15/09/2018

Mercury Rev

Anfiteatro Del Venda, Galzignano Terme (Pd)


Una bruma di archi così spumosa che viene voglia di tuffarcisi dentro, la voce sgranata di qualcuno che è stato appena tirato giù dal letto, poi un break di batteria che pare crollarti addosso e quella cascata orchestrale che esonda dallo stereo allagandoti la casa e la vita: poche altre canzoni hanno il potere di spaccarti il cuore esattamente in due pezzi come "Holes", incipit mozzafiato di uno degli ultimi capolavori del rock per unanimità di giudizi. "Deserter's Songs" è un album nato classico e pertanto senza tempo, ma che un tempo ce l'ha eccome, come tutte le cose: 20 anni tondi tondi, che anche il più umile degli autori non potrebbe esimersi dal festeggiare. E così Jonathan Donahue, Grasshopper e compagni hanno deciso di riportarlo in tour, ma in una versione prosciugata che ne contraddice la forma per svelarne la sostanza: sotto quel denso manto di magniloquenza (invero sempre leggero come una piuma) si nascondevano melodie così cristalline da poter sopravvivere anche nude, finalmente libere di respirare senza bombole e boccaglio. I Colli Euganei che attorniano lo splendido Anfiteatro Del Venda, paesaggio sognante come quelle canzoni sospese a vari metri da terra, saranno la cornice di lusso di questa tiepida notte stellata.

Per raggiungere l'insolita venue bisogna inerpicarsi su un sentiero sterrato, scarpinata a metà tra un'escursione montana e un percorso iniziatico. Pochi strumenti fanno mostra di sé sul piccolo palco di legno semicircolare, confermando la natura raccolta di ciò che stiamo per ascoltare. L'emiciclo erboso circostante viene presto assaltato da centinaia di indie-rocker in edizione bucolica, equipaggiati con zaini e tappetini, a disegnare un simpatico campeggio per inguaribili malinconici. Apre la serata il set chitarra acustica & stompbox del cantautore siciliano Herself alias Gioele Valenti, look alla Tim Buckley ma musica più di area Elliott Smith/Sparklehorse, alla lunga un po' incolore e monocorde.
Senza farsi troppo reclamare, i protagonisti si palesano poco dopo sulla spoglia ribalta, accompagnati dall'audio di un film che non sono riuscito a identificare. Oltre a Jonathan e Grasshopper ci sono un tastierista (che suona anche il flauto traverso, ed è uguale a Tom Petty) e un altro chitarrista (che suona anche la tromba, ed è uguale a Lee Ranaldo).
Ho già i brividi all'idea di ascoltare dal vivo quell'ouverture così maestosa e toccante, ma accade qualcosa di diverso: il pianoforte intona una melodrammatica sequenza di accordi, le chitarre generano degli effetti che ricordano un urlo di gabbiani sopra le onde, il frontman mima un teatrale battito d'ali e "The Funny Bird" ci fa volare ben oltre le boscose campagne venete. Tutto chiaro: non sarà un banale "Mercury Rev performing 'Deserter's Songs'" quanto piuttosto un concerto liberamente basato sul disco, autorizzato quindi a scombinare la tracklist-canovaccio. Non dimentichiamoci poi che stiamo per assistere a un unplugged a tutti gli effetti: aspettiamoci quindi un clima confidenziale con il pubblico e ricchi intermezzi parlati tra un brano e l’altro, come da tradizione "senza spina".

E difatti, Jonathan non fa in tempo a salutarci che è subito un fiume in piena: è contento di poter suonare dopo vent'anni quelle canzoni come furono concepite in origine, senza più "orpelli in technicolor", nella loro disadorna fragilità, "come un sottile fantasma, come dita che suonano nella nebbia" (che immagine!). La sua voce è acuta e squillante anche quando non canta, e a tratti sembra davvero il verso di qualche esserino fiabesco. Come possono suonare questi inediti Mercury Rev francescani (ma pur sempre psichedelici) ce lo prova subito "Tonite It Shows": celesta tintinnante, tappeto di mellotron, assolo di armonica e coda free dimostrano che, con un po' d'ingegno, si può essere barocchi con pochi mezzi e nessuna ridondanza.
Riprende la narrazione collaterale: "Deserter's Songs" è stato il figlio bastardo di "See You On The Other Side", lo sfortunato disco su cui "avevano scommesso tutto", che nelle loro previsioni avrebbe dovuto "catapultarli in cima, ma no lo fece". Quel fallimento colossale, su cui "avevano puntato tutta la loro vita", portò lui e Grasshopper a "toccare il fondo" (in originale "rock bottom", parola che Jonathan scandisce per rendere palese il riferimento), e da quel senso di totale smarrimento nacque un album che fu innanzitutto una reazione alla musica che spadroneggiava all'epoca, "canzoni britpop da tre minuti e qualche gossip da dare in pasto ai tabloid", a cui contrapporre "lunghi brani con in mezzo un oboe" (da qui, forse, la "diserzione" del titolo). Un album che "temevano potesse essere l'ultimo", ringraziandoci di essere ancora qua ad ascoltarlo dopo tutti questi anni. Il breve strumentale "I Collect Coins", con il suo scheletrico impasto di piano e sega musicale che fa tanto Black Heart Procession, è uno struggente commento a questa storia di caduta e rinascita, glorificata poi nella trionfale "Hudson Line", dominata dall'organo e con un pirotecnico solo di chitarra.

Tuttavia, l'ideale colonna sonora per la vicenda descritta è il prossimo brano, introdotto come "una canzone spuntata fuori rimettendo in ordine la collezione di dischi": e, nell'incredulità generale, ecco partire una fenomenale "Here" dei Pavement per piano elettrico e lap steel, la voce di Jonathan quasi strozzata in quel verso iniziale che pare scritto apposta per lui ("I was dressed for success/ But success it never comes"). L'emozione per questa sorpresa è davvero tanta, al punto che ci mettiamo un po' ad accorgerci che, nel frattempo, è partita un'altrettanto magica "Endlessly", con il suo esile tema frusciante come vento tra gli alberi.
Ci siamo commossi abbastanza, ora è la volta di una storia "strana ma vera": nel 1996, ancora nel pieno della depressione post-fiasco, Jonathan riceve una telefonata dai Chemical Brothers, che gli propongono di collaborare a una traccia di "Dig Your Own Hole". Lui "non ha idea di chi siano i Chemical Brothers" (il cui nome gli richiama un'idea di "psichedelia drogata" che crede di conoscere bene, "essendo pur sempre un ex-Flaming Lips"), ma sapere che due persone da qualche parte nel mondo sono connesse con la sua musica gli dà la spinta necessaria per riprendere in mano la propria vita artistica: queste due persone non possono che omaggiarle con "Delta Sun Bottleneck Stomp", remixata anni dopo proprio dai due producer inglesi, qui proposta sotto una calda coperta country.

"Il bello di fare un certo tipo di musica è che non ti porta denaro o fama, ma una cosa molto più importante: il contatto visivo con le poche persone che vengono a sentire i tuoi concerti. Una di esse era Mark Linkous, di cui adesso suoneremo una canzone": riuscite a immaginare cosa possa essere "Sea Of Teeth" rielaborata dai Mercury Rev dentro una spirale di leslie, in un anfiteatro naturale in mezzo alle montagne, sotto una volta di stelle in cui cercare disperatamente qualche traccia dell'autore? Lacrime a secchiate, e applausi anche più copiosi.
Il tempo di riscuoterci con una "Goddess On A Highway" dal potente impianto polifonico e siamo finalmente abbastanza rodati per meritarci la tanto attesa "Holes", che supera le aspettative in una resa da pelle d'oca, tra minuscole notine di piano e un solo di tromba di mestissima solennità, l'ultima frase lasciata a cappella per sottolinearne l'esplicito contenuto autobiografico ("bands/ those funny little plans/ that never work quite right").
Dopo l'elegia, un po' di epica: raggiunti da Herself ai cori e al timpano (unica goccia percussiva di tutta la serata), imbastiscono una sontuosa "Opus 40" cantata a quattro voci, con un crescendo sferzato dal sonar impazzito della chitarra e una fuga finale in cui svolazza pure un flauto, prima di sfumare in una lieve polverina di reverse delay.
In chiusura, "una canzone che non è su 'Deserter's Songs', ma avrebbe potuto esserci" ovvero "The Dark Is Rising" (tema portante del sequel "All Is Dream"), younghiana fino al midollo nel suo minutissimo falsetto, altri velati accenni alla sua condizione dell'epoca ("in my dreams I'm always strong", "I wanted you to see") e una vorticosa coda a base di scivolate pianistiche.

Un set così ineccepibile che sarebbe sfacciato esigere bis, e infatti nessuno li chiede. In compenso, chi vuole trova Jonathan dietro al palco, al riparo nel buio come nella copertina del suo capolavoro, entusiasta fino alla fine di poterlo condividere con tutti.
Ho assistito a tanti "live masterpiece" (vado a memoria: "Slint performing 'Spiderland'", "Sonic Youth performing 'Daydream Nation'", "Television performing 'Marquee Moon'", "Tuxedomoon performing 'Half Mute'", tanto per citare i più memorabili), ma questa serata ha brillato di una magia tutta sua, irripetibile come il disco da cui ha preso le mosse. L'incanto dello scenario e il tempo clemente hanno assecondato magnificamente la suggestione della musica, regalandoci una serata perfetta sotto ogni profilo. Nota di merito finale ai ragazzi di Do It Yourself, che hanno gestito il ticketing con un'efficenza non scontata nell'attuale panorama italiano.
Facciamo il sentiero a ritroso per tornare alla realtà, ma nelle nostre fantasie non c'è verso di schiodarci dal mondo sognante di Jonathan, tormentato folletto che vorremmo abbracciare prima di addormentarci.