Mercury Rev

Mercury Rev

Un sogno psichedelico

Dagli esordi all'insegna di una psichedelia caotica e delirante alla riscoperta del pop orchestrale e barocco. Quello della band di Buffalo è sempre stato un percorso poliedrico e spericolato. Ora, dopo qualche passaggio a vuoto, con "Snowflake Midnight" la loro arte del trasformismo ha ripreso quota

di Claudio Fabretti, Alessandro Nalon

Allievi modello della cosiddetta scuola neo-psichedelica, i Mercury Rev rappresentano una delle esperienze cardinali dell'indie-rock degli ultimi due decenni. La loro musica è ripresa sapiente e mai fine a se stessa del passato: il pop più genuino (Beatles) e la psichedelia meno irruente (Velvet Underground), certo manierismo tipico del progressive-rock e l’ansia apocalittica della new wave, il tutto ricreato sapientemente, a testimoniare come la copia, antiplatonicamente, possa essere persino superiore all’originale.
Se nella prima fase della loro produzione era l’elemento delirante, decentrato, ad avere la meglio attraverso complesse destrutturazioni sonore operate sottobanco – narcolettiche distorsioni di chitarra, stratificazione quasi farraginosa di livelli sonori – successivamente il baricentro si è spostato verso una forma-canzone più classicheggiante, ma in cui paradossalmente ha acquistato ancor più valenza il messaggio decostruzionista (l’assenza di un unico fondamento del reale) lanciato in precedenza.
La polivocità della loro arte non impedisce comunque ai Mercury Rev di mantenere una forte coesione e omogeneità all’interno dei propri lavori, quasi che il farraginoso campo di forze messo in atto converga centripetamente verso l’atto creativo stesso, autoriflessivo e per questo unitario.

I Mercury Rev nascono nella metà degli anni Ottanta a Buffalo, New York, ma la loro formazione definitiva si avrà solo nel 1989, dopo qualche anno di gavetta tra colonne sonore per film di studenti e lungometraggi a basso costo. Lo stimolo a uscire dal circolo delle colonne sonore dei film amatoriali venne dal compositore Tony Conrad in persona, che ne intravide le potenzialità artistiche. Il nucleo originario della band comprendeva l’eccentrico cantante David Baker, il chitarrista Sean "Grasshopper" Mackiowiak, la flautista Suzanne Thorpe, Jimmy Chambers alla batteria, l'ex-chitarrista dei Flaming Lips Jonathan Donahue alla chitarra e alla seconda voce e il bassista Dave Fridmann, già produttore e ingegnere del suono per gli stessi Flaming Lips. E dellaband di Wayne Coyne, i Mercury Rev condividono lo stile particolare ed eccentrico, uno stile fatto di contrasti e atmosfere drogate, sempre oscillante tra l’estasi e la paranoia, ma senza mai abbandonare le colorate suggestioni della psichedelia sixties. La loro psichedelia si distingueva da quella dei coevi shoegazer inglesi per l’uso più moderato del wall of sound: i Mercury Rev potevano contare sul rumore, ma lo arricchivano con arrangiamenti soffici e barocchi, passando – anche in modo repentino - dal feedback più rumoroso al pop psichedelico più tenue.

La loro carriera può per comodità essere divisa in due fasi, la prima (1991-1995) caratterizzata da una psichedelia caotica e demenziale che riesumava i trip di 13th Floor Elevators, Pink Floyd e Spacemen 3, sposandoli con le istanze del college rock a stelle e strisce di Flaming Lips e Yo La Tengo; la seconda (1998-2005) dedita alla riscoperta del pop barocco degli anni Sessanta (Scott Walker, Van Dyke Parks), grazie soprattutto all’uso più massiccio dell’orchestra e di toni più delicati e sognanti, lontani dal rumore degli esordi.

Capolavoro della prima incarnazione del gruppo fu Yerself Is Steam, del 1991. Il disco si emancipava da tutte le forme di musica rock allora in voga, ripudiando tanto i compromessi del grunge, quanto la psichedelia da ballo del Madchester sound e quella più eterea dello shoegaze. È infatti un disco anarchico, che gioca sulle dissonanze delle chitarre e sulla delicatezza di flauto e archi in un singolare intrico di suoni e atmosfere. La musica dei Mercury Rev si nutre delle nevrosi della modernità, dibattendosi tra atmosfere sulfuree e stranianti. L'immersione nella decadenza e nel caos diventa così uno strumento per la purificazione, per una sorta di "estasi acida".
Più che canzoni, quelle di Yerself Is Steam sono sfibranti autoanalisi. Musicalmente, il canovaccio è quasi sempre lo stesso: una melodia portante delineata da semplici accordi di chitarra acustica (o, in alternativa, dalle tastiere) che finisce presto travolta da una cascata di distorsioni devastanti, con percussioni e flauto pronti a prendere in mano il gioco. Per farsi un’idea più concreta è sufficiente ascoltare l'agghiacciante "Blue And Black", retta da piano e orchestra e intonata da Baker, che sembra voler storpiare il baritono di Scott Walker con la sua voce ubriaca e drogata, salvo poi cambiare registro e blaterare in preda alle visioni, in uno stile simile al primo David Thomas.
La psichedelia dei Mercury Rev è così subdola da indurre al bad trip anche con arrangiamenti così delicati e soavi, ma sa concedersi momenti di pura catarsi, come il tornado di chitarre dell’epica “Sweet Oddysee Of A Cancer Cell T' Th' Center Of Yer Heart”, una sinfonia di rock psichedelico che accumula tensione per tre minuti di cavalcata elettrica, per poi esplodere in una supernova di distorsioni ululanti: è il massimo capolavoro della band, la manifestazione più pura del loro mood conteso tra estasi lisergica e angosciante paranoia. L’altro picco è la successiva "Frittering", che parte come una splendida ballata folk per chitarra acustica e voce filtrata, salvo poi venire risucchiata in un gorgo di distorsioni con un assolo inaspettato e struggente.
"Chasing A Bee" fu estratto come singolo e accompagnato da un video bellissimo, che condensa tutto il delirio del brano in immagini al limite del trash; “Syringe Mouth”, l’altro brano più diretto è un garage-rock con un riff potentissimo e duetti di voci filtrate e urlanti, l’effetto è ustionante.
L’apoteosi del loro rock per dementi sta nel finale, coi dodici minuti di “Very Sleepy Rivers”, un mantra spettrale e angosciante; la chitarra ripete una melodia svogliata, mentre Baker, come in preda a paranoie o visioni mostruose, canta un testo delirante, prima biascicandolo, poi gridandolo.

Il disco fu un fulmine a ciel sereno: poche band indie americane sapevano suonare unrock così rumoroso ma così variegato da arrangiamenti curatissimi. Purtroppo, per disguidi discografici e problemi con gli organizzatori del tour (legati all’uso smodato di droghe da parte di Baker), non ottenne il meritato successo, nonostante le recensioni entusiastiche.

L’Ep Lego My Ego del 1992 contiene versioni alternative e dal vivo dei brani dell’esordio, più il loro primo bellissimo singolo (“Car Wash Hair”) e un altro inedito (la sperimentale “If You Want Me To Stay”). Pur essendo un lavoro minore, si segnala per la versione di quattordici minuti di “Very Sleepy Rivers”, meno subdola e più potente e diretta, e “Coney Island Cyclone”, che riarrangiata per chitarra e flauto suona ancora più magica che nella versione contenuta nel disco di debutto.

Mercury RevLa folle anarchia della loro musica torna con Boces (1993), impreziosita da una maggior dose di dolcezza e da un sopravvento delle loro raffinate armonie. Spesso sottovalutato, Boces è lontano dall’essere un clone dell’album precedente; è piuttosto un tentativo di esprimere sensazioni meno estreme e dare spazio alla loro innata sensibilità pop. La prova della loro crescita la conferma la marcetta di "Meth Of A Rockette's Kick", con fiati, raga e distorsioni di chitarre improvvise ma miti e un andamento festoso, distante anni luce dagli estremismi dell’esordio.
Rispetto al debutto la presenza di Baker è meno determinante (tranne in alcuni brani, tra cui la frastornante “Trickle Down”), mentre Donahue ha l’occasione di sbizzarrirsi nei numeri più pop della prima fase del gruppo: “Bronx Cheer” e “Hi-Speed Boats”, entrambi grandiosi episodi di rock psichedelico, la prima più torrenziale e fragorosa, la seconda più spudoratamente melodica. “Something For Joey” è il capolavoro del disco, una superlativa miniatura pop con una melodia di flauto su chitarre sfrigolanti; potrebbe essere il manuale perfetto del noise-pop, una lezione su come mescolare acido e zucchero per plasmare un capolavoro (anche il video è l’ennesimo trip audiovisivo). Altra vetta, “Downs Are Feminine Ballons”, la loro canzone più dolce e incantevole, una sorta di versione rilassata e malinconica degli Spacemen 3, con sinuosi intrecci di chitarre e flauto e un cantato angelico.
Contatti con il passato si possono trovare nel bluesdelirante “Girlfren’”, in cui rivivono tutti gli ubriaconi del rock (da Tom Waits a David Thomas) o in “Snorry Mouth”, un’altra delle loro dolci odissee acide, con chitarre detonanti e sfoghi di feedback.
I contrasti che facevano la forza del disco precedente qui vengono portati all’estremo, così come sembrano distinguersi ad ogni costo i due cantanti: Donahue sfoggia un timbro dolce ed effeminato, Baker ha dalla sua una voce non convenzionale e drogata.

Anche se meno ostico del precedente, Boces suona ad ogni modo sperimentale e ardito, coniugando stili lontanissimi e consegnando brani fuori dagli schemi (come il dub-pop di “Boys Peel Out”) e melodie memorabili.

Nonostante l’ammorbidimento del sound e un’apparizione al Lollapalooza, la fama è ancora lontana per i Mercury Rev e problemi interni alla band causano la dipartita di David Baker, ormai distantissimo musicalmente e personalmente dal resto del gruppo, a causa dei suoi problemi con la droga e della svolta melodica del gruppo. Pubblicherà un disco solista a nome Shady, lasciando Donahue solo al microfono dei Mercury Rev, mentre Adam Snyder si aggiunge alle tastiere elettroniche (mellotron, sintetizzatore, piano elettrico), a triplicare quelle suonate da Chambers (clavinet, clavicembalo) e Fridmann (pianoforte e mellotron).

Il cambio di formazione induce una crescita della mole di arrangiamenti nel loro sound: nel 1995 esce See You On The Other Side, tentando una coraggiosa svolta verso un rock quasi interamente orchestrale, facendo da ponte verso la fase barocca del gruppo. A conti fatti, il disco è importante solo se considerato all’interno del loro percorso creativo, dato che i brani veramente degni di nota sono pochi rispetto ai precedenti album, suonando per lo più goffi e acerbi, come se Donahue e soci non riuscissero ancora a controllare la mole di mezzi a loro disposizione. I due pezzi degni di nota sono “Empire State”, una filastrocca con possenti spinte progressive, chitarre ruggenti e una sezione di fiati molto marcata in stile Canterbury, e “Racing The Tide”, che si avvicina al wall of sound dello shoegaze.
I restanti brani non sono affatto eccezionali, a partire dal singolo “Young Man’s Stride”, il loro pezzo più punkeggiante, e “A Kiss From An Old Flame”, con troppi ghirigori e barocchismi; molto meglio la ballabile “Close Encounters Of The 3rd Grade”.
L’impressione è che gli arrangiamenti fantasiosi non siano più supportati da melodie degne del loro nome.

Risale allo stesso anno Paralyzed Mind Of The Archangel Void, un esperimento di ambient music pubblicato dalla band con lo pseudonimo di Harmony Rockets.

Nel 1998, con Deserter's Songs, i Mercury Rev tornano alla loro forma migliore. Un album straniante, con la sua orchestrazione magniloquente, i suoi fruscii da belle epoque, il suo pop perfetto nella struttura, il canto così aggraziato e d'altri tempi. Eppure, nonostante ciò, colpisce la straordinaria attualità di un’opera che si incastra perfettamente nell'era postmoderna, mettendone in atto una parodia (il recupero di brandelli del passato ricontestualizzati) e denunciandone quindi l’assenza di genuina originalità.
L’apertura, fiabesca e sognatrice, è affidata alla splendida "Holes", in cui il tempo sembra svanire in un’eternità dorata, fatta di fiumi di fantasia e sghembi personaggi (talpe, mosche) accompagnati da visioni olimpiche. Procedendo all’interno dell’opera, la sensazione di straniamento cresce e si sublima in immagini sempre più argute e fantastiche (la parola "dream" ricorre spesso nei testi), poggiate su un tessuto musicale cangiante, ora lirico e trasognato ("Endlessly"), ora straordinariamente soppesato nella melodia (l’imperiosa "Opus 40" e "Goddess On A Highway", fantastico catalizzatore di placide visioni cristalline), ora inquietante e goticheggiante ("Pick Up If You’re There", che ci insegna come in ogni buona fiaba ci debba essere anche il lupo), infine persino dance ("Delta Sun Bottleneck Stomp").
L’apparato strumentale è a dir poco grandioso: alla conformazione classica del rock (chitarra, basso, batteria, tastiere) si aggiungono infatti numerosi elementi importati da altri generi (la classica, il jazz). Basti notare la maestosità della già citata "Holes", che si apre con un impianto di archi tanto solare quanto grandioso e autocompiaciuto (con l’ausilio dell’elegiaco flauto pastorale di Thorpe), lo xilofono infantile di "Tonite it shows", l’atmosfera da jazz d’inizio secolo della strumentale "I Collect Coins", con quella sua produzione così sporca e anticata, il tappeto d’archi di "Opus 40", su cui si muove un dolcissimo Jonathan Donahue, il sassofono unito alla chitarra reediana della suadente "Hudson Line", l’organetto sixties di "Pick Up If You’re There". Ogni pezzo presenta poi una straordinaria progressione per accumulazione, per cui a pochi strumenti iniziali presenti (gli archi, un flauto, un basso) se ne aggiungono numerosi altri, grazie a stupende aperture di suono (come se al termine di uno stretto vicolo si scorgesse un’immensa radura), che avvolgono con la loro magia baroccheggiante. Notevoli sono le differenze negli arrangiamenti, mirati a richiamare il passato (fruscio e sporcizia) collocandolo nel presente (un tessuto sonoro cristallino) e a dilatare lo spazio (una messe di ingredienti collocati in uno scenario epico e cinematico), testimonianza di una musica senza tempo né confini.
Il titolo dell’opera richiama inoltre l’ascetismo di scuola anacoretica, ricordando il gesto con cui, nell’alto Medioevo, i monaci si ritiravano in solitudine nel deserto, conducendo una vita appartata, guidati da un misantropico amore per Dio. Una immagine che si adatta perfettamente al rapimento cui è soggetto l’ascoltatore di Deserter’s Songs: una fuga immaginaria (e per questo, oggi, più vera che mai) attraverso le galassie del sogno. Non a caso, un disco di appena pochi anni fa è quasi unanimemente considerato un classico.

Deserter’s Songs
incanta tutti, con il suo cantilenare melodie antiche come il mondo e rimodellate secondo una forma nuova, ammaliante come la Circe omerica. "Uno dei segreti della nostra musica - racconta Donahue - è la sua qualita' onirica. Vogliamo creare un nostro piccolo mondo. Anche per questo abbiamo chiamato l'album 'Deserter's Songs'. Volevamo abbandonare il nostro passato, le cose che avevamo fatto, il mondo in cui viviamo. E il titolo voleva esprimere anche un segno di distacco da certa musica in voga oggi, una musica da cui ci sentiamo molto distanti. Vogliamo evocare un senso proustiano di 'atemporalità', fare in modo che anche un innocente frammento di melodia possa riuscire a destare ricordi turbolenti. Da bambino, mia madre mi faceva ascoltare classici della musica leggera come Sinatra e Bartok. Io mi ribellavo contro questo, ma ora è come se avessi metabolizzato le sensazioni che provavo a cinque anni di fronte a quella musica, e molte delle nostre melodie hanno a che fare con tutto questo".

Mercury Rev - Jonathan DonahueIngaggiato il tastierista e batterista Jeff Marcel, i Mercury Rev virano verso un sound ancora più sinfonico in All Is Dream (2001), un album che conferma il trend inaugurato dalla band di Buffalo con Deserter's Songs smussando le ruvidità degli esordi in favore di un pop sempre più raffinato, solenne e onirico. Il "padre spirituale" del disco è il leggendario Jack Nitzsche, che doveva esserne il produttore, ma è morto una settimana prima dell'inizio delle registrazioni. L'impronta di Nitzsche è palpabile nel "muro del suono" di arrangiamenti lussuosi, a volte persino ridondanti, con l'impiego massiccio di una vasta sezione di archi a fare da contrappunto alle chitarre. "Il lavoro di Jack ci ha sempre ispirato - racconta Donahue -. Non solo le sue collaborazioni con Neil Young e Rolling Stones, ma anche le sue colonne sonore, da 'Qualcuno volò sul nido del cuculo' a 'L'Esorcista'".
L'effetto sul suono è di grande suggestione. Le atmosfere di Donahue e compagni si fanno sempre più astratte ed evocative. "The Dark Is Rising" si apre delicatamente, esplodendo come il più trascinante dei temi dei film di 007, prima che il falsetto stridulo di Donahue e un soffice piano costruiscano un'atmosfera intima, destinata a essere nuovamente soppiantata dal crescendo dell'orchestra. "Tides Of The Moon" combina strutture rock con strani intrecci di tastiere e xilofono sui quali irrompe la voce di Donahue, che canta di un "volo dentro la superficie del sole." La misteriosa "Lincoln's Eyes", invece, fonde atmosfere minimaliste e paesaggi sonori alla Morricone con una melodia struggente alla Van Dyke Parks. "Nite and fog" è una splendida ballata visionaria, mentre "Drop In Time" è una raffinato acquarello pop.

Le mini-sinfonie dei lavori precedenti vengono ulteriormente dilatate in stile epico oppure si riducono a fragili bozzetti. A rimetterci è la verve rumoristica di Yerself Is Steam. A beneficiarne, il lavoro di destrutturazione e rimodulazione dei cliché pop portato avanti negli anni dalla band di Buffalo coniugando le colonne sonore anni 50 e il vaudeville con la psichedelia malata dei Velvet Underground e dei Pink Floyd. Un progetto che con All Is Dream, forse, ha raggiunto il suo punto-limite.

The Secret Migration (2005) è infatti una delusione. I Mercury Rev abbassano ancora il tiro, appianando anche gli ultimi vagiti psichedelici che abitavano la precedente opera e proponendosi di edificare a puntino una raccolta di canzoni sofisticate e scorrevoli, ma pure risapute. Apre le danze la convenzionale pop-song atmosferica di "Secret For A Song". In "Across Yer Ocean" si ha un'intro vocale che richiama il resto dell'arrangiamento secondo una linea melodica soul-pop. "Diamonds" ha ancora tastiere celestiali, un carillon di organetto, una linea vocale debordante ma sovente a vuoto, e un crescendo di atmosfere grandiose ma prevedibili. "Black Forest" ha invece una intro riuscita, ma poi subito rovinata dal ripieno orchestrale. Su tutto aleggia una produzione calcolata, un'orchestrazione convenzionale e un modus operandi in larga parte antiquato.
A mancare sono soprattutto le concatenazioni, gli agganci delle strutture, gli elementi che fanno ricordare il brano. "Vermillion" ha un ottimo sostrato di trattamento di studio, e pure un arrangiamento brillante, ma rimane sostanzialmente incompiuta. "My Love" è una ballata tra l'epico e il romantico che si scioglie nei languori delle tastiere, mentre gli stop-and-go e i continui sbalzi della dinamica impostano "In The Wilderness", una solare rincorsa easy-listening di piano e tastiere per la quale gli attuali Cranberries darebbero forse la vita.
"In A Funny Way" è una ballata dal ritmo scandito con cui pagano il loro personale tributo a "Pet Sounds", che può vantare solo il canto appena più malinconico di Donahue, ma anche ampie aperture emotive di archi. "Moving On" è un breve interludio con vocals armonizzate quasi roboticamente, e accenti di ghirigori electro di sottofondo. "The Climbing Rose" ha qualche avvicendamento armonico in più, e un livello di gradevolezza superiore, ma l'aria radiofonica e il fatto di assomigliare troppo ad altre canzoni dell'album lo fanno ripiombare nell'anonimato. Questo brano mostra anzi i veri problemi del disco: molte canzoni hanno strutture pressoché identiche. Chiude una trilogia di brani contagiosi nella loro scontatezza. "Arise" è un power-pop sbrodolato, ma pure ravvivato da un pizzico di verve, e un innesto di pop vocale che ricorda quello epigonico dei Flamin' Groovies, "First-Time Mother's Joy" getta la maschera per esternare uno spudorato omaggio al britpop del tempo che fu, e "Down Poured The Heavens" è l'acquarello finale per piano e voce, ancora insistentemente impregnato di saccarosio Spector-iano.

Il disco viene accolto in modo freddo e la dura legge vigente nell’era di internet (quella di screditare una band al primo passo falso) non perdona nemmeno un gruppo imponente come loro: a tre anni di distanza esce Snowflake Midnight, primo di due dischi gemelli, ma il pubblico sembra essersi dimenticati di come i Mercury Rev seppero recuperare in qualità dopo un disco mediocre.

Snowflake Midnight (2008) è senza troppi giri di parole il loro miglior disco dai tempi di Deserter's Songs, e la prova della rinascita di una band di trasformisti mai paghi dei risultati ottenuti e sempre pronti a rimettersi in gioco. Chi aveva pregiudizi circa la deriva pop orchestrale degli ultimi anni dovrà ricredersi di fronte a un disco assolutamente originale e particolare, in cui i Mercury Rev ridanno vigore alle atmosfere oniriche che li hanno caratterizzati nell'ultimo decennio con una struttura musicale che va a pescare in territori da loro inesplorati, quelli dei ritmi elettronici.
L'impostazione di Snowflake Midnight è quella di un dream-pop psichedelico, epico e potente, annegato di tastiere eteree e retto da battiti sintetici a creare un amalgama simile allo shoegaze/synth-pop degli ultimi M83, con cui condividono la carica devastante di pezzi trascinanti ma dalla superficie vellutata e avvolgente; le differenze rispetto al passato sono palesi: la loro formula precedente era stratificata ma lenta, statica, invece qui è il dinamismo a fare da padrone, con cambi di scena inaspettati e boati di distorsioni, tastiere e orchestrazioni.
L'opening track "Snowflake In A Hot World" è il manifesto di questo disco, un pezzo svolazzante, fragile, ma esplosivo, con il pulsare di bassi di sottofondo a una cavalcata inarrestabile; più calma "Butterfly's Wing", composta di suoni echeggianti, un ritmo quasi dance, campionamenti e la voce di Donahue più puerile e dolce che mai. Applausi per il pop elettronico di "Senses On Fire" - che detona in uno stacchetto epico con uno tsunami di testiere elettroniche - e per la ritmica di "Runaway Raindrop", vicina al trip-hop e con sfoghi quasi industrial e passaggi jazzati.
La traccia migliore tra le nove è "People Are So Unpredictable (There's No Bliss Like Home)", un arcobaleno di suoni magnifici (merito dell'accurata produzione a cui ha partecipato tutto il gruppo oltre al solito Fridmann); "Dream Of A Young Girl As A Flower" è il secondo capolavoro dell'album, un brano così articolato da sembrare una suite: l'apertura classicheggiante rimanda ai barocchismi degli scorsi dischi, ma il groove elettronico e subdolo è una novità assoluta, con la sua sporcizia che stravolge le sublimi impennate di archi e una chitarra limpidissima e sovraccarica di delay a chiudere il tutto con dei dolci feedback.
"Faraway From Cars" è un altra perla di poesia, con la sua atmosfera sospesa nel vuoto, ricreata con fiati, ritmo di handclapping e cori celestiali, mentre "A Squirrel and I" è il brano più elettronico, con la chitarra in secondo piano.

In parallelo, esce anche Strange Attractor, messo a disposizione gratuitamente sul loro sito ufficiale, previa iscrizione alla mailing list. Ed è ancora uno straniante salto nel buio in un cinematico cosmo digitale.
Il disco è un intenso, rigenerante tuffo in estesi panneggi di psichedelia elettronica, in tastiere retrò in technicolor, il cui effetto atmosferico spirituale incontra componenti onirici; sin dal brano d’apertura “Love Is Pure”, rinviandosi brano per brano, senza soluzione di continuità. 
Si svelano reami lastricati in tenue, malioso vintage digitale dai toni cristallini, con corredo di chitarre sublimi e orchestrali affabulati (“Fable Of A Silver Moon”, “Pure Joie De La Solitude”, “In My Heart, A Strange Attractor”). Le utopie e i traumi del vissuto dialogano ancora con noi, nel levigato splendore tecnologico del presente. Ne scaturiscono collage musicali ibridi, permeati di altre immagini e texture multiformi (l’affascinante “Nocturne For Norwood”, in enigmatica chiusura d'album), tali da far assuefare in esse. La forza di gravità si annulla, la materialità è prosciolta, l’emotività è a nudo.
Questo tripudio strumentale, per paradosso, enfatizza profondi silenzi, delimita luoghi interiori.

Non è la prima volta che i Mercury Rev si cimentano in un’opera prevalentemente strumentale, c’era stato ad esempio il suggestivo trip ambient-psych pubblicato a nome Harmony Rockets (Paralyzed Mind Of The Archangel Void, 1995 Beggars Banquet), un concept surreale sulla persistenza lacerante della memoria.
Strange Attractor, nello specifico, raccoglie brani intenzionalmente lasciati non incompleti ma sospesi, come dichiara Jeff Marcel, tastierista e batterista del gruppo, “open ended”, come il finale di alcuni film, tesi verso una soluzione “probabile”, eventuale e non certa; fatta immaginare all’ascoltatore, estendendosi nella sua mente.

Un doppio ritorno necessario per un gruppo che può meritatamente definirsi un punto cardinale del rock contemporaneo.

Sette anni dopo, incuranti dello scorrere delle lancette, con la coscienza di aver coniato un linguaggio, fiabesco e fantasioso, di straordinaria lungimiranza e longevità (la doppia prova del 2008 a ottima testimonianza dell'assunto), il rientro in pista dei cinque di Buffalo prosegue con caparbietà sullo stesso tracciato, percorrendo, nelle undici tracce di The Light In You, i tratti di uno psych-pop sinfonico fatato e galante, su cui ambientare tavolozze oniriche e illustrare mondi perduti.

Anche nell'articolarsi su un viatico a lei così conosciuto, la band evita in ogni caso di scadere nell'effetto carta carbone, non soltanto agendo di peso sulla diversificazione delle timbriche, ma intervenendo in primis sulla carica pop dei brani, non dimentica di certo del raffinato inquadramento di cui è adornata, ma senz'altro scaltra nell'apportare una linearità che mancava da tempo a Donahue e soci, grossomodo dall'altezza di The Secret Migration o giù di lì. Se di certo mancano le cadute rovinose di quest'ultimo, forse l'apice in negativo della compagine, nella ricerca della perfetta formula sonora i Mercury Rev finiscono però per perdere la scintilla, lo spirito che ne ha animato i migliori (tanti) momenti. Negli undici passaggi del nuovo disco la sensazione è quella di un'estrema professionalità, sempre intrigante nelle modulazioni e nell'eterea atemporalità di tratto, ma capace solo di rado di fornire reali vibrazioni, scosse melodiche ed emotive che possano essere realmente definite tali.

Sotto tale ottica, i pochi felici strappi alla regola sono da ritrovarsi nella brumosa ballata autunnale “Central Park East”, eccellente connubio di narrazione e interpretazione (con Donahue in ottima forma vocale e il minimalismo atmosferico della musica a lasciar fiutare una certa qual allure epica), e nei delicati fraseggi corali di “Are You Ready?”, controllati da una vivace ghiera ritmica e un tocco melodico a prova di bomba. Per il resto, tra vani tentativi di ravvivare l'atmosfera con spiritosi ammiccamenti jamesbondiani (“Sunflower”) o più decise parentele con la galassia pop (“Rainy Day Record”) la penna rincorre stanca un'ispirazione al più ordinaria, docile nell'escogitare facili abbinamenti melodici da corredare al sontuoso dispiego di mezzi d'arrangiamento. In un percorso di rischiaramento nei contenuti lirici che porta progressivamente il disco a smorzare la carica riflessiva verso slanci più luminosi, il lavoro tuttavia sconfessa la natura del proprio concept appiattendolo in un brodo di omogenea neutralità, del tutto inadatto a una collezione che partirebbe da presupposti diversi. Tra il mormorio ipnotico di “Amelie” (dream-pop nella sua accezione più slavata) e i sogni lucidi di “Autumn's In The Air” (coi suoi risaputi puntelli di tastiera) è difficile insomma riscontrare un avanzamento di qualche tipo, afferrare il senso più intimo del progetto nel complesso.

Un vero peccato insomma che The Light In You, piuttosto che ribadire con rinnovata consapevolezza le proprietà di linguaggio e i punti di forza dell'arte dei Mercury Rev, finisca per evidenziarne gli aspetti meno interessanti, le carenze e le prevedibilità da scongiurare, in un bignamino al negativo che nulla aggiunge alla straordinaria carriera di Donahue e soci.


Nel 2018 Donahue e Grassoppher non solo annunciano un nuovo album dei Mercury Rev ma ripristinano anche la sigla Harmony Rockets.
Lachesis / Clotho / Atropos è un omaggio al rock lisergico e all’epoca d’oro di Woodstock.Non a caso i due Mercury Rev oltre a Jesse Chandler, Nels Cline (Wilco), Martin Keith e Steve Shelley (Sonic Youth) coinvolgono nel progetto Peter Walker: chitarrista folk che ha influenzato John Fahey, Robbie Bansho e Leo Kottke ma soprattutto la scena musicale underground psichedelica americana.
L’album è composto da tre lunghe composizioni, tre differenti spunti che si sviluppano su divagazioni psichedeliche avventurose, lontane dalle sonorità mainstream delle ultime prove a nome Mercury Rev.
Procede a suon di raga “Lachesis”, la lunga suite di ben diciassette minuti che apre l’album, con uno space-rock alla Grateful Dead, che offre a Cline e Grassoppher uno sfondo perfetto per un duello strumentale avvolgente, in perenne bilico tra caos e meditazione.
La magia si ripete con toni leggermente più cupi e ossessivi in “Clotho”: brano scandito da un ritmo più frenetico e da un turbinio di noise-rock ingentilito dal suono di un organo Farfisa. E’ comunque in “Atropos” che l’alchimia strumentale produce i migliori risultati: sette minuti e quaranta di pura liturgia psichedelica con fluidi jazz, scampoli folk e raffinatezze liriche che rispolverano in pieno le migliori intuizioni di Deserter’s Song.

Il secondo progetto a nome Harmony Rockets volge decisamente lo sguardo al passato, in questa linea nostalgica si inserisce l’annunciato remake dei Mercury Rev di un album di Bobbie Gentry (The Delta Sweet Revisited), con la presenza di ben dodici voci femminili.
Per questo cover record, la band di Buffalo ha infatti deciso di mettere temporaneamente da parte la voce ipnotica e zuccherina del suo frontman e affidare le parole di Bobbie a un roster di voci femminili all star, che potrebbe indurre a pensare a strategie di marketing o al timore da parte della band di non essere del tutto all’altezza del confronto.
Saltando subito alle conclusioni, si può subito affermare che nessuna delle premesse ha influenzato il risultato finale, grazie a una misurata e calibrata gestione degli arrangiamenti, che non tendono a ribaltare la prospettiva originale ma aggiungono qua e là piccoli accorgimenti, ampliando l’estetica del progetto senza snaturarne la natura.
Nello stesso tempo i Mercury Rev non si limitano a una semplice rivisitazione del disco di Gentry: accantonato lo spirito più sperimentale rimesso in gioco nel progetto Harmony Rockets, quello che resta in gioco della loro musica è un suono pastoso, drammatico, eppure essenziale.
La sceneggiatura sonora concede più spazio ad archi e violini, privilegiando così atmosfere oniriche e vellutate. E così avviene sin dall’overture “Okolona River Bottom Band”, in cui Norah Jones viene fatta souleggiare flessuosamente in un’atmosfera dai contorni diafani, tra sintetizzatori fumosi, pianoforte e charleston appena sfiorati. Slide guitar narcolettiche e un wurlitzer malconcio accompagnano invece Hope Sandoval in una versione sensuale e intorpidita di “Big Boss Man”, polvere e tepore. Pur restando coeso e unitario, l’album alterna, come era prevedibile, alcune tracce più riuscite ad altre puramente funzionali all’insieme. Nonostante arrangiamenti più o meno, a seconda dei brani, distanti dagli originali, quello che non viene mai tradito è lo spirito innovatore e caleidoscopico dell’opera seconda della Gentry.
E’ poco efficace l’incontro tra l’armonica di “Reunion” e i gorgheggi di Rachel Goswell, mentre Lucinda Williams estrapola lo spirito più blues di “Ode To Billie Joe”, senza centrare fino in fondo l’anima del brano più famoso di Bobbie Gentry.
Alla norvegese Susanne Sundfør spetta il compito di rimescolare le carte con uno dei momenti più incalzanti, la movimentata bass-guided “Tobacco Road”.
Spetta però a Margo Price la palma d’oro per la sensazionale interpretazione di “Sermon”. Più affini allo spirito sixties appaiono le due versioni affidate a due delle voci più interessanti degli anni 80, ovvero Beth Orton (“Courtyard”) e Laetitia Sadier (“Mornin' Glory”), tocca invece a Phoebe Bridgers elevare il tono estatico dell’album con un’incantevole cover molto fedele all’originale di “Jesseye’ Lisabeth”.
A Vashti Bunyan e Kaela Sinclair spetta il compito di dare nuova linfa agli scorci bucolici di “Penduli Pendulum”, in una versione con un pianoforte solenne in luogo della chitarra.
Dopo il gradito ritorno a nome Harmony Rockets e l'omaggio alla figura di Bobbie Gentry, i Mercury Rev dimostrano finalmente di aver ritrovato l'intensità smarrita.

La formazione americana riparte nel 2024 con l’ingresso di due nuovi membri - Jesse Chandler al piano e Marion Genser alle tastiere - con Jonathan Donahue in veste di cerimoniere di una liturgia chamber-pop dove il canto cede lo scettro al parlato, al sussurrato, dislocando la musica del gruppo verso luoghi surreali e poco ordinari. Chitarre, tastiere, archi, fiati, percussioni e batteria assecondano un onirico flusso di coscienza melodico e lirico, un susseguirsi di stati d’animo emotivamente costanti che non sembrano mai trovare scogli sui quali arenarsi. Born Horses (2024) è un viaggio spirituale e sensoriale che induce a un pur nobile torpore, lontano anni luce dalle dissonanze corrosive di Boces e intenzionalmente più affine al minimalismo di Tony Conrad. Il ritorno dei Mercury Rev si nutre dei suoni della natura e dei suoi cangianti riflessi: come novello pifferaio, Donahue dissemina parole e silenzi che, al pari di incantevoli armonie, seduce uccelli, cavalli e chiunque voglia essere catturato nelle maglie di un racconto cupo e straniante. Un disco solo apparentemente mono-tono, al contrario non privo di guizzi e stati emotivi affidati alla voce di Donahue, che con lo stesso fascino di Don Chisciotte conduce l’ascoltatore tra residui di vetuste fughe psichedeliche (“Patterns”) o tra algide tentazioni jazz che non bramano reiterazioni cerebrali (“Mood Swings”). E’ racchiuso nell’insieme delle otto tracce, il senso profondo di un disco che ancora una volta dividerà il pubblico, non sempre disposto a tortuose divagazioni chamber-pop-baroque come quelle offerte dalla title track, che un assolo di sax scuote senza disturbare.
Born Horses è la celebrazione della poesia bisbigliata e ricca di candore, quella che i quattro minuti e dodici secondi di “A Bird Of No Address” celebrano con toni epici e imperituri, con un’apoteosi melodica degna dei migliori Sigur Ros.
In un progetto a tratti così estremo, non mancano insidie e tranelli: un brano come “Ancient Love” resta sospeso tra magia e monotonia, mentre il lungo dialogo che si distende sulle pur piacevoli note di “Everything I Thought I Had Lost” è più simile a un ammonimento. In questo nebuloso e allucinante intreccio di spunti onirici, scarti di vecchie pellicole e immagini polverose,  i Mercury Rev risultano oltremodo convincenti quando sobrietà e melodia vanno a braccetto (“Your Hammer, My Heart”) o quando gli input armonici scorrono con maggior impeto (la già citata “Patterns”).
Osano, rischiano i Mercury Rev nel placidamente ambizioso Born Horses, a volte sembrano inciampare in quegli spazi che separano il mondo reale dalla catalessi onirica, lasciando una lieve sensazione d’incompiutezza che la non del tutto riuscita incursione ritmica di “There’s Always Been A Bird In Me” non spazza del tutto via, senza però intaccarne l’intensa e toccante natura riflessiva.

Contributi di Cristian Degano ("All Is Dream"), Michele Saran ("The Secret Migration"), Fabio Russo ("Strange Attractor"), Vassilios Karagiannis ("The Light In You"), Gianfranco Marmoro (Harmony Rockets : "Lachesis / Clotho / Atropos"), Gianfranco Marmoro e Michele Corrado (" Bobbie Gentry's The Delta Sweete Revisited", "Born Horses")