Libertines - Babyshambles - Peter Doherty

Libertines - Babyshambles - Peter Doherty

Storia di un libertino

La parabola della carriera di Peter Daniell Doherty, uno dei musicisti più controversi degli anni Zero che ha lasciato il segno tra eccessi e inni generazionali. Dai travagliati Libertines al nuovo progetto Babyshambles, ripercorriamo una vita senza mezze misure

di Guia Cortassa, Mattia Villa

Quando si tratta di Peter Doherty, è impossibile scindere l’aspetto musicale da quello del gossip. Non esiste una barriera tra la vita pubblica e quella privata, se c’è di mezzo il cantautore di Hexham: come nella migliore tradizione dandy, la sua stessa esistenza è la sua opera d’arte. Senza nessun filtro, le sue passioni, i suoi sentimenti e le sue relazioni sono parte integrante e fondamentale di ciò che fa; baci, litigi, rotture e ricongiungimenti, crolli emotivi e picchi emozionali sono vissuti davanti agli occhi di tutti, con una spontaneità tale da trasformarsi a volte in pura ingenuità, senza alcun tentativo di nascondersi.
A oltre un secondo di distanza dal suo fiorire, il decadentismo ha un nuovo alfiere.

"The Libertines are the band that all the girls want to fuck
and all the boys want to get fucked up with…

(James Endeacott – Rough Trade A&R,
Vice, Dec. 2004)


The good old days

1997, Carl Ashley Raphel Barât è uno studente di teatro alla Brunell University quando incontra Peter Daniell Doherty, fratello della sua coinquilina Mary-Jo e iscritto ai corsi di letteratura inglese alla Queen Mary University. Carl suona la chitarra, Peter scrive poesie: il connubio è irresistibile, e in men che non si dica entrambi lasciano le rispettive facoltà per iniziare a fare musica, trasferendosi insieme in un appartamento in Camden Road, chiamato “The Delaney Mansions”. Quella tra Doherty e Barât è quanto di più vicino alla definizione aristotelica di amicizia vi possa essere, un rapporto in cui cadono anche le barriere del contatto fisico: “I was completely devoted to him”, confesserà Doherty al Guardian, affermazione a cui Barât risponderà “It was two against the world”. Entrambi amano la musica Skiffle, la cinematografia e la letteratura britannica degli anni 50 e 60 e il “rockney” di Chas’n’Dave; ma soprattutto a unirli c’è il pensiero condiviso del paradisiaco mondo utopico dell’Arcadia, verso cui salperà una nave chiamata Albion.

Boys in the band

A unirsi ai due per completare lil gruppo, che da “The Strand” passa velocemente a chiamarsi “The Libertines”, arrivano il bassista John Hassall e il batterista Gary Powell. I pezzi che suonano riportano alla luce la tradizione del pop britannico degli anni Sessanta e della rabbia punk del decennio successivo, ma senza alcun filtro o sovrastruttura. Racconta Barât nel Dvd “Boys in Band”: “Ero ossessionato con i Beatles”, aggiunge Doherty: “Alcune delle influenze possono essere abbastanza ovvie, come i Clash o gli Smiths, ma certe altre non lo sono per niente, come Billie Holiday, Miles Davis, i Velvet Underground”, incalza Barât: “I Nirvana, i Velvet Underground, gli Stranglers”, conclude il secondo: “E i Supergrass, Leonard Cohen, i Jam, Isaac Hayes”.
Vestite le giacche rosse delle guardie britanniche e issata sulle spalle l’Union Jack, i Libertines cominciano a suonare ovunque sia possibile: nei pub, per strada, negli appartamenti dei propri amici. Lo spirito da guerriglia dei cantori della nuova Inghilterra è irresistibile per i giovani londinesi, e in breve tempo il nome dei gruppo è sulla bocca di tutti.

Time for heroes

È nell’autunno del 2001 che gli A&R della Rough Trade si accorgono della band. Racconta James Endeacott, fautore del loro contratto, ufficializzato l’11 dicembre dello stesso anno: “Pete sembrava Sid Vicious reincarnato in qualche strano poeta francese in un romanzo di Henry Miller, e tutti i loro fan erano questi sudici e splendidi indie kid che non avresti mai visto ai concerti indie-rock mainstream. Tutta la scena era assolutamente punk e glamorous e sporca come niente che avessi mai visto prima. C’erano ragazzine di 17 anni che tiravano grandi quantità di coca nei bagni degli uomini e baciavano sconosciuti a caso, mentre i loro fidanzati lottavano tra di loro nel pit, scivolando su pozze di birra e vomito”. Quello che per il britpop era il Good Mixer Pub di Camden, per questa nuova generazione è il Filthy Mc Nasty’s di Clerkenwell, che tra i suoi ospiti abituali contava già Nick Cave, Shane MacGowan e Mark E. Smith.

L’attenzione dei media per Doherty e Barât si fa sempre più grande, soprattutto dopo il loro trasferimento nelle “Albion Rooms”, una casa a schiera vittoriana a Bethnal Green, che diventa immediatamente il punto di riferimento per tutti i fan dei Libertines, in cui non era insolito vedere la band occupata in concerti improvvisati o reading di poesia estemporanei, da quelli che diverranno i “Books of Albion” di Peter Doherty. Appuntamenti in cui si potevano trovare grossi quantitativi di droga sempre a disposizione.

Up the bracket

libvertcorpoÈ il 3 giugno del 2002 quando esce “What A Waster”, prima release ufficiale dei Libertines, che nella stessa settimana guadagnano anche la prima copertina su Nme. Nei tre minuti della canzone compaiono già tutte le cifre stilistiche che diventeranno vessillo della band: dai riferimenti letterari nel testo alle chitarre graffianti e i rimandi beatlesiani delle melodie. Il suono shabby-chic della produzione dell’ex-Suede Bernard Butler fa sì che immediatamente il gruppo venga etichettato come “la risposta britannica agli Strokes” e messo sotto contratto dalla medesima Rough Trade nello stesso periodo, in un momento in cui a monopolizzare le chart era la rassicurante melodia dei Coldplay di “A Rush Of Blood To The Head”.
Sarà invece Mick Jones, veterano dei Clash, a curare la produzione di Up The Bracket, il full length di debutto di Barât, Doherty e soci, che vede la luce a ottobre dello stesso anno. Al sound, questa volta più genuinamente grezzo e non ripulito dalla rabbiosa spinta compositiva della coppia, si aggiungono le parole di Doherty, che raccontano della strafottenza e della disillusione dell’Inghilterra di giovani ed eleganti rivoluzionari in balia della droga. L’amore per la storia e la letteratura britanniche, la creazione di un orgoglio nazionale che esuli da ogni motivo politico, l’esplicitazione dell’appartenenza a una nuova temperie culturale rendono brani come la title track o “Time For Heroes”, “I Get Along” e “The Good Old Days” immediatamente inni generazionali, e le giacche dell’esercito di Sua Maestà diventano una divisa dal significato del tutto stravolto.

Horror show

Come tutte le medaglie, però, anche quella del crescente successo dei Libertines ha un rovescio: la tossicodipendenza di Pete Doherty. Il consumo di stupefacenti del musicista trasforma il 2003 nell’annus horribilis della band più promettente in suolo britannico. Da consumatore occasionale, Doherty diventa dipendente dapprima dal crack, e poi dall’eroina, trasformandosi nella principale causa di disfacimento del gruppo. Vincere, a febbraio, un Nme Award come band rivelazione dell’anno non è abbastanza per tenere insieme il rapporto tra Doherty e Barât, il più colpito dalla situazione. Deciso a mettere una distanza tra la band e i problemi di Peter, Carl decide ad aprile di andarsene dalle Albion Rooms e, a maggio, dolorosamente, di allontanare il compagno dal gruppo. I rapporti tra i due si intesiscono fino a rompersi del tutto, e Doherty, ormai fuori dalla band, decide di formarne una propria, i Babyshambles.
Ma l’estate del 2003 si trasforma in una veloce discesa infernale per il musicista che, lasciato a casa dal tour mondiale dei Libertines, a luglio irrompe nell’appartamento di Barât a Mayfair per svaligiarlo, costringendo questi a denunciarlo e a farlo rinchiudere nel carcere di Wandsworth. Ed è sempre Barât, nell’ottobre dello stesso anno, ad aspettarlo fuori dai cancelli della prigione per accompagnarlo a casa il giorno del rilascio.

Can't stand me now

Febbraio 2004: agli Nme Awards i Libertines sono incoronati miglior band britannica dell’anno. I due salgono sul palco per ringraziare, con Barât che afferma “It’s been a hell of a year”, subito prima che Doherty, in stato visibilmente alterato, inizi a declamare “Suicide in the Trenches”, una poesia del 1918 contro la guerra di Siegfrid Sassoon. I due si alternano nel recitare i versi, dividendo lo stesso microfono e, alla fine, come una volta, le loro labbra si sfiorano.
Lo stesso mese, sul palco della Brixton Academy, nell’ultima delle tre sere di concerti del gruppo, durante “Can’t Stand Me Now”, uno dei nuovi pezzi scritti da Barât riguardo la difficile relazione con l’amico di sempre, Doherty ha un crollo nervoso: distrugge la chitarra e l’amplificatore del compagno, comincia a tagliarsi sul petto e abbandona il palco. Ricorderà, Peter, più tardi: “Gli ci sono voluti sei, sette anni per dirmelo, per dirmi la verità: non ti sopporto. Me l’ha cantato e ho pensato ‘Ok, hai ragione. Ci siamo usati a vicenda, siamo arrivati qui, ma, alla fine, non sei un mio amico’”.

What became of the likely lad?

Sebbene fossero ormai allo sbando, i Libertines decidono comunque di riprovarci. Abbandonati dal manager Banny Pootschi, vengono presi in carico da Alan McGee, storico manager degli Oasis e fondatore della Creation Records, mentre a iniziare la produzione del secondo album torna Bernard Butler. Ancora una volta, però, è Doherty l’anello debole della catena: la tensione con Barât è talmente alta da costringere il management a tenere della security in studio durante le registrazioni, per impedire che le continue discussioni tra i due possano diventare violente; in più, il musicista di Hexham non è d’accordo con l’approccio di Butler, e si rifiuta di lavorare con lui.

Richiamato a produrre Mick Jones, al posto dell’ex-Suede, il secondo omonimo album The Libertines esce ad agosto del 2004, registrato nelle pause tra i vani tentativi di disintossicazione di Doherty e i nuovi progetti dei membri della band. Un album stanco, succube dei problemi personali dei musicisti, in cui non è difficile individuare le parti che Carl ha dovuto incidere a causa dell’assenza di Peter (la voce in “What Katie Did”, per esempio, scritta da Doherty per una ex-fidanzata, che dichiarerà più tardi di essere stata iniziata all’eroina proprio da lui). Un vero e proprio testamento, un break up record in cui due delle menti compositive più talentuose del proprio tempo sono costrette a dirsi addio: in modo risentito, Barât, che firma con la sua rabbia l’inizio e la fine del disco, con le celeberrime “Can’t Stand Me Now” (“Have we enough to keep it together/ or do we just keep on pretending?”) e “What Became of The Likely Lad” (“What became of the likely lads?/ What of the dreams we had?/ What became of forever?/ We’ll never know”); affidandosi alla poesia Doherty, che canta le eccellenti “Music When The Lights Go Out” (“And alarm bells ring when you say your heart still sings when you’re with me/ Oh, won't you forgive me? I no longer hear the music”) e the “Ha Ha Wall” (“Tell me can you see me/ Can't you see through it all?/ I'm empty, lost and lonely/ Oh won't you heed my call?/ It's been a long war, we're tired and dirty/ Still not dirty enough for you”).

Albion

babyshamblescorpoA seguito della cacciata definitiva di Doherty e dei suoi vani tentativi di disintossicazione, i Libertines si sciolgono definitivamente nel dicembre 2004. Il progetto parallelo di Doherty diventa, dunque, la sua prima attività: i Babyshambles, pubblicato un primo omonimo singolo, iniziano a tenere concerti, dopo aver stabilizzato la line-up, che comprende oltre allo stesso Doherty, Patrick Walden alla chitarra, Gemma Clarke alla batteria e i fratelli Jamie e Peter Parret rispettivamente alla chitarra e al basso. Nonostante le condizioni non proprio ottimali di Doherty, il tour gode di una buona risposta di pubblico e andrà avanti fino agli inizi dell’anno successivo, quando Gemma Clarke deciderà di lasciare la band, stanca dell’abuso di droghe di Doherty e Walden; il suo posto viene preso dall’ex-membro dei White Sport Adam Ficek.
Down In Albion prende forma in queste condizioni, sotto la supervisione del veterano Mick Jones, con l’intento di rallentare i ritmi forsennati dei Libertines. Non che Doherty abbia dimenticato tutto d’un tratto da dove provenga, d’altronde la primaria fonte d’ispirazione è sempre la stessa: la sua vita autodistruttiva. E l’album ne è pur sempre un fedele specchio: confusionario, chiassoso e che non sembra seguire alcun filo logico, se non gli sbalzi d’umore di Doherty stesso. Il che è certamente un aspetto negativo, almeno in termini di coesione e longevità - sono pur sempre 16 tracce - ma, guardandolo dall’ottica dohertiana, niente meglio di Down In Albion fotografa l’esatto momento vissuto dal suo protagonista. Quando cade, Doherty lo fa sempre alla grande e i momenti più bassi del disco fanno ringraziare l’esistenza del tasto skip.
Il talento, però, non è una cosa che si possa cancellare con un semplice colpo di spugna e in mezzo a tutti questi brani, Doherty è capace comunque di regalare delle gemme: la doppietta iniziale composta da "La Belle Et La Bete" e “Fuck Forever” è qualcosa da ricordare. La prima è una reminescenza dei Libertines, una discesa buia dall’incedere sghembo, con il featuring dell’allora fidanzata top model Kate Moss; la seconda è un singolo perfetto, in pieno stile brit, destinato a diventare in breve tempo un vero e proprio inno per i seguaci del cantautore di Hexham e non solo. Perché Doherty dice, in maniera molto cruda, esattamente quello che ci si voleva sentir dire in quel momento: se la vita fa schifo, mandala a fanculo. Un messaggio che, specie su un certo tipo di pubblico giovane, funziona sempre; il tutto accompagnato da una melodia irresistibile, che si pianta in testa.
Ci sono anche altri richiami alla precendente incarnazione libertina all’interno di “Down In Albion”, da “Killamangiro” a “Loyalty Song”, passando per “What Katie Did Next” e “Back From The Dead”: tutti brani che funzionano, seguendo un sentiero già percorso più volte e che ha portato sempre frutti. Ma, come dicevamo, ci sono anche esperimenti e incompiute, tali da far dubitare persino che siano dello stesso autore, segno tangibile della mancanza di una vera linea guida da seguire per la realizzazione di questo disco. Così può succedere, a una sola traccia di distanza, di ritrovare l’assurdo e totalmente fuori contesto occhieggiare al reggae di “Pentonville” e la magia celebrativa di “Albion”.

Se la ragione sociale di Doherty sul palco è mutata, lo stesso non si può affermare per i comportamenti personali del cantante: nel 2005 viene nuovamente arrestato per aggressione e i problemi di droga sono sempre più pesanti, tanto da causare ritardi continui ai concerti e una rissa sul palco con Walden. Tutti i tentativi di disintossicazione vanno a vuoto e il legame con Kate Moss, già di per sé molto travagliato, si spezza ufficialmente sul finire del 2006.

Lost art of murder

Nonostante tutto, comunque, i Babyshambles riescono a dare un seguito al loro Lp d’esordio e nel 2007 esce Shotter’s Nation. Se Down In Albion è l’emblema dell’ispirazione ritrovata, il suo successore rappresenta un passo sicuramente più ragionato: sostituito Mick Jones con Stephen Street e passata alla major Parlophone, la band cura decisamente di più la produzione e quel che ne esce è un suono che, pur restando nell’ottica del “it’s only rock’n’roll, baby”, risulta più pulito che mai. Inoltre bisogna dare atto a Street di essere riuscito a mettere un freno al delirio compositivo riscontrato in Albion: Shotter’s Nation è un disco molto più organico e lineare, eppure non convince. Il motivo è presto detto: esauriti i fuochi iniziali della tripletta “Carry Up In The Morning”, “Delivery” e “You Talk”, in cui gli echi sghembi dei Libertines e i richiami ai Kinks si sprecano, le rimanenti canzoni sono deboli e piuttosto monotone, con la piacevole eccezione della conclusiva ballata “The Lost Art Of Murder”, impreziosita dalla chitarra di Bert Jansch.
Il resto è catalogabile come poesia insipida: belle parole sparse qui e là, qualche ammiccamento nemmeno troppo convinto ai 60’s, ma nulla di veramente rimarchevole e che resti in testa più del necessario per l’ascolto.

La vita privata e personale di Doherty durante questo periodo è sempre costellata dei soliti problemi con la droga e, di conseguenza con la legge: nel 2008 viene nuovamente arrestato per aver violato la libertà vigilata e sconta 14 settimane di carcere. Ciò nonostante, i Babyshambles intraprendono con successo il loro primo tour nelle arene e Doherty è protagonista anche di un riuscito concerto solista alla Royal Albert Hall, preludio di un album che vedrà la luce l’anno successivo.

Last of the English rose

dohertyvertcorpoGrace/Wastelands
esce, infatti, a marzo 2009 e, insieme all'ormai nume tutelare Stephen Street, ad affiancare l'ex-Libertines nella sua prima impresa solista c'è la chitarra (e la mente) di Graham Coxon. Ancora una volta, la principale fonte di ispirazione per il cantautore di Hexham è la ricerca della propria libertà e identità artistica, trovata ora dopo essersi trasferito da Londra a Parigi. Non è difficile cogliere il mood della capitale francese nei dodici pezzi che compongono il disco, una combinazione di brani scritti in diversi momenti della carriera di Doherty, dai tempi insieme ai Libertines (“A Little Death Around The Eyes” è firmata anche da Carl Barât), ai sodalizi storici, come quello con il controverso poeta e cantautore Wolfman – insieme a cui aveva pubblicato nel 2004 lo splendido singolo “For Lovers”. Un album alquanto introspettivo, in cui le nuove suggestioni musicali si fondono ai tipici riferimenti alla storia e cultura britannica del musicista: dalle storie di guerra di “1939 Returning” alla citazione di “John, Paul, George e Ringo” in “Broken Love Songs”, fino all’immancabile Arcadia, a cui è dedicato il pezzo di apertura del disco: un lungamente agognato paradiso, il seme da cui è sbocciata la carriera del cantautore inglese, che, però, nella parabola esistenziale di Doherty sembra, ormai del tutto perduto.

L'anno successivo accade quello che molti fan attendevano da lungo tempo: Doherty e Barât nuovamente insieme sul palco, per una reunion dei Libertines in occasione del Reading & Leeds Festival, spinti anche da un compenso che (si dice) abbia raggiunto il milione di sterline. La conferenza stampa pre-festival si trasforma nell'usuale guerrilla gig e ai due eventi ufficiali del festival, si aggiungono anche due concerti esclusivi all'Hmv Forum. Le date riscuotono un grande successo, ma nonostante i rumors continui che li vogliono prossimi a intraprendere un nuovo tour mondiale, i Libertines non daranno un seguito alla loro reunion, pur non chiudendo la porta a eventuali possibilità future.

Nothing comes to nothing

Anno 2011, i Babyshambles sono un gruppo allo sbando: Drew McConnell a rischio paralisi dopo un brutto incidente, Mik Whitnall perso nei meandri della droga e Doherty trasferito in Francia, dopo la perdita dell’amica Amy Winehouse. Una situazione che avrebbe sancito la fine di molte band. Ci vorranno due anni per rimettere insieme tutti i cocci e soprattutto è necessaria una vera e propria chiamata alle armi da parte del bassista McConnell che, guarito dalla lunga convalescenza, decide di tirare fuori gli ‘Shambles dalla soffitta e far rientrare il problematico frontman dal suo esilio parigino. Nasce così Sequel To The Prequel, tenuto insieme dal solito Stephen Street, uno dei pochi capace di tenere in riga l’ex-Libertines e di ottenere il massimo da lui in studio. L’evolversi di tutte queste situazioni fa in modo che il disco si presenti come l’album più aperto e positivo dell’intera discografia degli inglesi, con la grossa novità di McConnell co-autore dei pezzi, alla pari con il leader storico Doherty.
Il risultato è che Sequel To Prequel è un album squisitamente immediato, piacevole da ascoltare e forte dell’aura magnetica di tutte le personalità in gioco nella sua realizzazione. Non è difficile cogliere le cifre stilistiche del cantautore di Hexham nelle 12 tracce del disco così come è facile captarne la trasformazione: a partire dall’apertura, quella “Fireman” che ha le sue radici nei primi Libertines di “The Boy Looked At Johnny”, ma che suona come “Bank Holiday” dei Blur; o “Fall From Grace”, primo di una serie di episodi folk all’interno del disco, la cui parte iniziale fa sospirare pensando a “La Belle et la Bete” che apriva Down In Albion, con cui condivide l’impostazione ritmica ma non proprio l’atmosfera; fino a “Dr. No”, che trasporta i Babyshambles dal reggae di strada di “Pentonville” alle atmosfere del ripulito reggae britannico degli UB40 di “Food Fot Thought”, e a “Farmer’s Daughter” in cui Doherty si spinge fino a un cantato propriamente tale, mai sentito prima.

Se c’è un uomo per cui non esistono le mezze misure, questo è Peter Daniell Doherty.

My Waterloo

Giunti a metà della nuova decade, erano in tanti a chiedersi che fino avessero fatto i likely lads. Volendo essere onesti, se n’erano abbastanza perse le tracce. I progetti paralleli dei più rilevanti Pete e Carl erano riusciti, con più o meno qualità, a tenerli a galla per un certo periodo di tempo, durante il quale il talentuoso Doherty era finito più spesso sulle pagine dei tabloid rispetto a quelle delle riviste musicali. Spenti definitivamente anche quei riflettori e trascorsi un paio d’anni di dimenticatoio assoluto, i due devono aver pensato che seppellire l’ascia di guerra fosse la mossa più saggia da fare. D’altronde i soldi offerti per quelle manciate di concerti di reunion erano troppi per non essere accettati. Ma diciamoci la verità, nessuno di noi credeva in un nuovo disco. Eppure qualcosa deve essere successo durante quei fugaci incontri, per convincere Doherty che sì, forse questa volta valeva davvero la pena fare sul serio e disintossicarsi una volta per tutte.

La Thailandia è stato il paese della rinascita personale di Doherty e di quella di gruppo dei Libertines. Lì la band ha firmato un nuovo contratto con la Virgin e registrato il nuovo album, per facilitare Pete nel suo tortuoso percorso di disintossicazione. Lì è stato girato anche il video di “Gunga Din”, che ha sancito il ritorno ufficiale degli ex-ragazzi terribili. Proprio questa canzone aveva fatto sperare, con la sua andatura reggae degna dei bei tempi di Brixton, gli urletti di Doherty e il ritornello a due voci, il meglio per il nuovo Lp, Anthems For Doomed Youth, almeno sotto l’aspetto attitudinale. E in effetti anche la traccia d’apertura “Barbarians” rema verso questo concetto, ovvero quello dei Libertines sporchi e diretti, vogliosi di fare festa per un ritorno piuttosto inatteso, anche da parte loro. Ma quella che sembra la migliore delle premesse svanisce immediatamente, lasciando spazio a una versione del quartetto inglese decisamente più pulita. Anche negli episodi più movimentati, se vogliamo anche aggressivi (musicalmente parlando), si ha come l’impressione che i quattro tengano il freno a mano tirato. O che non ce la facciano più.
Mancano l’urgenza, la frenesia, il furore degli anni Zero, ma non gli spunti melodici che hanno caratterizzato la produzione storica di Barat&Doherty, con la title track che si candida a essere la nuova “Music When the Lights Go Out” e, soprattutto nel finale, “Dead For Love”: pezzi che sembrano rimasti sospesi da “Up the Bracket” e ripresi in mano con dieci anni di esperienza in più sulle spalle. Difficile dire se si tratti di maturità o stanchezza, però.

È forte la nostalgia, ascoltando Anthem For The Doomed Youth: impossibile non mettere a confronto i nuovi brani con quelli dei due dischi dei Libertines precedenti, scorgendo nelle nuove canzoni la stessa impronta e lo stesso stile, ma accorgendosi impietosamente di quanto le nuove registrazioni ne siano una versione sbiadita e edulcorata.
Nell’anno dei grandi ritorni, anche quello dei likely lads si allinea alla tendenza: l’inaspettata rentrée di una band entrata di diritto nella storia (e rimasta intrappolata nel suo passato) con un album che, come si lascia ascoltare, si farà dimenticare molto facilmente: gli inni per la nuova “gioventù bruciata”, ormai, sono ben altri.

Nel 2016 esce il nuovo album solista di Doherty, Hamburg Demonstrations. Un lavoro che prende il largo molto lentamente con le poliglotte "Kolly Kibber" e "Down For The Outing", che suonano familiari ma annoiano un po'. Il duetto con Suzie Martin solleva di colpo i toni dell'album, "Birdcage" è una splendida ballad, probabilmente molto autobiografica, che dimostra come anche la voce punk di Doherty può sposarsi con la melodia. La prima versione di "I Don't Love Anyone (But You're Not Just Anyone)" cambia il sound del disco, proprio nel bel mezzo dell'ascolto cominciano incursioni folk più marcate. Il brano, scelto anche come singolo, è costruito su alcune note e sul ritornello della canzone popolare "When Johnny Come Marching Home" (a sua volta ispirata all'irlandese "Johnny I Hardly Knew Ya") e brilla sicuramente sulle altre tracce.
Anche la dylaniana "Oily Boker" e la vintage "The Whole World Is Our Playground" sottolineano questa vena folk emergente. Merita una menzione anche il testo di "Hell To Pay At The Gates Of Heaven", con un sonetto che interpella direttamente un terrorista fanatico religioso tra toni sarcastici e qualche verso tagliente, in tema con l'esibizione dello stesso Doherty al Bataclan di Parigi, dove ebbe l'onere e l'onore di riaprire la stagione dei concerti in un locale così segnato dalla storia e dal sangue.

Hamburg Demonstrations resta in uno stallo creativo come il suo predecessore. Alla fine dell'album si è incerti su ciò che si è ascoltato, e l'immediatezza punk di Doherty si perde. Tuttavia trapela una certa serietà di intenti, che lascia sperare in un periodo di impegno profuso nella musica più che nell'apparire sulle copertine dei rotocalchi britannici.

Anche nel 2019 Doherty prova a reinventare se stesso senza inventare assolutamente nulla. Peter Doherty And The Puta Madres è un album la cui impertinenza è condensata già nel titolo. Per il resto il Nostro mette in un unico calderone le sempre stimolanti lezioni di celtic-blues dei Dexys (“All At Sea“, “Someone Else To Be”), il passato non-passato di drug addicted (“Punk Buck Bonafide”), residui new-wave (“Who’s Been Having You Over”), astuzie indie-rock (“Shoreleave”) ed esotismi dalla collocazione indefinibile (“The Stream”), con la stessa convinzione con la quale un influencer scatta l’ultimo selfie.

Abile nel sollevare l’attenzione mediatica sulle personali storie di dissolutezza ed eccessi, che ne dovrebbero consacrare lo status di popstar, Peter Doherty trascura ancora una volta l’essenza stessa del rock’n’roll, ovvero riuscire a scrivere un buon repertorio di canzoni. I Libertines ne avevano in verità abbastanza nel proprio carniere, ma li c’era Carl Barat a reggere il baraccone, e non è affatto una trovata divertente quella di citare prima Lou Reed e poi gli Oasis all’interno della stessa canzone (la già menzionata “Someone Else To Be”), né convince il soporifero e ambizioso arrangiamento di “Travelling Tinker”. 

“Peter Doherty And The Puta Madres” è un disco che dietro la ridondante messa in scena nasconde un vuoto creativo, nonché l’incapacità di Doherty di intonare una qualsiasi melodia senza aggrovigliarsi su se stesso. Un disco talmente inutile che senza dubbio sarà salutato come un ritorno alla forma (Peter ha scomodato anche il bravo chitarrista dei Trampolene, Jack Jones), guadagnandosi il premio come opera più confusa e sconclusionata dell’anno.

All Quiet On The Eastern Esplanade vede il ritorno della premiata (e riconciliata) ditta Doherty-Barât a quasi dieci anni da “Anthems For Doomed Youth”, alle prese con il classico indie-rock a cui ci avevano abituati, costellato da qualche (ormai raro) sprazzo garage, e ballate articolate di matrice chamber-pop. Prodotto da Dimitri Tikovoï (Placebo, Horrors, Black Honey) e registrato all’hotel/studio della band The Albion Rooms di Margate, l’album si divide tra ciniche e velate invettive rivolte al sistema e un grande desiderio di evasione avvolto da arie nostalgiche.
Il sipario si alza sulla volontà di fuga in cerca di nuovi scenari sulle note della dinamica e 
catchy “Run Run Run”, furbo anthem in grado di fare presa efficacemente fin dal primo ascolto, spingendo su influenze power pop à-la Squeeze di “Cool For Cats”. Si continua con il mood estivo e i cori di “Mustangs”, che volge lo sguardo a “Loaded” dei Velvet Underground, per poi mutare i toni con “I Have A Friend”, i cui riff energici ruotano intorno al delicato tema del conflitto tra Russia e Ucraina.

L’incedere grandioso e gli archi di “Merry Old England” incorniciano un altro argomento di attualità ovvero quello dell’immigrazione, esprimendo il desiderio di un mondo privo di muri e confini netti, e soprattutto senza quell’ostilità rivolta a chi viene da lontano in cerca di fortuna. La sottile e malinconica ballad sostenuta da chitarra acustica, piano e strumenti ad arco “Man With The Melody” è cantata a quattro voci dall’intero gruppo, mentre nella successiva e spensierata “Oh Shit” tornano le chitarrine (con una velata citazione ai Sex Pistols nel finale), i ritmi orecchiabili e i sing-along. Segna un buon highlight a metà del percorso la decadente e scura ballata “Night Of The Hunter”, che trae ispirazione dall’omonimo romanzo di Davis Grubb, e richiama a più riprese nelle melodie un passaggio de “Il lago dei cigni” di Tchaikovsky.

L’ultima parte dell’opera perde leggermente smalto rispetto alle premesse iniziali, mantenendo tuttavia un andamento nella media con i passi bluesy di rimando ai Doors di “Baron’s Claw”, nella quale spiccano una sezione di fiati e il piano; il pop placido e politico di “Shiver”, le cui liriche trattano la morte della regina Elisabetta II, le sferzate veloci di “Be Young”, e la conclusiva e beatlesiana “Songs They Never Play On The Radio”, versione riarrangiata di un vecchio brano di Pete Doherty, a cui sono stati integrati alcuni contributi testuali di Carl Barât.
Tutto fila incredibilmente liscio in “All Quiet On The Eastern Esplanade”: caratterizzato da un discreto equilibrio e una ritrovata armonia generale, che ha permesso ai Libertines di condividere totalmente ogni singolo passaggio nella creazione di tutte le tracce, è il primo lavoro a vedere accreditati in effettiva veste di songwriter anche il bassista John Hassall e il batterista Gary Powell. Tale cooperazione è stata la chiave per riuscire ad assemblare l’opera, ponendo ogni pezzo nella posizione corretta. Nessuna invenzione epocale, s’intende, ma solo uno scorcio prospettico dell’odierna merry old England, con i suoi pregi e difetti.


Contributi di Gabriele Senatore ("Hamburg Demonstrations"), Gianfranco Marmoro ("Pete Doherty & The Puta Madres") e Martina Vetrugno ("All Quiet On The Eastern Esplanade")

Libertines - Babyshambles - Peter Doherty

Discografia

LIBERTINES
Up The Bracket (Rough Trade, 2002)7,5
The Libertines (Rough Trade, 2004)6,5
Anthems For Doomed Youth(Virgin EMI, 2015)6,5
All Quiet On The Eastern Esplanade(Universal / Emi, 2024)
BABYSHAMBLES
Down In Albion (Rough Trade, 2005)7
Shotter's Nation (Parlophone, 2007)5,5
Sequel To The Prequel (Parlophone, 2013)6,5
PETER DOHERTY
Grace/Wastelands (Emi, 2009)6
Hamburg Demonstrations (Bmg, 2016)6
Peter Doherty & The Puta Madres (Strap Originals, 2019)5
The Fantasy Life Of Poetry & Crime (Strap Originals, 2022)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

 Up The Bracket
(da "Up The Bracket", 2002)
 Time For Heroes
(da "Up The Bracket", 2003)
 

Don't Look Back Into The Sun
(singolo, 2003)

 Can't Stand Me Now
(da "The Libertines", 2004)
 Fuck Forever
(da "Down In Albion", 2005)
 Albion
(da "Down In Albion, 2005)
 Delivery
(da "Shotter's Nation, 2007)
 You Talk
(da "Shotter's Nation, 2007)
 Last Of The English Rose
(da "Grace/Wasteland", 2009)
 Broken Love Song
(da "Grace/Wasteland", 2009)
 Music When The Lights Goes Out
(live, Reading 2010)
 Nothing Comes To Nothing
(da "Sequel To The Prequel", 2013)
 Gunga Din
(da "Anthems For Doomed Youth", 2015)

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