozo, insieme ad altre canzoni che furono poi distillate nei singoli Lp di Gabriel, ovvero “Here Comes The Flood”, “Down The Dolce Vita”, “On The Air”, “Explosure” e “That Voice Again”. Quest’ultima, tre le preferite di Gabriel, chiude il lato A del 33 giri con una riflessione sulla frase “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”: “Oh, I'm hearing right and wrong so clearly/ There must be more than this/ It's only in uncertainty/ That we're naked and alive”. La canzone doveva intitolarsi proprio “First Stone”, ma alla fine Gabriel preferì rinunciare all'ovvia allusione biblica per la stesura del testo definitivo, realizzato assieme al chitarrista David Rhodes per un brano infarcito di Fairlight che esplora il tema della coscienza morale, prendendo in esame le “parole dei genitori nella nostra testa che ci possono sia aiutare che distruggere”.

“Red Rain” resterà il brano più cupo dell’album assieme a “We Do What We're Told (Milgram's 37)”, un episodio quasi interamente strumentale, innervato da un’elettronica paranoide, che – racconta Welch - fu ispirato a Gabriel da resoconti di inquietanti esperimenti compiuti negli Stati Uniti. “Alcuni studenti ricevevano l'ordine di infliggere dolore ai pazienti in laboratorio e veniva spiegato loro che si trattava di un metodo legittimo. In genere, gli studenti non interrompevano il trattamento nemmeno quando le vittime sembravano giunte al limite estremo della sopportazione. Naturalmente il soggetto dell'esperimento erano gli stessi studenti, mentre le vittime erano semplici attori che simulavano agonia. Il professor Stanley Milgram, capo del progetto, voleva verificare fin dove gli uomini potessero spingersi nell'obbedire agli ordini, ricreando in laboratorio le condizioni in cui si erano trovate le guardie nei campi di prigionia in tempo di guerra”. Le parole del brano – il più atmosferico del disco - si riducono alla ripetizione ossessiva del grido “We do what we're told”, che sfocia poi nella strofa “One doubt, one voice, one war, one truth, one dream”. Musicalmente è un piccolo gioiello: la batteria di Jerry Marotta che lo scandisce è stata definita simile a “un battito cardiaco sentito dal grembo materno”, gli arrangiamenti sono impreziositi dal violino di L. Shankar e da due tracce di chitarra sovraincise di Rhodes.

Sfida sul Phil di lana

La creazione come “terapia” è il fil rouge del disco, e il singolo “Sledgehammer” condensa tutta la nuova fiducia e la virilità ritrovata di Gabriel. Commerciale? Certo che sì, ma con quell'inflessione rhythm'n'blues che fa la differenza, ispirata dalla musica di Otis Redding, con il trombettista Wayne Jackson a suonare i corni, con quel flauto bamboo Shakuhachi a spiazzare e con un ritmo che è esso stesso un martello, per una beffarda e fin troppo esplicita profferta sessuale (“I wanna be your sledgehammer... come on help me do"). Lanciato sul mercato un mese prima dell’album, il brano è una sorta di parodia in chiave funky delle vecchie passioni soul e r’n’b del suo autore. Una hit in piena regola, che fa storcere il naso ai vecchi fan più tradizionalisti, ma porta alla corte di Gabriel svariati nuovi ammiratori, conquistando anche per una settimana la vetta della classifica degli Usa (primo e unico singolo di Gabriel capace di raggiungere il n.1 della Billboard Hot 100, spodestando per coincidenza “Invisible Touch”, che fu a sua volta il primo e unico singolo degli ex-compagni dei Genesis ad aver ottenuto la testa della stessa classifica) e vendendo almeno un milione di copie in tutto il mondo.
A contribuire in modo significativo al suo successo sarà anche lo straordinario clip, una pietra miliare delle tecniche di animazione applicate alla videomusica. Diretto da Stephen R. Johnson, già al lavoro con David Byrne dei Talking Heads, lo straniante e iper-velocizzato video è giocato sulla tecnica della pixellation, che consiste nel proiettare ad alta velocità una sequenza di frame per dare l'illusione di un'animazione umana. Peter, così, finisce attorniato da frutti volanti, creazioni in plastilina di David Daniels e perfino da un modellino di treno a vapore! Quasi un cortometraggio, girato in otto giorni, con la firma della Aardman Animations, che in seguito creerà la famosa serie “Wallace e Gromit”. Il risultato finale, frutto di un budget di 100.000 sterline, sarà un'opera geniale, premiata con nove Mtv Video Music Awards 1987 e un Brit Awards 1987 (nello stesso anno Gabriel riceverà anche il Video Vanguard Award alla carriera). “Sledgehammer” risulta tuttora il video più trasmesso nella storia di Mtv.

E che cosa distingue il funk-pop di “Big Time” da una qualsiasi hit da classifica? Forse quella ritmica sincopata, che deraglia impazzita, con Levin a schiacciare le corde del basso fretless, mentre Marotta le colpisce con le bacchette della batteria; oppure quella voce straniante che incalza o ancora quelle soluzioni sonore pronte a spiazzarti dietro il più semplice dei refrain (alternando la tonalità di La minore nel ritornello a quella di La maggiore nelle strofe), oltre a un testo che è un dissacrante apologo sul successo e sul consumismo. Con la sua tipica auto-ironia beffarda, il Gabriel di “Big Time” mette alla berlina proprio quel genere di fama che stava ottenendo, con i ricordi delle sue origini provinciali e l’affondo satirico sul “Big Time operator”, l'operatore del successo: “The place where I come from/ Is a small town/ They think so small/ They use small words/ But not me… I had it my bed made like a mountain range/ With snow white pillows for my big fat head”. E poi quelle allusioni sarcastiche alla crescita di tutto il suo mondo, incluso il conto in banca: “My cars gettin' bigger… My house gettin' bigger… My bed's gettin' bigger… And my bank account”. “La canzone parla del successo come scopo di una vita – spiegherà Gabriel - Mi ci sento invischiato. La brama di successo è qualcosa che non mi piace, eppure non riesco a rinunciarvi”.
“Sledgehammer” e “Big Time” sono anche due divertiti omaggi a quell’universo soul e rhythm’n’blues che aveva appassionato Gabriel da ragazzino e al quale aveva pensato di dedicare un apposito album di cover. Anche per questo la produzione di Lanois, appena reduce dalla fortunata collaborazione con gli U2 in “The Unforgettable Fire”, punta a enfatizzare le squillanti sezioni di fiati, relegando in secondo piano effettistica e altre sonorità. “Naturalmente le canzoni sono piene di metafore sessuali – ricorderà divertito il musicista di Chobham - La vecchia tradizione blues a cui mi sono ispirato è basata sul tema dell'accoppiamento, la mazza (Sledgehammer, ndr) è protagonista di una piccola festa di ringraziamento per il raccolto”.
Si rabbuierà, invece, l’ex-Genesis quando qualcuno gli farà notare qualche affinità di troppo con lo stile dell’ex-compare Collins: “Non è stata una scelta deliberata, ma sapevo che usando una sezione fiati avrei dato adito a paragoni con Phil. Fin dai tempi della scuola, tuttavia, il soul dei dischi Atlantic e Stacks ha avuto un'influenza decisiva sulla mia formazione. Rispetto la musica di Phil e desidero che le mie canzoni raggiungano un pubblico più vasto possibile”. Un’altra volta, però, sbotterà, visibilmente infastidito: “Adesso basta! All'epoca del mio terzo album, la musica di Phil subì notevoli cambiamenti stilistici, ma nessuno fu così onesto da ammettere la mia influenza”.

Fata consolatrice

Ma non è solo una festa, tra i solchi di “So”. C'è sempre il Gabriel più contrito e intimista. Ad esempio, quello che si siede al piano per intonare la desolata “Mercy Street”, mettendo a fuoco il tema della scrittura come terapia, una delle idee unificanti dell’intero album. A fornire l’ispirazione era stata la raccolta di poesie “45 Mercy Street” che la poetessa Anne Sexton, aveva cominciato a scrivere su suggerimento dei medici dopo il ricovero in una clinica psichiatrica e che era stata poi pubblicata in un'antologia postuma. Peter era rimasto colpito dalla lettura di quei versi, pieni di immagini oniriche e dominati dalla costante ricerca della figura di un padre ideale, dottore, prete o Dio che fosse: “Grazie a quella ricerca, Anne visse più a lungo di coloro che la circondavano – racconterà - La sua vita acquistò un senso e ora il suo lavoro serve agli altri per continuare a sperare”.
Ma anche in una ballata apparentemente lineare e classica come “Mercy Street” si nasconde il germe della sperimentazione etnica. Il brano, infatti, è incentrato su una delle numerose composizioni forró (danza tradizionale del Nord-Est del Brasile, ndr) che Gabriel aveva registrato a Rio de Janeiro, riprodotta a una velocità del dieci per cento più lenta rispetto all'originale, in modo da restituirle una qualità sonora granulosa che secondo il suo autore evidenziava meglio i piatti e le chitarre. Impregnata di spezie etniche è anche l’altra ballata di “In Your Eyes”, gemma afro polifonica, in cui il timbro vocale soffuso di Gabriel, scandito da un rullo di tamburi, è affiancato dai vocalizzi scat del senegalese Youssou N'Dour, che canta nella sua lingua madre. Lo spunto è da ricercare proprio nelle tradizioni delle canzoni d’amore senegalesi, dove l'amore per la propria donna si mescola a quello per Dio, in una fusione speciale di sacro e profano.

Ma il vertice emotivo di questo lato più intimista e riflessivo di “So” è tutto nell’abbraccio (non solo metaforico, vedasi videoclip) tra Peter Gabriel e Kate Bush nel memorabile duetto di “Don't Give Up”. Tra i pattern ritmici dei tamburi tom-tom e il basso pulsante di Tony Levin, i ruoli sono ben definiti: Peter nella parte dell'uomo sconfitto e sfiduciato (“I am a man whose dreams have all deserted… no-one wants you when you lose”), Kate a impersonare la fata consolatrice, forte e rassicurante (“You worry too much/ It's going to be alright… Don't give up”). Un confronto sentimentale di straordinaria intensità dietro al quale si celava un sottotesto sociale: la critica alla premier Margaret Thatcher, rea di aver provocato un aumento della disoccupazione nel Regno Unito. Anche se lo spunto originario del brano è da ricercare in una foto, quella della “Migrant Mother” di Dorothea Lange, che ritraeva una donna e un bambino durante la grande depressione americana degli anni 30. Una ballata semplice e profonda che commuoverà mezzo mondo e sarà insignita con l’Ivor Novello Award.
Curiosa anche l’evoluzione musicale del brano: “Don’t Give Up” nasce infatti come una ballata country (non a caso venne inizialmente proposta a Dolly Parton) ma, temendo che si rivelasse stucchevole, il suo autore deciderà di stravolgerla, aggiungendo una voce femminile con altre peculiarità.
Kate Bush non è l’unica presenza femminile a illuminare il disco. Nell’ipnotica traccia conclusiva “This Is The Picture (Excellent Birds)” irrompono anche gli stralunati vocalizzi di Laurie Anderson a dar man forte a Gabriel in un pezzo schizoide e pittoresco, che la compositrice americana aveva già registrato assieme a Gabriel per il suo album “Mister Heartbreak” nel 1984, con il contributo alla chitarra di Nile Rodgers degli Chic. Rimasto fuori in extremis dalla prima edizione in vinile dell’Lp, il brano sarà inserito in tutte le versioni successive.

So in love

“So” è dunque il disco che trasforma definitivamente Peter Gabriel in rockstar planetaria, in un’epoca in cui forse era anche più facile diventarlo, il dorato decennio 80 di Mtv e dei grandi investimenti discografici. Ma anche quella che può apparire una “normalizzazione” del suo stile non abdica alle ambizioni sperimentali, con suoni ricercati ed esotici al servizio di tematiche sociali e spunti riflessivi. Pur pienamente radicato nel suo periodo, con quei sassofoni a tutto volume, il gated reverb sul rullante, i tom-tom elettrici, i synth digitali campionati, “So” segna dunque uno spartiacque fondamentale del decennio, consacrando Gabriel anche in classifica: sarà certificato cinque volte platino dalla Recording Industry Association of America e tre volte platino dalla British Phonographic Industry (e il singolo “Sledgehammer”, come detto, espugnerà la vetta della Billboard Hot 100), ottenendo anche una nomination come Album dell'anno alla 29ª edizione dei Grammy Awards, dove sarà però superato sul filo di lana da “Graceland” di Paul Simon.
Resterà il bestseller dell’arcangelo Gabriel: un’opera iconica, curata fin nei dettagli, a partire dall'immagine di copertina (un ritratto del cantante fotografato da Trevor Key, già autore del disegno delle campane di “Tubular Bells” di Mike Oldfield), che sarà poi rielaborata da Peter Saville, celebre per aver lavorato negli anni 80 con artisti come Sex Pistols, Joy Division, New Order, Omd, Ultravox e Phil Collins.
A suggello di una stagione magica per il musicista britannico, arriverà poi un altro capolavoro, sotto forma di una nuova colonna sonora, “Passion” (1989), contenente le musiche per il film di Martin Scorsese “L'ultima tentazione di Cristo”. Un'opera di world music sincretica e monumentale, in cui Gabriel attingerà a un'infinità di suoni folk, originari soprattutto dell'Asia e dell'Africa, rielaborandoli in studio. Ma questa – è il caso di dire – è tutta un’altra storia.