La felicità non è per domani, non è ipotetica, inizia qui e ora. Non lasciamoci dominare dalla violenza, dall'egoismo, dalla disperazione. Non sacrifichiamoci al culto del pessimismo. Rialziamoci. La natura ci ha donato regali straordinari. Nulla è ancora deciso per il nostro continente, nulla è ancora perduto. Approfittiamo finalmente delle sue meraviglie. Intelligentemente, a modo nostro, al nostro ritmo, come uomini responsabili e fieri della loro eredità. Costruiamo la terra per i nostri figli e smettiamo di compiangerci. L'Africa è anche gioia di vivere, ottimismo, bellezza, eleganza, grazia, poesia, dolcezza, sole, natura. Siamo felici di esserne figli e lottiamo insieme per costruire la nostra felicità
(Salif Keïta, dicembre 2001)
La voce di un continenteIl Mali è universalmente riconosciuto come uno dei pilastri della musica africana, grazie a una tradizione culturale e musicale che affonda le radici nei secoli. Lì, la musica non è solo una forma d’arte, ma un linguaggio vitale attraverso il quale si tramandano storie, valori e identità collettive. Al centro di questa tradizione ci sono i
griot, figure emblematiche che per secoli hanno ricoperto il ruolo di custodi della memoria storica e culturale dell’Africa occidentale. I
griot, o
jeli nella lingua mandinga, sono molto più che semplici musicisti: sono poeti, narratori e archivisti viventi, responsabili di preservare e tramandare la storia orale delle comunità attraverso i secoli. Cantano le gesta degli antenati, celebrano i momenti cruciali della vita e fungono da consiglieri spirituali e mediatori sociali. Nelle loro mani, strumenti della tradizione mandinga come la
kora (arpa a liuto costituita da una mezza zucca svuotata e ricoperta di pelle di animale), il
balafon (xilofono di legno, che usa delle zucche come casse di risonanza) e lo
ngoni (strumento a corde composto da una cassa armonica coperta da una pelle di capra e da un collo di legno) diventano mezzi potenti per trasmettere il passato e interpretare il presente.
Questa eredità culturale rende il Mali il cuore pulsante della musica africana e il crocevia di influenze che hanno plasmato sonorità globali. Dopo aver viaggiato attraverso l’Oceano Atlantico con la diaspora africana, i ritmi e le melodie delle tradizioni
griot si sono trasformati nel
blues, nei canti spirituali e, successivamente, in generi musicali come il jazz, il
soul e il rock.
Martin Scorsese, nel suo documentario "Dal Mali al Mississippi", illustra questo viaggio affascinante, tracciando un legame indissolubile tra le radici musicali dell’Africa occidentale e la nascita della musica afroamericana, oggi pilastro della cultura mondiale.
Discendente diretto di Sundiata Keïta, eroe nazionale e fondatore dell’Impero del Mali nel XIV secolo, Salif Keïta è una delle figure più emblematiche della musica maliana, africana e non solo, portando nel sangue un’eredità nobile e storica. Nonostante le difficoltà e gli ostacoli che le hanno costellate, la sua vita e la sua carriera incarnano una storia di sfide e trionfi che trascendono il peso della discendenza reale, affermandosi come un simbolo di resilienza, arte e impegno sociale.
Salif nacque con una condizione di albinismo, vista in molte culture africane come un segno di sfortuna o stregoneria. Questo lo rese bersaglio di discriminazioni e isolamento fin dalla giovane età, persino all'interno della sua famiglia. La scelta di intraprendere una carriera musicale, considerata indegna per un discendente reale, ne peggiorò ulteriormente la situazione. Fu disconosciuto dalla famiglia e costretto ad allontanarsi dal suo clan. Questo esilio, però, divenne la scintilla di una carriera straordinaria, spingendolo a trasformare la sofferenza personale in un messaggio universale.
Un episodio significativo della sua infanzia illustra la forza del suo spirito: si racconta che, nonostante i pregiudizi, il giovane Salif fosse solito cantare nei campi, attirando l'attenzione degli abitanti del villaggio per la sua voce straordinaria. "La mia voce era la mia salvezza", dirà anni dopo, riconoscendo come il canto gli abbia dato una via di fuga da un destino segnato dal rifiuto e dalla solitudine. Oltre alla musica, Salif Keïta è un fervente attivista per i diritti delle persone albine, una causa che ha abbracciato con passione per combattere le ingiustizie e le violenze a cui molti albini sono ancora oggi sottoposti in Africa. La sua opera non si limita ai palchi, ma abbraccia una lotta più ampia per l’uguaglianza e la dignità umana.
La traiettoria di Salif Keïta, dalla marginalizzazione al riconoscimento globale, riflette non solo il suo talento unico, ma anche la sua capacità di trasformare il personale in universale. Per oltre mezzo secolo, ha percorso la scena musicale africana da protagonista, innovando i linguaggi tradizionali e portando la cultura del continente in ogni angolo del mondo. La sua voce, definita la "Voce d’oro dell’Africa", è diventata un simbolo di speranza e orgoglio per un intero continente.
Dalla nascita agli esordi musicali
Salif Keïta nacque nel 1949 a Badugu Djoliba, un villaggio lungo il fiume Niger e un'importante via di collegamento tra Bamako (capitale del Mali) e Siguiri (Guinea). Keïta era il terzo di tredici figli nati da Sina e Nassira Keïta, poveri proprietari terrieri di Djoliba, dove è cresciuto. Entrambi i suoi genitori erano nobili, discendenti della famiglia reale di Sundiata Keïta.
Sebbene fosse un villaggio, Djoliba era rilevante nella regione grazie a una scuola, un centro sanitario e un mercato settimanale che attirava commercianti da tutta l'area. Dopo l’indipendenza del Mali nel 1960, fu scelto come primo "villaggio modello" dal governo e dallo USAID per essere ricostruito in stile moderno, diventando un polo di trasformazione sociale e culturale.
In questo ambiente dinamico, Salif Keïta entrò in contatto con varie influenze, tra cui la musica tradizionale dei cacciatori, suonata con l’arpa a sette corde (
simbi) e accompagnata da racconti epici e spari rituali. Suo padre era uno di questi maestri cacciatori. Inoltre, le celebrazioni agricole, i riti di passaggio e i matrimoni erano animati da tamburi e canti di lode, spesso eseguiti dagli
jali del vicino villaggio di Kirina, patria di rinomati artisti come Wa Kamissoko e Nantènègue Kamissoko. A Djoliba, la modernità musicale arrivò con i chitarristi di etnia
mande provenienti da diverse città della Guinea, in particolare dal vicino villaggio di Samanyana. Questi musicisti, figure chiave nello sviluppo dello stile
mande moderno, intrattenevano i giovani con melodie come "Jarabi", "Soumba" e "Nyakadi gwasa".
Un'altra influenza venne dagli insegnanti della scuola di Djoliba, provenienti da diverse regioni del Mali ma formatisi a Bamako, dove avevano assimilato e suonato generi occidentali come il jazz afro-cubano, il
blues e il rock. Durante le feste notturne nel quartiere degli insegnanti, si ascoltavano brani di Ray Charles, John Lee Hooker e Wes Montgomery. Questi insegnanti, che mescolavano musica occidentale e tradizione
mande, ispirarono Salif, che scoprì la passione per la chitarra e il canto.
Segnato da simili esperienze, Salif Keïta decise di diventare musicista, nonostante le difficoltà legate alla sua discendenza nobile. Anche se come discendente diretto di Sundiata Keïta, il destino di Salif sembrava naturalmente indirizzato verso un ruolo di prestigio e autorità nella comunità, la sua nascita fu segnata da una caratteristica che avrebbe cambiato il corso della sua vita: Salif era albino. In una società impregnata di credenze superstiziose, l’albinismo era spesso visto come un segno di malaugurio o come una condizione mistica. Con la pelle chiara come quella dei colonizzatori francesi recentemente cacciati dal paese, Salif era percepito come un'aberrazione, ispirando un mix inquietante di curiosità e paura. Nell'Africa occidentale, gli albini venivano frequentemente derisi, emarginati o perfino perseguitati. In casi estremi, erano vittime di violenze orribili, con il loro corpo oggetto di mutilazioni per presunti rituali magici. Inoltre, la loro condizione li esponeva anche a difficoltà pratiche: i raggi implacabili del sole erano una tortura per la loro pelle sensibile, e molti soffrivano di gravi problemi alla vista. Salif ricorda di aver percepito di non avere lo stesso colore della pelle degli altri già all'età di cinque anni.
Suo padre rimase scioccato, anche se non del tutto sorpreso, nel constatare l’albinismo del figlio: c'erano stati altri con la stessa condizione nella famiglia di Nassira, madre di Kalif. L'albinismo fu interpretato erroneamente come un cattivo presagio nel suo Mali natale e per questo motivo il padre mandò via lui e Nassira. Nassira dovette nasconderlo per paura di rappresaglie da parte di folle superstiziose. Dopo che suo padre ricevette consigli da un capo religioso, Keïta e sua madre tornarono a casa per vivere una vita difficile nella fattoria di famiglia. Lavorò nei campi prima che suo padre lo costringesse ad andare a scuola. Lì, il suo aspetto spaventò i suoi compagni di classe: venne così evitato e ridicolizzato. Inoltre, la sua scarsa vista ne influenzò negativamente il rendimento scolastico, così fu cacciato.
Solo e desolato, il giovane Keïta trovò conforto nella musica, ma era limitato dai ruoli ereditari.
Suo padre lo scacciava ogni volta che lo sentiva cantare o suonare la chitarra, considerandolo un gesto inappropriato per un uomo di nobili origini. Secondo la tradizione maliana, la musica era un'arte riservata ai
griot, poeti e cantori itineranti, incaricati di tramandare le epopee reali e le storie familiari. Per un Keïta, appartenente a una stirpe regale, dedicarsi alla musica era inconcepibile, un atto che violava le rigide convenzioni sociali. Anche sua madre temeva che il figlio, un
horon, potesse essere assimilato alla condizione subordinata degli
jali, che dipendono dai loro patroni per il sostentamento. La decisione di Salif di abbandonare gli studi, che avrebbero potuto garantirgli una posizione di funzionario statale in quanto
horon, per diventare musicista, deluse fortemente la sua famiglia e Salif fu quindi escluso da essa e costretto a vivere ai margini del suo clan. In un'intervista, il suo defunto padre Sina Keïta affermò: "Dissi a Salif che non mi piaceva che suonasse la chitarra perché questo non faceva parte della nostra eredità familiare (
fasiya); ogni volta che lo vedevo con una chitarra, lo cacciavo fuori di casa finché un giorno disse: ‘Sì, padre, smetterò’. Da quel giorno, prendeva la sua chitarra per andare a suonarla da qualche altra parte nel villaggio".
Questa contrapposizione tra istruzione e musica riflette una visione profondamente radicata nella società maliana. L’educazione occidentale è associata all'indipendenza e all'autosufficienza, valori fondamentali della nobiltà (
horonya). Al contrario, la musica è tradizionalmente legata alla dipendenza, poiché i musicisti
jali dichiarano apertamente il loro legame con i mecenati. Questo contrasto ha alimentato il timore che Salif, pur essendo un
horon, cadesse in una condizione di dipendenza simile a quella degli artisti di casta.
Secondo il sociologo guineano Sory Camara, nella società
mande la condizione degli
jali (musicisti di casta) e, per estensione, dei
nyamakala (artigiani e altri gruppi specializzati) è fissa: chi nasce in questa casta vi rimane per tutta la vita. Al contrario, lo
status dei
horon è instabile e dipende dal successo e dal potere acquisito, rendendoli costantemente in competizione con i
jon (ex-schiavi o prigionieri) che cercano di rovesciarli. Nella storia del Mali, ci sono stati numerosi esempi di questa dinamica sociale, con ex-schiavi che sono riusciti a prendere il potere e fondare nuove dinastie, come accadde nell'Impero del Mali e nel Regno Bamana di Segu nel XIX secolo.
Gli
jali svolgono un ruolo fondamentale nel mantenimento dello status sociale e del potere. La loro posizione è fissa e garantisce loro una sorta di "immunità sociale": possono esprimersi con una libertà e un’esuberanza che sarebbero inaccettabili per altri. Non avendo potere politico diretto, fungono da mediatori nelle relazioni sociali più delicate, come matrimoni o conflitti tra famiglie e clan, e agiscono come propagandisti per chi detiene il potere o la ricchezza. La musica e i discorsi degli
jali possono essere comprati con denaro e servono a rafforzare lo status e la legittimità di una persona o di un clan. Per questo si definiscono "strumenti" della società: il loro compito è elevare i loro patroni attraverso l’arte della parola e della musica, accettando in cambio doni materiali. Questa capacità di umiltà strategica, chiamata
majigin, permette loro di "abbassarsi" per far risaltare i loro benefattori e consolidare così il loro ruolo essenziale nella società
mande.
Il ruolo tradizionale del musicista
mande come creatore e confermatore di
status sociale continua ancora oggi e ha influenzato l'immagine del musicista moderno. In Mali, il musicista è spesso visto come uno strumento nelle mani dei potenti, un problema particolarmente significativo per un membro del clan Keïta negli
anni Sessanta. Infatti, già durante la lotta per l’indipendenza negli anni Cinquanta, i musicisti furono spesso usati come propagandisti dai politici. Il primo presidente del Mali, Modibo Keïta, cercò di interrompere questa tradizione facendo diventare i musicisti dipendenti pubblici incaricati di cantare le lodi della nazione piuttosto che di singoli individui. Tuttavia, con il colpo di stato del 1968 e l’ascesa del regime militare di Moussa Traoré, questa politica cambiò radicalmente, come vedremo più avanti.
Nonostante ciò, Salif proseguì ostinatamente con la musica. Da solo, immerso nei campi di mais e manioca del padre, affinò la sua voce unica, gridando contro gli uccelli e i babbuini che minacciavano i raccolti. La solitudine e il rifiuto sociale lo spinsero ad approfondire il canto tradizionale dei
griot, traendone forza e ispirazione. Cantare divenne per lui un'ancora di salvezza: in seguito, avrebbe dichiarato che la musica lo salvò dalla follia.
Quando le circostanze divennero insostenibili, Salif lasciò il villaggio di Djoliba, in cerca di una nuova vita, trasferendosi nella capitale del Mali, Bamako, dove le opinioni sull'albinismo erano un po' più illuminate e nessuno conosceva la sua discendenza. La sua scelta di dedicarsi alla musica lo allontanò ancora di più dalla sua famiglia. Tuttavia, quando si trasferì nella capitale per studiare, l'anonimato urbano e la durezza delle relazioni sociali resero la sua vita più difficile. Dopo il fallimento scolastico, perse la borsa di studio e si ritrovò senza un diploma né un lavoro stabile, finendo tra i tanti poveri attratti dalla città in cerca di un futuro migliore. Il suo albinismo rese ancora più difficile la sopravvivenza nella "giungla urbana" di Bamako. Qui cominciò a esibirsi nei bar, per strada e nei contesti più disparati, guadagnandosi da vivere con le poche monete che il pubblico lasciava nella sua chitarra. Nel film documentario "Destiny Of A Noble Outcast", Salif ricorda di come in quegli anni avesse imparato diverse tecniche di canto, scoprendo come cantare con il ventre, il petto e la testa e come il calore umano incontrato lo facessero sentire finalmente accettato e vivo. Le sue
performance attiravano l’attenzione per la potenza della sua voce e la profondità delle sue interpretazioni, che combinavano l’epica tradizionale con un’emozione personale autentica. In quegli anni difficili, Salif iniziò a costruire il proprio percorso, trasformando la sua condizione in una forza artistica che avrebbe poi conquistato il mondo.
La scena musicale del Mali degli anni 60-70Alla fine degli anni
Sessanta, Bamako era un centro pulsante di fermento culturale. Fino ad allora, la musica
mande era un fenomeno relativamente locale, limitato ai confini storici dell’Impero medievale di Soundiata Keïta. Era diffusa principalmente in Guinea, Mali, Senegambia e in alcune regioni dell’attuale Costa d’Avorio, Burkina Faso, Sierra Leone e Liberia. Questa tradizione musicale aveva un ruolo cruciale nel preservare l’identità culturale dell’Africa centro-occidentale, fungendo da legame tra le popolazioni della regione, anche di fronte ai cambiamenti istituzionali del XVII e XVIII secolo e al colonialismo europeo nel XIX secolo.
La musica
mande resistette a lungo alle influenze moderne che si diffondevano sulle coste atlantiche e nel bacino del Congo-Zaire, dove si svilupparono generi come l’
highlife, la
palm wine music, il
goumbay, la rumba congolese e la rumba afro-cubana. Questi stili, influenzati dal commercio transatlantico degli schiavi, si mescolarono in seguito con generi musicali europei e americani, penetrando gradualmente anche nell’area culturale
mande. I giovani
mande, sempre più esposti a queste influenze, iniziarono a includerle nel repertorio dei loro gruppi musicali.
Nel primo Novecento, in Mali e Guinea, i generi musicali tradizionali, legati alle festività agrarie e alle epiche storiche, coesistevano con le nuove musiche importate. I primi restavano confinati nelle famiglie ereditariamente depositarie della tradizione o nelle accademie musicali di Kela, Kirina, Kita, Kankan e Kissidougou, oltre che nelle comunità rurali che si trasferivano in città. I secondi, invece, erano più diffusi tra le élite urbane e intellettuali, spesso coinvolte in associazioni culturali che favorivano il modernismo e l’emancipazione politica nel secondo dopoguerra.
Questa convivenza musicale continuò senza grandi cambiamenti fino agli anni dell’indipendenza, quando in Guinea e poi in Mali emersero forze nazionaliste, che spinsero gli artisti tradizionali
mande ad adottare un approccio più moderno alla loro musica. Dopo l'indipendenza dalla Francia nel 1960, il governo maliano, guidato dal presidente Modibo Keïta, adottò politiche volte a promuovere la cultura nazionale, considerata essenziale per rafforzare l'identità del paese. Modibo, un socialista dottrinario, vedeva la cultura come uno strumento per liberare le menti dei maliani dalle eredità coloniali di inferiorità e forgiare un senso di orgoglio e coesione nazionale. Seguendo l'esempio del presidente guineano Sékou Touré e del suo credo in
authenticité e
africanité, il neopresidente utilizzò musica, poesia e danza come mezzi per costruire la nazione e alimentare l’identità post-coloniale.
Questa evoluzione divenne urgente perché i regimi a partito unico di Sékou Touré in Guinea e Modibo Keïta in Mali condannarono l’imitazione dei generi musicali occidentali, considerandola un atto controrivoluzionario. Per sostituire la musica europea, la musica tradizionale doveva adattarsi ai gusti urbani, fortemente influenzati dai ritmi afro-cubani, afro-caraibici, congolesi e
High Life. Di conseguenza, molte canzoni epiche e tradizionali furono riarrangiate con sonorità afro-cubane per renderle più adatte al ballo e al pubblico giovane urbano, noto come
évolués. Gli artisti guineani, che erano molto più avanti delle loro controparti maliane, abbracciarono questa missione di modernizzazione, portando la musica
mande a un nuovo livello.
Tra i protagonisti di questo cambiamento ci furono Sory Kandia Kouyaté e Aboubacar Demba Camara, entrambi idoli giovanili di Salif. Kouyaté, stella del Ballets Africains di Keïta Fodeba, combinò la tradizione
griot con la musica da ballo, collaborando con orchestre come Kélétigui et ses Tambourinis, specializzata in musica afro-cubana. Demba Camara, invece, fu il cantante del leggendario Bembeya Jazz National, che riuscì a fondere melodie tradizionali con ritmi afro-cubani e congolesi grazie all’uso di strumenti moderni forniti dallo Stato. Il gruppo divenne il simbolo del successo della politica di modernizzazione musicale della Guinea, come dimostrato dall’album
L’Authenticité.
Questa politica culturale guineana ottenne rapidamente un grande seguito regionale, sostenuta dal regime di Sékou Touré, che vedeva nella musica un mezzo per dimostrare la superiorità della propria ideologia rispetto ai paesi vicini, come Costa d’Avorio e Senegal, accusati di essere troppo legati agli ex-colonizzatori. La Guinea rifiutò perfino di partecipare al Primo Festival delle Arti Negre di Dakar nel 1962, promosso dal presidente-poeta Léopold Sédar Senghor per celebrare l’unità culturale africana e il contributo del Negrismo alla civiltà universale. In alternativa, la Guinea intensificò la promozione della sua visione militante della musica africana attraverso la casa discografica nazionale Silyphone e la sua potente radio Voice of the Revolution, che trasmetteva in tutta l’Africa e nel mondo per diffondere il messaggio del regime.
Seguendo l’esempio guineano, il governo maliano lanciò le "Semaines de Jeunesse" (settimane della gioventù), eventi annuali in cui artisti, musicisti e ballerini provenienti da tutto il paese si riunivano per celebrare la diversità culturale del Mali. Modibo istituì inoltre orchestre nazionali, come l’Orchestre Nationale A, B (poi National Badema), C (poi Super Djata Band) e l’Ensemble Instrumental du Mali, reclutando i migliori talenti musicali del paese, che divennero dipendenti statali. Parallelamente, incoraggiò ogni regione a creare la propria orchestra; città come Mopti, Kayes, Ségou e Gao risposero con entusiasmo.
Inizialmente, queste orchestre suonavano salsa e jazz, generi già amati dai musicisti locali, ma furono presto esortate a "essere più africane". I testi cominciarono a celebrare la nuova nazione nelle lingue locali, mentre ritmi latini si fondevano con poesie epiche e canti di lode presi in prestito dai
griot.
Al centro di queste epopee vi era il già citato Sunjata Keïta, il cui mito serviva da base simbolica per il rinato orgoglio nazionale. La storia di Sunjata rappresentava per il Mali ciò che Re Artù era per gli inglesi o Mosè per Israele: un modello di unità e grandezza.
Tuttavia, questa visione paternalistica della cultura incontrò resistenze. La gioventù maliana, pur rispettando la figura di Sunjata, guardava altrove per ispirazione. I giovani veneravano eroi come
James Brown, Che Guevara, Malcolm X e Patrice Lumumba, e la loro colonna sonora era una miscela di funk, soul, rock e salsa, con artisti come
Otis Redding, i
Beatles,
Santana e Celia Cruz. La moda era influenzata più da Carnaby Street e Haight-Ashbury che dalle tradizioni locali. Lo spirito adolescenziale maliano era ribelle e deciso a esplorare orizzonti diversi rispetto alle rigide norme imposte dal governo.
Nel 1968, il colpo di stato militare che depose Modibo cambiò drasticamente il panorama culturale. Il nuovo regime, guidato dal tenente Moussa Traoré, abolì le Semaines de Jeunesse e molte orchestre nazionali. Tuttavia, il successo dell’Ensemble Instrumental du Mali al festival panafricano di Algeri nel 1969 spinse Traoré a istituire le "Biennali artistiche, culturali e sportive", che divennero eventi fondamentali per promuovere l’arte e la cultura locale. Le Biennali non erano solo competizioni, ma anche incubatori di talento e innovazione, contribuendo a far emergere una nuova generazione di musicisti che formarono band sponsorizzate da organizzazioni, aziende o mecenati.
I nuovi leader, giovani e ambiziosi, adottarono un atteggiamento più personalistico nei confronti degli
jali e trasformarono i musicisti in cantori privati delle loro gesta. Frequentavano i
night-club di Bamako e sfruttavano gli artisti per la loro propaganda personale. Un esempio emblematico fu quello del tenente Tiekoro Bagayoko, che pretendeva che le band suonassero brani dedicati esclusivamente a lui nei locali. Questo clima politico e sociale favorì una cultura dell’ostentazione e dello spreco di denaro, consolidando la relazione cliente-patrono tra politici e musicisti. La creazione di discoteche statali migliorò la condizione dei musicisti, rendendoli più rispettati e garantendo loro una certa stabilità finanziaria.
Salif Keïta, grazie alla radio nazionale e agli album finanziati dallo Stato, ottenne notorietà e un reddito sicuro. Tuttavia, il controllo del governo sulla musica causò frustrazione tra gli artisti, poiché erano costretti a sostenere ideologie politiche, limitando la loro libertà creativa. Per questo motivo accanto alle orchestre statali si sviluppò una vivace scena musicale privata, legata a hotel e locali notturni. Tra i protagonisti vi erano la Rail Band, che si esibiva all’Hotel de la Gare di Bamako, e les Ambassadeurs du Motel, legati all’Hotel de Bamako. Questi gruppi divennero laboratori musicali, mescolando tradizioni locali con influenze jazz, rock e latinoamericane, e svolsero un ruolo cruciale nella modernizzazione della musica africana.
La musica degli anni
Sessanta e
Settanta in Mali fu terreno fertile per talenti straordinari. Oltre ovviamente a Salif Keïta, vanno ricordati il chitarrista Djelimady Tounkara e il maestro del
balafon Kélétigui Diabaté, provenienti dall’Orchestre Nationale A, il cantante Kassé Mady Diabaté dall’Orchestre Nationale B, Zani Diabaté, leader dell’Orchestre Nationale C, e Sorry Bamba, guida dell’Orchestre Régional de Mopti. Anche artisti guineani come Mory Kante, che sostituì Salif Keïta nella Rail Band, o il geniale chitarrista Kanté Manfila, suo compagno negli Ambassadeur, contribuirono a questa fioritura culturale.
I musicisti sopraccitati non solo plasmarono la scena musicale del loro tempo, ma gettarono le basi per la musica africana moderna, trasformandola in un fenomeno dall’eco globale. La loro capacità di fondere elementi tradizionali e moderni rifletteva lo spirito di un paese in transizione, che cercava di bilanciare l’eredità del passato con le sfide e le opportunità del futuro. La musica divenne il simbolo di un Mali orgoglioso, creativo e profondamente radicato nella sua identità culturale, ma con lo sguardo rivolto al mondo intero.
Rail Band: Gli esordi

Fu così che il diciannovenne Salif Keïta fu "scoperto" nel 1969 da Tidiani Koné, leader della Rail Band. La sua stessa esistenza rappresentava una rivoluzione: un nobile Keïta trasformato in "trovatore" in camicia a fiori e pantaloni a zampa d'elefante, che cantava i poemi epici come un
griot. Un albino che, invece di nascondere per vergogna la sua pelle pallida, la mostrava con orgoglio, accompagnandola con una voce celestiale.
Parlando delle circostanze in cui Salif si unì alla Rail Band, Djelimady Tounkara, che all’epoca collaborava saltuariamente con la band, disse: "Il direttore del Buffet Hotel della stazione ferroviaria non fu molto contento quando gli proposi di cantare nella band. Non lo disse, ma era chiaro che aveva paura dei pregiudizi dei clienti. Così, una sera, portai Salif con me. Si alzò e cantò "Tara" e "Keme Bourama" (due canzoni di lode tradizionali) e la gente non riusciva a credere alle proprie orecchie. Il pubblico era in delirio. Gli gettarono addosso soldi per tutta la sera! Gli fu chiesto subito di unirsi alla band, dopodiché nessuno si prese mai la briga di criticarlo perché era un grande cantante". In contrasto con questa storia, che mostrava chiaramente come il talento di Salif potesse farsi guadagnare consensi immediati, ci sono numerose altre storie di pubblico che reagì in modo molto negativo alle sue precedenti esibizioni perché non sopportava di vedere una persona nelle sue condizioni sul palco.
Nel 1969, Keïta fu invitato a unirsi alla Rail Band, un gruppo musicale che si esibiva presso la stazione ferroviaria di Bamako. All'epoca la band era guidata da Tidiani Koné, trombettista e sassofonista, con la regia occulta del guineano Leon Keïta, figura poliedrica e sottovalutata, ma che ha agito spesso dietro le quinte in molte delle principali band di quel periodo. Questo
ensemble, sostenuto dal governo per promuovere la cultura locale, rappresentò un trampolino di lancio per molti giovani artisti. La Rail Band era nota per il suo approccio innovativo alla musica mandinga, che trasformava in un linguaggio moderno e accessibile al pubblico urbano. La band si esibiva regolarmente al Buffet de la Gare di Bamako e diventò presto un punto di riferimento per la musica del Mali.
Prendendo spunto dal Bembeya Jazz della Guinea e da una band chiamata las Maravillas de Mali — un gruppo formato da musicisti maliani inviati dal governo a studiare musica all'Avana, Cuba — Salif Keïta e Tidiani Koné iniziarono a sperimentare, mescolando antiche epopee
griot con basi di jazz latino improvvisate. Sebbene la Rail Band fosse capace di molti stili diversi, questo approccio si rivelò particolarmente popolare tra il pubblico del Buffet de la Gare.
Rail Band: Orchestre Rail Band de BamakoL'esordio discografico del gruppo,
Orchestre Rail Band de Bamako nel 1970, rappresentò un punto di svolta per la scena musicale locale. L'album evidenziava l'abilità della band nell’intrecciare la tradizione musicale mandinga con influenze moderne, come il jazz e la musica cubana, che all’epoca stavano definendo il suono di molte formazioni africane. Salif Keïta, appena entrato nella band, emerse immediatamente come una delle voci più promettenti del panorama musicale africano.
Un brano emblematico di questo debutto è “Sunjata", un omaggio alla figura Soundiata. Il testo ne celebra le gesta eroiche, con riferimenti storici e mitologici, in un racconto che esalta l'identità culturale mandinga. L’arrangiamento musicale riflette questa narrativa epica: la
kora e il
balafon evocano la solennità della tradizione
griot, mentre il sassofono di Tidiani Koné aggiunge un tocco moderno e dinamico. La voce di Keïta, con la sua capacità unica di trasmettere emozioni profonde, guida l’ascoltatore in un viaggio che fonde passato e presente, radicando la musica nella storia e proiettandola al contempo verso il futuro.
Nonostante la sua semplicità, l'album offre una visione chiara del potenziale del gruppo, che sarebbe esploso nei lavori successivi. Oltre a "Sunjata", brani come "Gansan Na" si distinguono per una maggiore complessità melodica. La voce di Keïta si adatta magnificamente alla melodia sinuosa, mentre il sassofono di Koné arricchisce la composizione con tocchi delicati e mai invadenti. Sebbene questo debutto non avesse ancora la forza e l’originalità dei lavori successivi, segna l'inizio di un percorso che avrebbe visto la Rail Band affermarsi come uno dei gruppi di punta dell’Africa occidentale.
Rail Band: Buffet Hotel de la Gare Bamako
Nel 1971, l’arrivo in pianta stabile del leggendario chitarrista Djélimady Tounkara e, l’anno successivo, del polistrumentista guineano Mory Kante arricchì ulteriormente il
sound della Rail Band, portandola a un nuovo apice creativo. Il 1973 vide la pubblicazione infatti di
Buffet Hotel de la Gare Bamako, disco che consolidò la loro reputazione come pionieri della scena locale, colmando definitivamente il gap con le scene musicali delle nazioni vicine.
Il lato A si apre con "Jurukan", un brano dal ritmo incalzante e dagli arrangiamenti ricchi, che unisce la potenza del
balafon alla chitarra elettrica. Segue "Marabayasa", una traccia funky dal
groove irresistibile, che celebra la resilienza e lo spirito di comunità, temi centrali della cultura
griot. "Bajale Male" si distingue per la sua atmosfera intima e malinconica, dove la melodia della kora avvolge l'ascoltatore in un viaggio emotivo. "Sunan", ultimo brano del lato A, evoca storie mitologiche attraverso una narrazione vocale intensa e momenti di grande crescendo emotivo.
Sul lato B, "Duga" cattura l'attenzione con un ritmo ipnotico e cori evocativi, ispirandosi alla figura simbolica dell’avvoltoio nella tradizione africana. "Tidiani Koné" è un tributo al leader della band, che mette in risalto i virtuosismi al sassofono in un dialogo vibrante con il resto degli strumenti. "Nantan" porta una carica celebrativa e collettiva, richiamando i canti tradizionali
griot, mentre l'album si chiude con "Moko Jolo", un brano afro-funk ispirato al
soul di
James Brown, che fonde ritmi sincopati e influenze internazionali in una miscela esplosiva.
Seppur in alternanza con Mory Kante, la voce di Salif emerge in maniera importante, confermando il suo talento. Tuttavia, il 1973 segnò anche la sua separazione dalla Rail Band: decise infatti di unirsi ai loro rivali storici, gli Ambassadeurs. La sua partenza segnò la fine di un’era per la Rail Band, che continuò comunque a prosperare sotto la guida di Mory Kante, destinato anche lui, a una fama internazionale. Ultimo lascito di Salif con la Rail Band sarà il brano "Battou" nell’album del 1974,
Tiramakan.
Les Ambassadeurs du Motel de Bamako: Gli esordi e gli intrecci con la politicaLa storia degli Ambassadeurs è inseparabile dalle vicende storiche e politiche del Mali. Nel 1970, la luna di miele dell’indipendenza si era ormai conclusa. Il primo presidente del Mali, Modibo Keïta, languiva in una prigione militare a Kidal, mentre il sogno socialista che aveva guidato il paese dal 1960 si era trasformato in un incubo di collettivizzazione forzata e svalutazione monetaria, sfociato in una crisi finanziaria e in un diffuso malcontento. Il 19 novembre 1968, un colpo di stato militare guidato dal tenente Moussa Traoré rovesciò Keïta. Tra i protagonisti del golpe spiccava Tiékoro Bagayoko, un ufficiale ambizioso che divenne rapidamente uno degli uomini più potenti del paese e capo dei servizi di sicurezza.
Bagayoko, grande appassionato di musica e calcio, era il proprietario del Djoliba AC, una delle principali squadre di calcio del Mali, e non poteva resistere all’idea di avere anche un’orchestra personale. Fu così che, nel 1969, persuase il proprietario del Motel de Bamako, uno dei suoi locali preferiti, a formare una nuova band residente. Vennero reclutati musicisti di talento da due band ivoriane, gli Elephants noir e gli OPHI, tra cui Moussa "Vieux" Cissokho, un sassofonista carismatico, a cui si aggiunse il cantante senegalese Ousmane Dia, già celebre per le sue
performance con la Star Band di Dakar. La formazione prese il nome di Les Ambassadeurs du Motel de Bamako, un chiaro riferimento alla loro vocazione internazionale e all’esclusività del locale.
All’inizio, gli Ambassadeurs erano poco più di un "jukebox umano", suonando una vasta gamma di generi per soddisfare la clientela esclusiva del Motel, composta da militari, diplomatici, uomini d’affari e altre figure di spicco della società di Bamako. Salsa, son, calypso, jazz, funk, soul e persino musica russa, araba e cinese facevano parte del loro repertorio. Ogni richiesta veniva accolta con professionalità e le prove si tenevano rigorosamente ogni pomeriggio. Tuttavia, l’arrivo del talentuoso chitarrista guineano Kanté Manfila e del tastierista Idrissa Soumaoro nel 1972 segnò l’inizio di una trasformazione. Sotto la guida di Kante, con le sue radici nei
griot della Guinea e una solida formazione sulla musica occidentale maturata in Costa d’Avorio, Manfila era infatti un grande appassionato di
Santana, funk americano e
progressive rock inglese. Il gruppo cominciò così a sviluppare una voce musicale propria, trasformandosi da semplice band di cover a forza creativa autentica.
Come un abile manager calcistico, Manfila si propose di convincere Salif Keïta a cambiare schieramento, passando dalla Rail Band du Buffet Hotel de la Gare agli Ambassadeurs. Salif era già in disaccordo con Ally Diallo, il direttore dell'hotel principale della stazione ferroviaria di Bamako, dove la Rail Band era l'attrazione principale. Quando Salif chiese a Diallo delle
royalties e dei diritti d'autore per le pubblicazioni degli album della Rail Band, gli fu risposto che, essendo un dipendente delle ferrovie maliane, cioè dello Stato, non aveva diritto a compensi aggiuntivi. Avrebbe dovuto accontentarsi del generoso stipendio mensile e del motorino gratuito.
Ma Salif iniziava a pensarla diversamente. Dopo aver terminato il suo set con la Rail Band, aveva preso l'abitudine di recarsi al Motel per unirsi al suo migliore amico Ousmane Dia e agli Ambassadeurs in
jam session notturne. Apprezzava il genio creativo di Kanté Manfila e l'intenso cameratismo del Motel. "Sono state quelle persone a insegnarmi davvero a comporre", raccontò, "Erano persone che avevano fatto parte delle più grandi band della Costa d'Avorio. Non erano semplicemente dei vecchi musicisti. Erano delle menti davvero forti, persone da cui potevo imparare molto. Quindi è lì che volevo davvero andare".
La Rail Band, sotto la guida del sassofonista Tidjani Koné, aveva mescolato la poesia epica tradizionale dei
griot con salsa e jazz, ma Salif la vedeva comunque come un glorificato spettacolo di cabaret. Gli Ambassadeurs, invece, rappresentavano qualcosa di diverso: moderni, internazionali, creativi e casa del suo migliore amico Ousmane Dia. Nel 1973, Salif decise di lasciare la Rail Band per unirsi agli Ambassadeurs, un gesto paragonabile, in Mali, a
Mick Jagger che si unisce ai
Beatles nel '66.
Non mancarono conseguenze politiche: Salif dovette affrontare il disappunto del tenente colonnello Karim Dembélé, responsabile della rete ferroviaria maliana. Tuttavia, Bagayoko ottenne ciò che voleva e Salif si unì a Les Ambassadeurs, dove fu accolto calorosamente dai suoi compagni, ma con una condizione: "Non troverai qui i griot mandinghi. Non sei venuto per trasformare Les Ambassadeurs in un ensemble strumentale folkloristico. O sei disposto a imparare o puoi perderti!"
Così Salif Keïta va a scuola. Il rigore costante nell’assorbire quasi ogni stile del pop moderno e di suonarlo sera dopo sera crea una grande coesione di gruppo negli Ambassadeurs. La voce di Salif si fonde elegantemente con i ritmi serrati afro-latini del bassista Ichiaka Dama e del batterista Djossé, le chitarre
free form di Kanté Manfila, Ousmane Kouyaté e Issa Gnaré e i fiati fluttuanti di Moussa Cissoko e Kabine 'Tagus' Traore. Salif canta le canzoni mandinghe, Ousmane Dia interpreta i brani legati alla cultura
wolof (etnia senegalese) e Moussa 'James Brown' Doumbia i numeri funky e soul dall'altra parte dell'Atlantico. Nel 1974 la band ha raggiunto la quota di crociera.
Kanté Manfila, Salif Keïta e Idrissa Soumaoro lavorano a nuovo materiale, parte del quale si basa su vecchie melodie mandinghe e canzoni di lode
griot. Vogliono anche mostrare il loro amore per il passato del Mali, ma a modo loro e meglio della Rail Band. Quando vengono invitati a registrare sessioni radiofoniche dall'emittente statale maliana Ortm, è quel materiale maliano a venire alla ribalta. L'ingegnere del suono Boubacar Traore fa miracoli con i nuovi microfoni tedeschi e le attrezzature di registrazione che la giunta ha acquistato per aiutare a creare un'industria discografica maliana. Classici come "Mana Mana", "Super Pitié", "Saranfing" e "Tiécolom-Ba" vengono pubblicati come 45 giri tra il ‘74 e il ‘76, dalle etichette Sonafric e Mali Music, benché in versioni ridotte (dal vivo arrivavano a superare i 10 minuti di durata). In molte di quelle sessioni è presente in veste di assistente un giovane chitarrista di Niafunké, nel Nord del paese, chiamato
Ali Farka Toure.
La reputazione degli Ambassadeurs inizia così a varcare i confini nazionali. Nel 1974 il gruppo vola a Parigi per suonare per i lavoratori maliani espatriati, che vivono nei loro ostelli per soli uomini, lavorano duramente nelle fabbriche francesi e desiderano ardentemente un contatto con la cultura di casa. "Era la prima volta che vedevo la Francia", dice Salif. "Lì abbiamo scoperto il vero volto dell'immigrazione, ma non eravamo poi così lontani dalla nostra zona di comfort, perché eravamo tra maliani". Il gruppo rimane nel quartiere Barbès della capitale francese, abitato principalmente da immigrati e sorvegliato da una guardia del governo. Diversi membri vengono licenziati per vari reati minori al loro ritorno a casa.
Il suonatore di
balafon Keletigui Diabate e il chitarrista Amadou Bagayoko, che in seguito sarebbe diventato famoso in tutto il mondo come metà del duetto Amadou & Miriam, si uniscono alla giostra sempre in movimento che è la formazione degli Ambassadeurs nel 1975. Keletigui Diabate, che suona magistralmente anche violino e sax, diventa presto una parte cruciale del team di compositori e arrangiatori. "Penso che Keletigui sia stato il fondamento", afferma Cheick Tidiane Seck, il produttore e tastierista spesso soprannominato "il
Quincy Jones della musica maliana". Cheick Tidiane, che studia al National Institute for the Arts, si unisce alla Rail Band in quel periodo, ma diventa anche una presenza fissa alle
jam session a tarda notte con gli Ambassadeurs al Motel de Bamako. "Ero nel mio periodo guevarista, sempre in rivolta", dice. "Il governo mi ha offerto un lavoro di insegnante a Gao, ma ho rifiutato. Ho convinto la Rail Band a lasciarmi unire a loro al loro ritorno dalla Nigeria. Sapevo già suonare Jimmy Smith, James Brown e tutta quella roba. Quella era la mia arma segreta".
La rivalità tra gli Ambassadeurs e la Rail Band rimane intensa, ma priva di malizia o amarezza. "Penso che fosse un po' politica", dice Salif, "perché Tiékoro Bagayoko ci sosteneva e il suo migliore amico [il tenente colonnello Dembélé,
ndr] sosteneva la Rail Band. Ma non c'era nessuna competizione sgradevole. In realtà spingeva solo i musicisti a lavorare di più". C'è un famoso "scontro" nel 1974 quando entrambi i gruppi condividono il palco più grande dello stadio Modibo Keïta di Bamako. A ciascuno è stato chiesto di arrangiare una versione di "Kibaru", una vecchia melodia con testi che si scagliano contro i mali dell'analfabetismo. "Non c'era davvero competizione", dichiara Salif con categorica certezza, "perché noi eravamo compositori e loro no", anche se poi agli atti il concerto non produsse un vincitore chiaro quel giorno ed è stato ufficialmente dichiarato un pareggio.
Tiékoro Bagayoko usa la sua influenza per far entrare gli Ambassadeurs nel cartellone della Quinzaine Artistique [
nota] nella capitale della Guinea, Conakry.
Normalmente, solo le orchestre sponsorizzate dallo stato sono autorizzate ad apparire in tali eventi, ma nessuno dice di no al tenente Tiékoro. Quando arriva l'ora dello spettacolo, gli Ambassadeurs incendiano il palco. Nel mezzo del loro set al Palazzo del Popolo, Salif Keïta inizia a improvvisare il testo di una canzone di lode in stile
griot al presidente Touré che è seduto di fronte a lui, su una melodia popolare chiamata "Wajan". Si rivolge al presidente Touré chiamandolo "Mandjou", che è una specie di soprannome onorifico riservato ai membri dell'illustre famiglia Touré, rinomata in tutta l'Africa occidentale per i suoi marabutti e uomini dotti. Con grande stupore del pubblico, Keïta si avvicina al sovrano della Guinea e si inginocchia davanti a lui mentre canta queste parole:
Mandjou, non piangere
Figlio di Alifa Touré, non piangere
Figlio di Aminata, Fadiga, non piangere
Mandjou, non piangere
Padre di André Madu, non piangere
La mia speranza è in te
Il momento del pianto non è ancora arrivato, Mandjou
Che Dio ti ricompensi con l'oro
Mandjou, non piangere
Il mondo intero crede in te…
Sopraffatto dalla gratitudine, il presidente Touré si alza e posa la mano sulla testa di Salif Keïta. Salif l'albino viene toccato e "benedetto" da uno dei più famosi governanti dell'Africa post-indipendenza. È un momento di immenso significato. Tuttavia, la dedica a Touré, un leader controverso noto per il suo regime dittatoriale e i crimini contro l'umanità, sollevò interrogativi morali sulla scelta di Keïta. Essendo fuori dalla casta degli
jali, tradizionalmente più tollerata in questi compromessi politici, Salif rischiava la sua credibilità sociale lodando una figura così criticata. Il cantante ha più volte giustificato questa scelta, affermando che Touré gli aveva dato dignità e accettazione in un contesto sociale che discriminava gli albini.
La caduta del regime e il successivo ripensamento storico hanno messo in discussione l'opera di artisti come Keïta, considerati partecipi della mitizzazione di questi leader. Il legame tra il cantante e Touré rimane complesso e controverso, rappresentando una frattura tra la necessità di esprimere gratitudine personale e la responsabilità morale verso il popolo oppresso.
Con l'avanzare degli
anni Settanta, gli Ambassadeurs diventano sempre meno un semplice juke-box in pantaloni a zampa d'elefante e camicie hippie, trasformandosi in una forza creativa di rilievo. I compositori e arrangiatori, guidati da Kanté Manfila, spingono il gruppo verso nuove direzioni artistiche. "Kante sapeva come essere il capo", racconta Salif Keïta, "ed era un bravo insegnante, molto aperto, con un sacco di talento". Il Motel diventa un continuo viavai di artisti e appassionati. Persino i grandi maestri del
son cubano, l'Orquesta Aragón, fanno visita più volte per vederli esibirsi. "È stato il massimo!", ricorda Salif. "Dopo che abbiamo suonato, ci hanno chiesto a quale scuola di musica fossimo stati e noi abbiamo risposto che non eravamo mai andati a scuola. Sono rimasti a bocca aperta! Non riuscivano a capire come avessimo imparato le loro canzoni così fedelmente".
Les Ambassadeurs du Motel de Bamako: l'album omonimo
Nel 1976 esce il loro primo Lp omonimo,
Les Ambassadeurs du Motel. Con questo debutto, la band cattura il suono distintivo che l'avrebbe resa celebre. Pur rappresentando un’opera fondamentale, il disco riflette ancora un gruppo in fase di definizione, alternando momenti di straordinaria creatività a brani più convenzionali.
Il lato A offre una panoramica dello stile della band: "Diandjon" spicca per la voce carismatica di Salif Keïta che si staglia sopra un arrangiamento minimalista, guidato da tastiere eteree e una linea melodica profondamente malinconica. "Djandjon" affronta i temi della perdita e dell’esilio, evocando un senso di nostalgia e resilienza che colpisce l’ascoltatore.
"Wara" (Wild) è una traccia lenta e ardente che inizia con lunghe note lamentose di Salif e si evolve in un'interazione di chitarra languidamente espansiva e maestosi passaggi di ottoni. Rallenta il ritmo, esplorando toni più riflessivi e accompagnandosi alle tastiere eteree di Idrissa Soumaoro.
Sul lato B troviamo "Kibaru" (variazione del pezzo tradizionale suonato dal vivo nel ‘74), una traccia monumentale di 20 minuti che rappresenta il cuore pulsante del disco e un manifesto di innovazione. In questo brano, gli Ambassadeurs abbracciano sperimentazioni audaci, mescolando ritmi afro-cubani, funk e jazz in un crescendo travolgente. La sezione ritmica pulsa incessante, mentre chitarre, cori e la voce di Salif creano un’atmosfera ricca e dinamica, rendendo "Kibaru" un brano senza tempo e un autentico capolavoro.
Les Ambassadeurs du Motel de Bamako: Les Ambassadeurs Du Motel De Bamako Vol.1 & Vol2
Nel 1977 escono quasi in contemporanea
Les Ambassadeurs Du Motel De Bamako Vol.1 e
Vol. 2. I due dischi raccolgono i brani dei 45 giri già pubblicati, più alcuni pezzi inediti e rappresentano una preziosa testimonianza dei primi anni di attività. Le tracce dei due volumi catturano il
sound caratteristico della band nei suoi anni formativi, quando il suo stile era fortemente influenzato dalla musica afro-cubana, dai ritmi mandinghi e dalle sonorità jazzistiche.
Nel primo volume è Keïta a fare da protagonista, cantando in quasi tutti i brani e arrangiandone la maggioranza. Tra le tracce più significative c’è "Bolola Sanou", che si apre con il
balafon, seguito da vicino dalla scintillante chitarra elettrica di Kanté Manfila e da deliziosi ottoni latini. La voce melliflua di Keïta sposa una precocità fanciullesca e una saggezza prematura con una grande maestria tecnica. "Saranfing" (giorno di paga) abbina una dolce melodia vocale discendente a un vivace ritmo cha cha cha. Il senso di desiderio e malinconia nella voce di Salif conferisce al brano una profondità emotiva rara in una canzone dance. Un altro gioiello a firma di Keïta è "Mali Denou" (figli del Mali), una superba jam lenta con assoli di organo e chitarra esplosivi e un sottile intreccio di tempi 4/4 e 6/8. Da lì, le cose si fanno più
groovy, mentre accenni di rockabilly, soul e reggae animano gli arrangiamenti.
Nel volume 2 la scena la prende Ousmane Dia che canta in quattro brani su otto, ma la traccia migliore è "Tiecolom-Ba", una composizione di Kanté Manfila cantata da Idrissa Soumaoro, sbuffando e con un piglio vagamente alla
Elvis. La parte jazzata degli ottoni è radicata nel ritmo terzinato tipico della musica
wassoulou del Mali. Gli altri brani, sebbene ben eseguiti, rimangono legati a strutture che non osano oltrepassare i confini stilistici già tracciati.
I testi riflettono il contesto sociale e culturale dell'epoca, affrontando temi di fratellanza, amore e sfide quotidiane.
Les Ambassadeurs Internationaux: la fuga dal Mali e un nuovo inizioNel 1977, gli Ambassadeurs partecipano al Black and African World Festival of Arts and Culture (Festac) a Lagos. "Sinceramente, la violenza mi spaventava", ricorda Salif. "C’erano sparatorie continue vicino al campo dove alloggiavamo. Non era per niente piacevole". Qualche anno dopo, la band torna a Lagos e trascorre del tempo con
Fela Kuti al Kalakuta Republic, un’esperienza che lascia un segno indelebile. "Era trattato come un re", racconta Salif. "Era davvero un re! Teneva corte a Kalakuta, ed era qualcosa che meritava di essere vista. Anni dopo, l’ho incontrato per l’ultima volta allo Zenith di Parigi. Prima di salire sul palco, mi ha fatto sedere accanto a lui e mi ha detto: ‘Salif, abbiamo fatto quello che potevamo. Abbiamo resistito. Ora tocca a te prendere il testimone e continuare la lotta. Ma soprattutto, fallo con il cuore e non aver mai paura’. Mi ha fatto venire le lacrime agli occhi".
Tornando in Mali, la lotta si intensifica. La giunta militare reprime ogni forma di dissenso, arrestando leader studenteschi, sindacalisti e oppositori politici, spesso inviandoli nelle caserme del reggimento paracadutisti a Djicoroni per essere "ammorbiditi". Alcuni non tornano più. Nel 1977, l’ex-presidente Modibo Keïta muore avvelenato e il suo funerale diventa una dimostrazione di massa contro il regime. Si vocifera che Tiékoro Bagayoko, figura chiave del governo, abbia dato l’ordine di eliminarlo. Bagayoko si tiene impegnato reprimendo i "piantagrane" e facendo visite a sorpresa agli istituti scolastici di Bamako, accompagnato da una scorta di paracadutisti dall’aspetto intimidatorio. Tuttavia, come spesso accade nelle cronache del dispotismo, anche lui finisce per cadere in disgrazia. Nel febbraio 1978 viene convocato al palazzo presidenziale di Koulouba dal presidente Traoré, insieme al suo alleato Karim Dembélé, e arrestato con l’accusa di corruzione e slealtà. Entrambi vengono deportati nelle miniere di sale di Taoudenni, un luogo terribile, dove Bagayoko muore poco dopo.
Senza il loro protettore, gli Ambassadeurs si sentono vulnerabili. Diversi politici vicini al regime offrono il loro patrocinio, ma la band rifiuta le
avances. Alla fine, nell’agosto del 1978, Kanté Manfila decide che è ora di lasciare il Mali e trasferire la band ad Abidjan, capitale della Costa d’Avorio. "Alcuni politici volevano arrestarci", spiega Salif. "Così abbiamo dovuto scappare alle 6 del mattino. Ci siamo riuniti in fretta e via, a gambe levate". Al confine, trovano un amico nella polizia di frontiera, che li accoglie con un banchetto improvvisato a base di capra arrosto. Durante il pasto, arriva una chiamata da Bamako con l’ordine di arrestarli, ma l’ufficiale risponde che il gruppo ha già attraversato la frontiera ed è ormai in Costa d’Avorio. Se la cavano per il rotto della cuffia.
La perdita del Mali diventa il guadagno della Costa d’Avorio. Abidjan, con la sua economia prospera basata sul caffè e sul cacao, è una città accogliente per i musicisti dell’Africa occidentale in fuga da regimi oppressivi. La capitale offre un’industria discografica dinamica, un pubblico ricettivo e una comunità mandinga ben radicata, composta principalmente da mercanti e commercianti, che accoglie a braccia aperte gli Ambassadeurs. Per la band, il trasferimento rappresenta non solo una necessità politica, ma anche l’opportunità di lavorare in un ambiente dove i musicisti possono essere rispettati e guadagnarsi da vivere dignitosamente, senza doversi inchinare a mecenati o allo Stato.
Nonostante l’accoglienza, i primi tempi sono difficili. Ad Abidjan, la competizione è più dura, poiché la fama del gruppo è ancora limitata al Mali e alla diaspora mandinga. Abituati a ricevere strumenti di qualità dai loro mecenati, ora devono noleggiare le attrezzature per ogni esibizione. In questo contesto, la produzione di dischi destinati a un pubblico transnazionale, sfruttando la crescente richiesta di musica africana, diviene essenziale per ottenere stabilità economica e il supporto di produttori seri. Iniziano a lavorare in vari club, tra cui Les Trois Cocotiers a Grand Bassam, e si esibiscono a matrimoni, battesimi e feste di circoncisione, un netto cambiamento rispetto alla vita di celebrità salariata di Bamako. Si ribattezzano Les Ambassadeurs Internationaux (anche se spesso vengono chiamati Ambassadeur International), nome che diventa una vera e propria dichiarazione di intenti. Alcuni membri, come Idrissa Soumaoro, rimangono in Mali e vengono sostituiti da nuovi ingressi, tra cui Cheick Tidiane Seck, convocato con un telegramma diretto di Salif e Manfila: "Che diavolo ci fai ancora a Bamako? Vieni qui in fretta".
Nonostante il trasferimento e il cambio di nome, il loro stile musicale rimase fortemente radicato nella tradizione mandinga. Il repertorio continuò a basarsi su canzoni tradizionali dei
griot, con alcune nuove influenze come il
sogoninkun del
Wassoulou (danza tradizionale) e il reggae giamaicano. Questa scelta musicale si rivela efficace, poiché all’epoca Abidjan ha una forte presenza di migranti maliani, guineani e
burkinabé, che condividono la stessa eredità culturale e musicale.
Sempre di questo periodo è la collaborazione con Leon Keïta, eminenza grigia della scena musicale maliana e non solo (come già scritto in precedenza è stato il talent scout che ha lanciato Salif ai tempi della Rail Band, ma che ha continuato a collaborare con lui anche nel periodo degli Ambassadeur). Salif è presente in tutta la prima facciata dell’album del 1978, in quello che è un piccolo gioiellino nascosto che celebra il legame tra due artisti visionari.
Les Ambassadeurs Internationaux: Mandjou

Una svolta decisiva arriva grazie a Moussa Kamara, tecnico del suono presso gli studi della Radio Télévision Ivoirienne (RTI) ad Abidjan. Una notte, Kamara fa entrare di nascosto gli Ambassadeurs negli studi per registrare una sessione di due ore, da cui nascono cinque brani. Pubblicato nel 1978,
Mandjou sintetizza l’impegno della band nel trasformare l’eredità culturale mandinga in una visione musicale globale. L’album cattura l’essenza di un gruppo che, pur lontano dalla propria terra, trova una nuova forza espressiva.
Il cuore pulsante del disco è la traccia ominima, inno dedicato al presidente guineano Sékou Touré. Con i suoi quasi 15 minuti, il brano si sviluppa in un crescendo emotivo, alternando momenti di delicata introspezione a esplosioni di energia collettiva. La voce di Salif domina la scena con la potenza e il carisma di uno sciamano, mentre le chitarre intrecciano sonorità afro-cubane, organo e tromba si scambiano lunghi soli mentre il basso e il
balafon liberano completamente la musica da qualsiasi gabbia, permettendo a Keïta di esprimersi al massimo delle sue capacità vocali. La struttura del brano è magistrale, con un andamento che ricorda quasi il
progressive rock, arricchito da cori evocativi e arrangiamenti che creano un’atmosfera spirituale. Da un lato la melodia segue scale e ritmi tipici del
mande music, dall’altro l’uso dell’organo Hammond e dei fiati richiama apertamente le sonorità jazz e soul di artisti come Al Green o
Curtis Mayfield. A livello sociale e artistico,
Mandjou segna una rottura con le convenzioni del mondo mandingo. Nella tradizione, il compito di cantare le lodi era riservato ai
jali, mentre per un nobile come Salif Keïta, discendente diretto della dinastia Keïta, era considerato inappropriato. Eppure, con questa canzone, Keïta sfida il sistema, ridefinendo il suo ruolo e quello della musica nella società.
Il disco prosegue con "Kandja", composta da Moussa Cissokho in onore del grande
griot guineano Sory Kandia Kouyaté (punto di riferimento importante per Salif), scomparso nel 1977. Qui le sonorità sono più morbide e sognanti: le chitarre arpeggiano accordi dolci, a volte suonati in modo leggermente riverberato, e l’organo e il coro di voci di accompagnamento creano un’atmosfera quasi trascendente. Non mancano toni quasi jazz: si percepiscono armonie complesse negli arrangiamenti e un breve solo di sax che ricorda le ballate soul. La struttura è fluida e rilassata: dopo una strofa iniziale parlata/cantata da Keïta, il pezzo si sviluppa alternando ritornelli corali e momenti strumentali, come se fondesse melodie mandinghe a sapori di R&B africano.
Segue "4 V", scritta da Kanté Manfila, che mette in mostra tutte le sue qualità alla chitarra. Il titolo (misterioso) potrebbe riferirsi a un giro o a un’evoluzione in quattro tempi, ma ciò che conta è il
groove coinvolgente fin dai primi istanti. Le chitarre acustiche e la batteria impostano un ritmo incalzante su cui si stagliano le sezioni di fiati (sassofono e tromba). Rispetto alle prime due tracce, in “4 V” si avverte un’energia più funk e afrobeat: i musicisti sembrano lasciarsi andare a brevi assoli e
fill che ricordano le band afropop dell’epoca.
Un’altra gemma è "Ntoman", composta da Salif Keïta, una canzone d’amore che porta la band in territori afrojazz. Qui la sezione fiati, utilizzata con parsimonia nel resto dell’album, prende il centro della scena, dialogando con le chitarre e il canto in un continuo gioco di dinamiche. Con i suoi cambi di tempo fluidi e una struttura apparentemente improvvisata, il brano mette in evidenza la straordinaria padronanza tecnica della band e la sua inclinazione verso la sperimentazione. La sezione ritmica (batteria di Nouhoun Keïta e basso di Sekou Diabaté) crea un solido
groove danceable che ricorda per certi versi le marce funk – mentre il
balafon e altri strumenti a percussione tradizionali mantengono viva la matrice africana. Nel complesso, “N’ Toman” è una traccia densa di tensione positiva: permette alla voce di Keïta di sognare e urlare sopra un tappeto strumentale ricco di inviti alla danza.
Chiude l’album "Balla", anch’essa di Salif Keïta, il brano più melodico e sentimentale del disco. Qui emerge la capacità degli Ambassadeurs Internationaux di combinare lirismo e
groove, creando un pezzo dal ritmo rilassato ma profondo, con un uso sofisticato degli strumenti che dona alla canzone un’eleganza senza tempo. In particolare, spicca anche qui il lavoro di Kante Manfila, che si merita il titolo di virtuoso della chitarra mandinga. Le sue chitarre acustiche tessono dolci armonie a zone, filtrate dall’organo sullo sfondo, che conferiscono al pezzo un’atmosfera lirica quasi ballabile (il titolo “Balla” fa pensare a una danza).
La produzione di
Mandjou, nonostante le risorse limitate e le difficoltà tecniche, è sorprendentemente curata nei dettagli. Pubblicato inizialmente su una piccola etichetta locale e successivamente diffuso in tutta l’Africa occidentale dall’etichetta ivoriana Amons Records, il disco ha avuto un impatto straordinario. Più di un semplice album,
Mandjou è un simbolo di resistenza culturale, un ponte tra le tradizioni africane e le sonorità moderne. L’album non solo ha consolidato gli Ambassadeurs Internationaux come una delle band più influenti del continente, ma ha anche segnato l’inizio della carriera internazionale di Salif Keïta, che in questo disco emerge come figura dominante, firmando tre brani su cinque.
Sul web è possibile trovare un video storico degli Ambassadeurs che eseguono "Mandjou" alla televisione maliana nei primi
anni Ottanta. Un Salif Keïta magnetico cattura lo spettatore con il suo fascino androgino, mentre gli altri due cantanti si esibiscono con mosse contenute e quasi timide. Keletigui Diabaté, con il suo sguardo cupo, brilla con un’interpretazione incandescente al violino. La chitarra di Kanté Manfila trafigge e scivola sulla cadenza malinconica del ritmo latino, mentre la band sfoggia un impeccabile
dress code con camicie a maniche corte dai motivi geometrici e pantaloni a zampa d’elefante. L’effetto è disciplinato, sicuro, magistrale. Le parole di lode mandinghe vengono strappate dal profondo da Salif Keïta, che guarda in basso, di lato, dentro di sé, ma mai verso la telecamera. Non è solo intrattenimento: è un momento iconico che affonda le radici ben prima dell’indipendenza, un glorioso apice per la musica del Mali e dell’Africa occidentale.
Durante un tour in Guinea, la band eseguì
Mandjou in concerto e il presidente Touré rimase così colpito da Salif Keïta da conferirgli una medaglia come Ufficiale dell’Ordine Nazionale della Guinea e un passaporto diplomatico. Sulla copertina posteriore dell'album, Salif è ritratto con la medaglia ricevuta.
Ritorno alle origini: Dans l’AuthenticitéIl successo di
Mandjou consacra definitivamente Salif e gli Ambassadeurs nel panorama musicale africano. In questa fase, Salif e il chitarrista Kanté Manfila danno vita a un progetto di grande impatto culturale: i due album acustici
Dans l’authenticité Vol. 1 e Vol. 2. Questi dischi rappresentano un ritorno intenzionale alle radici musicali mandinghe, con un formato essenziale, che privilegia strumenti acustici, melodie tradizionali e una struttura intimista.
Si collocano in netto contrasto con il contesto più elettrico e moderno delle loro
performance con Les Ambassadeurs Internationaux. Nei due volumi, Kanté Manfila si occupa della chitarra, con linee limpide e precise che fungono da tessuto armonico per la voce inconfondibile di Salif Keïta.
I testi sono spesso ispirati a temi tradizionali e storici. Canti di lode, di riflessione e di celebrazione della cultura mandinga si susseguono, evocando immagini di un passato intriso di valori comunitari e identità collettiva. Quattro brani ("Taara", "Toubaka", "Wara" e "Touramakan") appartengono chiaramente alla tradizione
griot, essendo incentrati sulle lodi di un benefattore. Queste canzoni, chiamate
fasa, servivano a ringraziare i patroni per il loro supporto e a incoraggiarli a continuare a sostenere il gruppo.
Un esempio significativo di questo stile è la canzone "Touramakan", presente nel
Vol.1, dedicata a Modibo Traoré, un importante benefattore degli Ambassadeurs Internationaux ad Abidjan. Questo brano riprende un’antica canzone di lode dei
griot, "Touramakan fasa", legata alle imprese epiche di Touramakan, un generale dell’imperatore Soundiata Keïta. Secondo la leggenda, Touramakan si distinse per il suo coraggio e la sua fedeltà quando Soundiata decise di punire il re del Jolof, che aveva insultato il sovrano maliano rubando i cavalli destinati al suo esercito. Per dimostrare il proprio valore, Touramakan si scavò simbolicamente la propria tomba e si sdraiò dentro, aspettando la morte. Impressionato da tale gesto, Soundiata gli affidò la guida della spedizione, che si concluse con la vittoria sui Jolof e l’annessione dei loro territori all’Impero del Mali. Salif Keïta utilizza questa antica canzone epica per esaltare il "coraggio" e il "successo" di Modibo Traoré, paragonandolo al suo illustre antenato. Lo celebra come un re dell’oro (
sanu mansa) e un re del denaro (
wari mansa), sottolineando la sua ricchezza e la sua influenza sia in Mali, sia in Costa d’Avorio.
Come molte canzoni
griot, il testo fa riferimento al concetto di
fadenya, ovvero la competizione tra fratelli nati dallo stesso padre in famiglie poligamiche. I
griot spesso alludono a rivalità e gelosie, suggerendo che il successo del benefattore sia oggetto di invidia da parte di nemici anonimi, che cercano di danneggiarlo con maledizioni e intrighi. Per questo, nel brano si trovano ripetute espressioni come: "Chi ha cercato di nuocere al nobile e affascinante Modibo?" e "Dov’è andato, il maestro contro cui tutti gli incantesimi falliscono?". Interessante anche la nuova versione di 12 minuti di "Djandjon", la classica canzone di lode ai guerrieri. Salif aveva registrato una versione precedente in stile moderno con gli Ambassadeurs du Motel (nel 1976) e il contrasto tra le due è sorprendente. In questa interpretazione, molto agreste e rurale, emerge evidente la parentela con generi afroamericani come il gospel e il
blues.
Il
Vol. 2, rispetto al primo, introduce arrangiamenti più dinamici, pur mantenendo l'approccio acustico. La coesione tra i due artisti è evidente in ogni traccia: la chitarra di Kante non è mai invasiva, ma accompagna e sottolinea la forza comunicativa di Keïta. Tra i brani di spicco, troviamo due classici
fasa, "Tara" e "Toubaka", con l'accompagnamento di kora e balafon. Il secondo sarà anch’esso reinterpretato in chiave moderna dagli Ambassadeurs Internationaux. Presumibilmente, le voci di supporto sono fornite dalle donne non identificate presenti sulla copertina.
Il titolo
Dans l’authenticité richiama la politica culturale dell'"authenticité", molto popolare all'epoca, con cui i governi incoraggiavano gli artisti a "tornare alla fonte" per trarre ispirazione e "risvegliare i valori positivi del passato per edificare una società moderna". Nel complesso,
Dans l’authenticité non rappresenta un semplice esercizio nostalgico, ma una dichiarazione artistica forte. Gli album riaffermano l'importanza delle tradizioni musicali popolari in un periodo in cui l'Africa occidentale era sempre più attratta da influenze esterne. È in questo periodo che Salif viene soprannominato il "Domingo" della musica maliana, un riferimento al celebre calciatore dell’Olympique de Marseille, simbolo di eccellenza sportiva e carisma. Questi due volumi sono quindi testimonianze rare e preziose delle incursioni di Salif Keïta nel mondo dei
griot, restituendoci un artista che, pur proiettato nel futuro, non ha mai smesso di onorare le sue radici.
Alla fine del 1979, Les Ambassadeurs ricevono una borsa di studio Rockefeller per registrare un nuovo album negli Stati Uniti, sotto la guida del produttore Ray Lema. Grazie anche al supporto del loro patrono e amico, l’uomo d’affari ivoriano Sidi Mohammed Sacko, Salif e i suoi compagni – tra cui Kanté Manfila, Ousmane Kouyaté e Moussa Cissokho – si ritrovano nella frenesia e nel decadimento invernale della New York di fine
anni Settanta, con una conoscenza limitata dell’inglese e un forte senso di spaesamento. "Faceva molto freddo", ricorda Salif, "e non cercai davvero di comprendere la cultura americana. Era chiaro che lì ognuno pensava a sé stesso. Noi eravamo abituati a una maggiore solidarietà".
Le difficoltà non tardano ad arrivare. Per preparare gli spartiti dei loro arrangiamenti, la band si affida a un musicista portoricano, pagandolo 400 dollari, ma l’uomo scompare con i soldi, lasciandoli in una situazione critica. Salif, scoraggiato, contatta il presidente Sékou Touré, che offre ospitalità all’intero gruppo presso l’ambasciata guineana a Washington. Nonostante le difficoltà, gli Ambassadeurs trascorrono tre mesi negli Stati Uniti, dove si confrontano con musicisti portoricani e registrano diverse tracce con Ray Lema.
Queste sessioni segnano un tentativo di modernizzare il
sound della band, sperimentando con sintetizzatori,
drum machine e altre tecnologie emergenti. Tuttavia, tale evoluzione accentua le divergenze artistiche all’interno del gruppo. Salif, affascinato dalle nuove sonorità del pop internazionale, ascoltava incessantemente artisti come
Pink Floyd,
Led Zeppelin, Bad Company e
Bob Marley. Kanté Manfila, invece, rimaneva ancorato alla salsa, al jazz e alla musica tradizionale guineana. "Io ascoltavo pop", ricorda Salif. "Era tutto ciò che ascoltavo. Mentre Manfila ascoltava solo salsa e molto jazz. Eravamo diversi". Queste differenze, se da un lato arricchirono la loro collaborazione, dall’altro preannunciarono futuri cambiamenti nelle rispettive carriere.
Les Ambassadeurs Internationaux: Seydou Bathily
Durante un viaggio negli Stati Uniti, Salif Keïta si trova involontariamente coinvolto in un malinteso: vedendo un incendio in cima a un edificio vicino all'ambasciata a Washington, tenta di dare l’allarme con il suo inglese limitato, ma finisce per essere sospettato di incendio doloso. "Ho capito che laggiù, quando vedi cose del genere, te ne stai fuori", dirà poi ridendo. Fortunatamente, la band torna sana e salva ad Abidjan, continuando a pubblicare nuova musica a un ritmo costante.
Alla fine del 1980 esce
Ambassadeur International, pubblicato dall'etichetta Badmos e spesso indicato come
Seydou Bathily, dal nome del primo brano. La copertina, con un primo piano iconico di un Salif Keïta, segna visivamente questa fase della sua carriera.
La prima traccia, appunto "Seydou Bathily", segue la scia di "Mandjou" e rappresenta una perfetta sintesi tra la tradizione musicale mandinga e le influenze moderne come la salsa, il jazz e il funk. È un tributo intenso e commovente. Le chitarre di Kanté Manfila si intrecciano con il
balafon e le percussioni, creando un tessuto sonoro ricco ma mai ridondante. Gli arrangiamenti, studiati nei minimi dettagli, valorizzano ogni sfumatura della narrazione musicale, alternando momenti di intimità a sezioni più dinamiche. Il basso pulsante e i fiati aggiungono una dimensione quasi orchestrale all’intero lavoro.
Tra gli altri pezzi spicca "Saly", una sorta di rumba dilatata in cui la voce di Keïta dialoga con l’organo psichedelico di Cheick Mohammed Smith, creando un'atmosfera ipnotica. "Jean Ou Paul", firmato da Kanté Manfila, è un brano afro-funk che mette in risalto la sua tecnica raffinata, con
riff incisivi e un
groove avvolgente. "Une Larme d'Amitié", scritta e cantata da Sambou Diakité, è una ballata d’amore minimalista che si sviluppa con grazia, mescolando
psichedelia e un vago sentore
country, in un connubio insolito ma affascinante.
L’album si chiude con "Super-Coulou", anch’esso firmato da Keïta e considerato uno dei successi del disco, in cui si ritrova la fusione tra salsa e ritmi mandinghi tipica della band in questo periodo.
Seydou Bathily consolida lo stile del gruppo e l’ascesa di Keïta come figura dominante al suo interno.
Les Ambassadeurs Internationaux: Gli album americani
Il 1981 è un anno estremamente prolifico per Salif Keïta, segnato da ben tre album:
Salif Keïta & Les Ambassadeurs Internationaux, pubblicato dalla Badmos, e due album a nome della band,
Tounkan e
Mani Mani, entrambi editi da Sako Productions e registrati negli Stati Uniti.
L'album
Salif Keïta & Les Ambassadeurs Internationaux rappresenta un punto di svolta nella carriera di Keïta. Pur essendo ancora accompagnato dalla sua storica band, questo lavoro segna il suo primo passo verso un’identità artistica più autonoma, sia nel titolo che nella sostanza: due delle tre canzoni sono composte interamente da lui. Il lato A include "Bithiéloulé", un brano ritmato e coinvolgente, sebbene non particolarmente innovativo. Più interessante è "Namory", una
ballad intima e melodica. Il lato B è interamente occupato dai 13 minuti di "Kankélèn-Tigui": su una base che richiama la rumba congolese si innestano le tipiche melodie dei
jali. Tuttavia, il brano lascia la sensazione di un’energia trattenuta, quasi come se la band stesse suonando con il freno a mano tirato.
Nel complesso, al di là della novità di avere Keïta in primo piano, l’album si muove nel solco dei precedenti e dà la sensazione di procedere per inerzia, senza aggiungere molto alla discografia del gruppo.
Dei due album americani,
Tounkan è quello dal risultato finale meno organico: il suono è guidato da un'energia diversa, una spinta pop verniciata dalla professionalità dello studio americano, segnando un cambio di registro nella carriera del gruppo. Mentre la voce di Salif rimane ammirevole, la produzione si allontana dai ritmi ondeggianti e dall’eleganza naturale che caratterizzano la musica
mande. La batteria è in primo piano, così come gli assoli di sassofono. "Walè" e "Sidiki" sono due composizioni di Salif, entrambe caratterizzate da un uso importante di sintetizzatori e
drum machine. Si tratta di una sorta di palestra per quelle che saranno le sonorità della sua futura carriera solistica, caratterizzate da una fusione tra strumenti tradizionali e moderne tecnologie, oltre che dall'introduzione di strutture melodiche più elaborate, destinate a diventare un segno distintivo del suo stile. Anche l’ultima traccia, "Kanlelenti", mostra un uso forse eccessivo e ancora non perfettamente calibrato della tecnologia.
Mani Mani segna un punto di svolta per Salif Keïta e Les Ambassadeurs Internationaux, evidenziando il loro crescente interesse per l'innovazione musicale. L'album, come
Tounkan, si distingue per l'uso di elementi più moderni, come sintetizzatori e
drum machine, che arricchiscono il tradizionale
sound mande con sfumature contemporanee, riuscendo però a centrare meglio il bersaglio rispetto al predecessore.
Il titolo, che si traduce come "soldi soldi", riflette un tema ricorrente nell'opera di Keïta, con una critica sociale sottile ma incisiva. Le composizioni presentano arrangiamenti sofisticati, con un equilibrio tra chitarre melodiche e linee di basso incisive. Di assoluto rilievo è la traccia finale, "Toubaka 81", forse l’ultima gloriosa impresa degli Ambassadeurs. Arrangiato da Kante, è un brano originario della tradizione mandinga dell’alta Guinea. Pur conservando il fascino della tradizione, la produzione professionale gli regala nuova vita, aprendo la strada al concetto contemporaneo di world music.
In questo album Salif firma tre brani, fra i quali la delicata "Marfa" (che avrebbe poi ispirato "Souvent" nel suo album bestseller del 2002,
Moffou) e la hit "Primprin" (parola che può significare "re", "potere", "alcol" o "droga"). Con il suo
sound sintetico fortemente occidentale, il gruppo esplora territori ritmici più incalzanti, mescolando elementi tradizionali mandinghi con un
groove funk che risulta irresistibile. Le chitarre elettriche e le tastiere aggiungono strati di complessità, mentre la voce di Keïta si muove con sicurezza sopra una base percussiva che richiama danze rituali e ritmi urbani. Salif si fa portavoce dei giovani africani cantando i mali dell’alcol e della droga. Salif interpreta in modo schietto e sincero queste parole:
Cosa mi ha detto mia madre?
Cosa mi ha detto mio padre?
Un giorno mio padre mi ha detto,
un giorno mia madre mi ha detto:
tu sei giovane, è vero, ma non puoi fare quello che ti pare.
Tu sei giovane, è vero, ma non puoi fare qualsiasi cosa.
Un figlio di musulmani che si buca non è meritevole.
Un figlio di un nobile che si ubriaca è una disgrazia.
Hai rifiutato tuo padre,
hai rifiutato tua madre,
per darti all’alcol,
ma l’alcol ti ammazzerà,
o pensi di essere forte abbastanza da ammazzare l’alcol?
Hai rifiutato tuo padre,
hai rifiutato tua madre per darti alla droga,
ma la droga ti ammazzerà,
o pensi di essere forte abbastanza da ammazzare la droga?
Primpin sta uccidendo.
I doganieri stanno controllando.
Il colonnello non ha autorizzato.
Il capitano della polizia l’ha lasciato andare.
Primpin non pubblicizza tutti i suoi pericoli.
Il brano spopola in tutta l’Africa occidentale e Salif diventa un eroe per i giovani che si identificano in lui, nel cantante che esprime i suoi pensieri senza farsi condizionare dai potenti e dalle loro leggi repressive.
Nonostante alcune tracce soffrano di un'eccessiva enfasi sulla tecnologia emergente, il disco resta un lavoro coeso, che testimonia l'adattabilità del gruppo a un panorama musicale in evoluzione.
Mani Mani riesce comunque a raggiungere le vette emozionali di album precedenti, affermandosi come un passaggio chiave nella carriera di Keïta e del suo gruppo.
Les Ambassadeurs Internationaux: le prime crepe e la fine degli ambasciatori

Con l'ampia distribuzione di queste uscite in Africa e nella diaspora africana in Francia e in altri paesi europei, gli Ambassadeurs stanno diventando veramente internazionali. Salif Keïta è ormai una stella di portata continentale, rappresentando una fonte di ispirazione per una gioventù dell'Africa occidentale desiderosa di vedere uno di loro superare le rigide limitazioni sociali e politiche che dominano la vita quotidiana. La sua ascesa simboleggia un percorso possibile oltre la corruzione politica, il clientelismo e la povertà che affliggono la regione. In questo contesto, Salif incarna una figura di speranza: un giovane maliano che, partendo da un ambiente difficile e marginalizzato, riesce a inserirsi in un mondo moderno e globalizzato senza rinunciare alla sua identità africana. La sua musica, radicata nelle tradizioni mandinghe, ma arricchita da influenze globali, è il ponte perfetto tra il passato e il futuro, capace di comunicare con un pubblico internazionale e al contempo di mantenere viva l'eredità culturale del suo popolo. È una visione che fa sognare qualsiasi giovane maliano.
Ma le crepe stanno comparendo. Nonostante il successo, le
royalties sono quasi inesistenti e il denaro scarseggia. Il successo senza le conseguenti ricompense finanziarie crea tensione in qualsiasi gruppo. Alla fine, gli Ambassadeurs si dividono in due, con Kanté Manfila che porta con sé alcuni fedeli seguaci tra cui Moussa Cissokho e il cantante Sandaly Kante insieme a lui e Salif Keïta che raduna alcuni dei membri più giovani al suo fianco, tra cui il cantante e vecchio amico Ousmane Dia, il chitarrista Ousmane Kouyate, il tastierista Cheick Tidiane Seck, il batterista Djossé, il bassista Sekou Diabaté e il trombettista Tagus e il cantante Solo Doumbia. Kanté Manfila e i suoi seguaci continuano a suonare regolarmente come residenti al club Les Trois Cocotiers, mentre la
crew di Salif trova una nuova casa al bar Agnebi. È un doloroso divorzio che offre ai fan della musica di Abidjan la gioia unica di vedere due versioni degli Ambassadeurs in due posti diversi nella stessa notte.
Anche il mondo sta cambiando. La vecchia gentilezza dei
groove orchestrali mandinghi costruiti principalmente su salsa e jazz sta iniziando a suonare datata, così come l'approccio metaforico dei testi che li accompagnano. Il cantante reggae ivoriano Alpha Blondy sta ottenendo un successo di massa con una musica che cavalca bassi e ritmi di batteria rimbombanti e affronta verità scomode come la corruzione, la mancanza di democrazia, l'abuso di potere e la morte delle opportunità per i giovani africani. Questo contesto in trasformazione mette pressione anche sugli Ambassadeurs, che cercano di adattarsi a un panorama musicale sempre più competitivo e politicamente consapevole.
Parallelamente, le audiocassette e la facilità con cui possono essere piratate stanno distruggendo l'industria musicale africana, costringendo artisti e produttori a cercare opportunità al di fuori del continente. Non sorprende, quindi, che il motore economico della musica africana stia iniziando a spostarsi altrove, principalmente a Parigi. In questa città, il
big bang della
world music è in pieno svolgimento, offrendo nuove piattaforme e prospettive ai musicisti africani. Radio Nova, Sos Racisme, Actuel Magazine, etichette come Celluloid e Sonodisc, produttori come Martin Meissonnier e festival come Musique Métisses ad Angoulême o Womad, quest’ultimo nel Regno Unito, rappresentano le nuove porte d'accesso al riconoscimento internazionale. Salif Keïta e i membri degli Ambassadeurs capiscono che adattarsi a questi cambiamenti è essenziale, e iniziano a spostare la loro base operativa verso Parigi, sfruttando le crescenti connessioni della diaspora e la vivacità culturale della capitale francese.
L'ultimo album degli Ambassadeurs uscito senza un nome specifico ma solitamente chiamato col nome della prima traccia,
Djougouya, viene registrato nei Jbz Studios di Abidjan nel 1982. Il brano omonimo si distingue come un classico del pop mandingo, fondendo elementi di musica cubana, afrobeat, jazz e sonorità tradizionali
mande. Tuttavia, nonostante l'abilità nel mescolare tradizione e modernità, l'album nel suo complesso non introduce innovazioni stilistiche significative rispetto ai lavori precedenti. Questa mancanza di freschezza potrebbe essere attribuita alle tensioni interne al gruppo in quel periodo, che hanno influenzato la coesione e la creatività collettiva.
Alla sua uscita seguono concerti in Gabon, Sierra Leone e Liberia, che rafforzano ulteriormente la reputazione degli Ambassadeurs in Africa occidentale. Nel 1983, il gruppo riceve un invito a esibirsi al Chapiteau de Pantin nella periferia di Parigi, un evento che segna il loro primo ingresso nel panorama musicale europeo. Nel 1984, i Supers Ambassadeurs, come viene ora chiamata la branca del gruppo guidata da Salif Keïta, tornano in Francia per partecipare a due festival prestigiosi: il Printemps de Bourges e Jazz en France. Al Jazz en France, condividono il palco con Super Biton de Ségou, una delle orchestre regionali più prolifiche del Mali, con la Super Djata Band e con la
griotte Kandia Kouyaté. Questo evento rappresenta una celebrazione della musica africana e un momento simbolico per la diaspora africana in Francia.
Il 1984 segna anche un trasferimento definitivo a Parigi per diversi membri del gruppo, fra i quali Kanté Manfila, Kasse Mady Diabaté e Salif Keïta, che si stabilisce a Montreuil, un sobborgo con una grande comunità di espatriati maliani. Questo spostamento riflette una tendenza più ampia nell'industria musicale africana, con Parigi che diventa un centro nevralgico per la sua produzione e diffusione, un luogo dove le opportunità creative e professionali superano di gran lunga quelle disponibili nei paesi d'origine.
Youssou N'dour presta agli Ambassadeurs un tecnico del suono per fare un tour in Senegal e Gambia fra la fine del 1984 e l’inizio del 1985. Una discussione importante fra i vari membri, avvenuta nella piccola città di Kaolack, porta di fatto alla fine della band. Salif Keïta, Ousmane Kouyate e altri tornano in Francia. Cheick Tidiane Seck torna a Bamako prima di trasferirsi anche lui in Francia.
Cosa rimane, d’altro canto, per trattenere tutti questi musicisti in Mali? La dittatura militare di Moussa Traore sta entrando nella sua fase più paranoica e repressiva, l'industria musicale sta venendo fatta a pezzi dalla pirateria, l'intero sistema di mecenatismo artistico e culturale, da parte dello Stato o di individui ricchi e potenti, è agli sgoccioli. Se hai talento, energia e ambizione, allora l'esilio sembra essere l’unica opzione.
C’è però da rimarcare che, nonostante le incomprensioni degli ultimi anni, il rapporto tra Salif e i compagni degli Ambassadeurs rimase sempre solido. Salif non rinnegò mai quel periodo condiviso, ma anzi riconobbe il ruolo fondamentale della band nel suo percorso artistico, dimostrando una gratitudine profonda per quanto appreso musicalmente in quegli anni. In particolare, l’ammirazione nei confronti di Kanté Manfila, figura insostituibile nella sua carriera, fu sempre evidente.
Una nuova avventuraMentre una stella svanisce, un'altra inizia la sua ascesa. In Francia, il movimento afro è in piena espansione, guidato da personalità come Pierre Akendengué,
Manu Dibango e Ray Lema. Nella primavera del 1984, il nostro uomo trionfa al Festival di musica mista di Angoulême. Il pubblico lo ha conquistato, è deciso, il maliano lascia Abidjan per piantare la tenda in Francia. Si insinua umilmente e discretamente nella comunità maliana di Montreuil, nella periferia di Parigi. Sempre in quell’anno nasce la figlia Nantenin, anche lei albina e purtroppo ipovedente. Diventerà però una grande atleta, campionessa mondiale e paralimpica nei 400 metri. Pare che Salif abbia in tutto nove figli, cinque maschi e quattro femmine, da relazioni in diverse parti del mondo.
Nel 1985 risponde all'invito di Manu Dibango e partecipa alla registrazione del singolo "Tam Tam pour l'Ethiopie", i cui diritti d'autore sono interamente devoluti a beneficio dell'Etiopia, dove la carestia non è mai stata così mortale.
Trasferirsi in Europa significa affrontare nuove sfide: Keïta si scontra con il mondo dello
show business, un sistema molto diverso da quello africano, dove la composizione musicale era più libera e basata sulla ripetizione di testi tradizionali. In Francia, invece, deve imparare a condensare il messaggio delle sue canzoni in modo più efficace e universale. Inoltre, capisce che le lodi ai leader politici, tipiche della musica
griot, non avrebbero successo presso il pubblico europeo, il quale, se avesse compreso il significato di certe canzoni, le avrebbe rifiutate per motivi ideologici.
Non avevo semplicemente lasciato un paese per un altro, avevo lasciato un intero continente per un altro. Perciò mi aspettavo delle difficoltà... Mi sono trovato di fronte a un muro, che era lo show business. Non avevo un martello per abbatterlo e, inoltre, non era con la forza che quel muro sarebbe crollato. Ciò che serviva era esperienza e conoscenza dell’ambiente. Comporre in Africa era la cosa più semplice. Hai una melodia, nei testi parli di qualcuno. Ripeti parole che sono state dette per secoli, per centinaia e migliaia di anni. Ripeti sempre le stesse cose. Qui, invece, devi dire l’essenziale nel minor tempo possibile... Mi piace questo. Perdi alcune abitudini, ma impari qualcosa che può esserti utile per il resto della vita
Questa consapevolezza lo spinge a cercare nuovi temi. Mentre alcuni artisti africani, come i Toure Kunda, sfruttavano l’interesse europeo per l’esotismo con costumi colorati e
performance spettacolari, Salif Keïta optò per un'estetica più complessa e meno immediatamente accattivante, richiedendo una conoscenza profonda della cultura
mande. In questa fase della sua carriera, adottò la figura simbolica del
donso sero (artista cacciatore), che rappresentava la ricerca di nuovi orizzonti. Sul palco iniziò a indossare l’abito rosso tipico di questa figura. Questa trasformazione non è stata casuale, ma ha segnato un cambiamento profondo nella sua musica, che ha iniziato a incorporare temi e ritmi legati ai cacciatori, come sarà evidente nell’album
Soro (1987).
Mentre i critici hanno trascurato questa evoluzione, il pubblico
mande l’ha recepita. L’identificazione con il simbolo del cacciatore riflette il suo bisogno di dialogare con la società e di trovare un posto accettabile al suo interno. Dopo essere stato emarginato a causa del suo albinismo e della sua scelta artistica, ha visto nel cacciatore un modello che potesse legittimare la sua nuova identità musicale e sociale. Il cacciatore è una figura chiave della cultura in questione, radicato nella tradizione, ma sempre pronto ad affrontare l’ignoto, rappresenta la capacità di evolversi senza perdere la propria identità. Il cognome Keïta è legato al titolo di
simbõ (maestro cacciatore), in onore di Soundiata Keïta. Invocandolo, Salif ha dato una nuova legittimità al suo percorso artistico. Scoprirà lentamente un nuovo modo di fare musica, seguendo quasi in parallelo la visione di un altro gigante, King Sunny Adé, che a inizio anni Ottanta aveva già sposato parte della strumentazione occidentale per il suo
Juju Music.
Soro
Con i finanziamenti forniti dal grande produttore discografico senegalese Ibrahima Sylla, Salif Keïta entra in uno studio di Parigi nel 1986 con Kanté Manfila e molti dei musicisti che aveva conosciuto con gli Ambassadeurs e la Rail Band, tra cui Cheick Tidiane Seck, e registra l'album
Soro, che uscirà l’anno successivo.
Cantato in
mandinkè,
Soro nasce quindi dalla sensibilità di un profeta, appunto, che brama un ritorno in patria in grande stile. Un rientro a mo' di condottiero, che avverrà di lì a poco, dato il successo delle cassette prodotte dalla Syllart Productions in Africa (il disco venne nel frattempo distribuito dalla Mango negli Stati Uniti e dalla Emi in Francia).
Dietro le quinte di
Soro ci sono gli arrangiamenti di Jean-Philippe Rykiel e François Bréant, che si divideranno il bottino suonando in tre canzoni a testa. Sono due musicisti di prestigio: giusto per intendersi, Rykiel ha suonato per
Jon Hassell,
Youssou N'Dour e Cyrille Verdaux, mentre Bréant è stato per molti anni il tastierista del cantautore francese Bernard Lavilliers. Il lavoro di produzione di Rykiel e Bréant aiuta a garantire che l'equilibrio tra gli elementi africani e quelli rock e pop risulti naturale, persino inevitabile, pur suonando completamente rivoluzionario. Pur essendo basato su strutture e melodie tipiche della musica della cultura
mande,
Soro mostra arrangiamenti e tecnologia tipicamente occidentali, rivelandosi un disco apripista di una visione futura, che farà breccia anche in altre opere miliari, alcune meno internazionalizzate, come ad esempio
Kassikoun di
Abdoulaye Diabaté, e altre ancora più spinte in quella direzione, su tutte il magnifico
Niamey Twice di Moussa Poussy & Saadou Bori.
Composto da sei canzoni, nelle sue partiture si intrecciano conga,
kora, fiati, tastiere, tamburi, cori, bassi e chitarre. Nel suo spirito ci sono invece il calore del vento settentrionale del Sahara e il fuoco meridionale della savana sudanese che stringono il Mali. E c'è la fluorescenza armonica delle tribù
mandingo.
"Wamba" è l'
incipit di un sentimento che esplica innanzitutto una rottura. Perché Keïta compone lontanissimo da casa e sente inesorabilmente l'urgenza di sventolare il raggiungimento di una precisa evoluzione, il suo essere spirito libero ma allo stesso tempo eternamente fedele alle mura di casa. "Io sono ciò che sono. Questo è il mio stile. Sii sincero con te stesso, e non solo per un po'": parole che echeggiano tra un coro di voci perlopiù femminili (Djene Doumbouya, Douglas Mbida, Georges Seba, Marilou, Nayanka Bell e Yves N'Djock) e un basso funky che emette energia solare a ogni nota, mentre al centro spuntano stacchetti a percussioni raggianti e trombe epiche che fanno festa.
È solo l'inizio di un album maledettamente virtuoso. La
title track verte infatti su soluzioni più articolate, adottate dentro uno zigzagare di suoni, poliritmi e melodie che sembrano usciti da un Eden piantato ai lati del fiume Niger. La seconda metà del brano poi accelera, mentre la terza si assesta (si fa per dire) tra cori che rimbalzano e trombe da orchestrina jazz che s'innalzano fiere, prima che tutto finisca di soppianto. Che genere è? Si direbbe, senza esagerare,
afro-progressive. Le parole stavolta esprimono speranza, voglia di restare uniti e cancellare i confini tracciati a matita dagli occidentali. Keïta proclama:
Colui che non onora la fratellanza (badenya) sarà colpito a morte dalla pozione del cacciatore. Chi non rispetta il prossimo giacerà morto e freddo. Sacra è la legge della fratellanza universale. Sacra è la legge della pacifica convivenza
Questo brano rappresenta un vero manifesto della sua nuova filosofia, non a caso introduce la già citata figura del cacciatore. Keïta si distacca dall’ideale competitivo (
fadenya) spesso promosso dai
griot, opponendovi la
badenya, la solidarietà sincera e disinteressata che unisce i figli di una stessa madre nelle famiglie poligame. Questo concetto, considerato l'ideale della coesione sociale, è per lui la soluzione ai problemi dell’Africa moderna. Il riferimento all’autorità morale del cacciatore è particolarmente significativo: nella cultura
mande, i cacciatori non solo proteggono la comunità, ma preservano la giustizia e l’ordine sociale grazie alla loro integrità e conoscenza spirituale. La pozione magica (
soro) evocata nel brano, simboleggia l’ordine morale e la conoscenza segreta tramandata dai cacciatori. Funziona sia come incantesimo sia come rimedio capace di curare i mali della società e punire coloro che la destabilizzano, come ladri e tiranni. La fratellanza dei cacciatori, basata sulla
badenya, trascende etnie, razze e classi sociali. Essi giurano fedeltà a una madre mitica e si riconoscono come fratelli, indipendentemente dall’ordine di iniziazione, mantenendo così un’unità indissolubile nella loro missione di custodi della conoscenza e dell’ordine.
Ancora cori a introdurre subito dopo "Souareba", ballatona enfatica, aulica ma non troppo. Keïta invoca la figura mitica di Souareba, una donna che infonde coraggio e sensualità alla stessa maniera. È un manifesto sociale e politico di grande rilevanza, scritto non a caso a Parigi, città simbolo di ogni rivoluzione. Speciale è anche la successiva dedica al padre, "Sina”, in cui l’artista danza al cospetto della propria memoria per manifestargli non solo il suo trionfo, ma anche una ritrovata consapevolezza delle proprie virtù umane e artistiche.
“La vera nobiltà è la saggezza”, canta Salif mentre balla tra i suoi conviviali. Keïta proclama la distanza tra sé e la sua famiglia. Tuttavia, anziché criticare apertamente il padre, utilizza il genere del
fasa. Pur celebrando il lignaggio del padre, Keïta rifiuta di esservi associato e ridefinisce il concetto stesso di nobiltà, sostenendo che essa risieda nella rettitudine morale e nell’adattamento ai tempi. Contesta la visione stagnante della tradizione e canta: "C’est fou, tout change", sottolineando il valore del cambiamento e della modernità.
Il
groove è irresistibile, così come i cambi di passo assecondati dall'immancabile coretto e dai fiati spumeggianti. Da un punto di vista musicale è anche il brano più "elettrico" del lotto, e anticipa stranamente quello più bucolico: "Cono". Keïta stavolta si interroga su cosa accadrebbe se si desse più importanza all’aspetto fisico piuttosto che alla bellezza interiore delle persone e su quanto sarebbe triste il destino del poeta se il suo valore venisse ignorato a causa della sua diversità fisica:
Il mondo è capovolto,
il denaro ti rende affascinante,
mentre la povertà porta solo disprezzo.
Se sei povero, nessuno ti amerà,
anche se le tue parole sono sagge,
anche quando il tuo cuore è buono,
anche se ti chiudi nel silenzio.
Io sono l’uccello seduto sull’alto albero di cailcedrat,
dalla cima della montagna
penetro nei misteri lontani,
porto gioia al mondo.
Il termine “cònò”, usato nel testo, assume molteplici significati a seconda della pronuncia: può indicare sia l’interiorità di una persona, sia un uccello. Questa connessione è radicata nel pensiero
mande: come un uccello che dall’alto vede il mondo con maggiore chiarezza, l’artista ha il compito di trasmettere alla società messaggi di saggezza e valori fondamentali per il suo benessere.
Le altitudini di "Cono" sono anche il preludio al magnetismo dell'ultima meraviglia di
Soro, "Sanni Kagniba", una canzone in cui la kora è un angelo che emerge dal flusso avvolgente delle tastiere di Rykiel. La canzone è una parabola morale che denuncia i mali del potere politico e l’individualismo eccessivo che lo accompagna. Racconta la storia di un re che, per salvare il trono, sacrifica la propria figlia su consiglio dei suoi indovini. Questo sovrano è l’opposto del modello di fratellanza e sacrificio rappresentato dal cacciatore. Il ritratto del re richiama molti capi di stato africani che hanno sacrificato dignità, verità e vite umane istituendo regimi a partito unico, spesso sostenuti da potenze straniere. Oltre alla politica, il brano critica anche l’intolleranza della società verso i più deboli e verso chi porta un segno di diversità. La storia della giovane Sanni, sacrificata dal padre, richiama i sacrifici umani che, secondo la tradizione orale, venivano praticati dai sovrani del passato. Keïta si identifica con la ragazza indifesa e con sua madre, respingendo questa visione arcaica e crudele: un chiaro riferimento alla discriminazione che ha vissuto a causa della sua condizione di albino.
Soro esce nel 1987 fissando un nuovo standard per la musica africana, Salif che con gli Ambassadeur si è sempre trovato a rincorrere la musica occidentale, con
Soro mette la freccia e la supera diventando uno dei punti di riferimento della world music.
Ko-YanSalif ha ormai acquisito una visibilità internazionale, sancita nell’ottobre del 1987 con l’invito in Inghilterra, per il concerto celebrativo del 70° compleanno di Nelson Mandela. Circondato da star affermate, come Youssou N'Dour e Ray Lema, si è trovato integrato nella ristretta cerchia dei maestri della world music. Per l’occasione canta in inglese,
xhosa e
malinké, sottolineando la statura di un eroe non solo africano, ma universale.
Nel 1988, accompagnato dai giamaicani Sly Dunbar (batteria) e Robbie Shakespeare (basso), prende parte al festival anti-apartheid di Wembley e partecipa poi a diversi festival nordamericani. Nello stesso anno realizza la colonna sonora del film "Yeleen", del suo connazionale Souleymane Cissé.
Pubblicato nel 1990,
Ko-Yan rappresenta un ideale seguito di
Soro. L’album, prodotto ancora da François Bréant, prosegue il percorso di sperimentazione sonora, mescolando strumenti tradizionali africani come la
kora e il
balafon (suonato dal vecchio compagno e virtuoso Kélétigui Diabaté) con influenze funk, jazz ed elettroniche. Pur caratterizzato da una produzione raffinata e da arrangiamenti complessi, l'album appare in alcuni frangenti meno incisivo, mancando di quella freschezza che aveva reso il suo predecessore una pietra miliare.
Tra le tracce migliori, "Yada" si distingue per la sua struttura ritmica e per il messaggio che invita a riflettere sulla condizione umana, mentre "Nou pas bouger" è uno dei suoi primi brani di Keïta in francese (e non a caso la hit dell’album). Quest’ultima, impreziosita dalla chitarra ondulata di Ousmane Kouyaté, mescola abilmente ritmi
mande con un’accattivante base electro-funk. Il testo prende benevolmente in giro il francese parlato dagli immigrati africani poco istruiti, ma allo stesso tempo celebra la loro resilienza e il loro eroismo quotidiano. Invece di esaltare le genealogie nobiliari, come in
Sundiata o
Mandjou, la canzone riconosce il valore di coloro che, pur privi di istruzione e privilegi, riescono con ingegno e solidarietà a sopravvivere in un contesto ostile come quello dell’Europa, sfidando i controlli della polizia per costruirsi una vita in Francia. Attraverso l’umorismo, Salif Keïta dà voce ai lavoratori africani immigrati, sottolineando il loro spirito di sopravvivenza e il loro senso di comunità come nuove forme di eroismo.
Io non scrivo francese, io non capisco il francese!
Durante i giorni della schiavitù, che tribolazioni per noi, neri!
Da allora, i bianchi si sono riversati in Africa,
sono in Senegal, in Costa d'Avorio, in Mali.
Come li chiamiamo?
Li chiamiamo consulenti tecnici francesi,
consulenti tecnici cinesi,
consulenti tecnici giapponesi!
Li chiamiamo nostri fratelli.
Sorella, tieni d'occhio i miei averi,
la polizia è ovunque, con i suoi fischietti, che ci ordinano di uscire da qui.
Diciamo: "Non andiamo, non andiamo,
Non ci credo, non andiamo da nessuna parte".
Nel paese dei bianchi, è un'umiliazione quotidiana, arresti quotidiani, percosse e uccisioni.
Vengono chiamati i vigili del fuoco e anche la polizia ci arresta.
Ogni giorno, vediamo deportazioni.
Non vedono che i neri parlano francese, parlano inglese, parlano cinese,
parlano giapponese solo per dimostrare che siamo esseri umani,
ma i nostri oppressori non sono ancora soddisfatti.
In questo paese, i bambini di razza mista non sono felici,
i loro padri parlano francese alla francese,
le loro madri parlano francese alla francese.
Sorella, tieni d'occhio i miei averi,
la polizia è fuori, con i suoi fischietti, che ci ordina di andarcene da questo paese.
Diciamo: 'Siamo qui per restare, siamo qui per restare!'
Ko Yan abbandona il lirismo intimo e personale di
Soro per abbracciare un messaggio di forte denuncia sociale. Il titolo stesso,
Ko Yan ("Qui stanno accadendo cose"), riflette la sua indignazione verso le ingiustizie subite dalla popolazione africana nel corso della storia, l’ipocrisia dei potenti e le discriminazioni razziali. Keïta descrive un mondo segnato da divisioni e conflitti, opponendovi il suo sogno di fratellanza universale (
badenya) tra etnie e nazioni.
Sebbene la tradizione
mande continui a influenzarlo, l’artista sente la necessità di superare i limiti della musica tradizionale africana per adattarsi alla nuova realtà globale, caratterizzata da migrazioni, mescolanze culturali e comunicazioni rapide. Parigi, con la sua vivace scena multiculturale degli
anni Ottanta, diventa il luogo ideale per portare avanti questa trasformazione. Keïta introduce una nuova estetica musicale, dando un ruolo centrale al sintetizzatore: il risultato è una fusione innovativa tra musica dei cacciatori
mande, l’
afrobeat, la salsa caraibica e ballate tradizionali maliane, arricchita da armonie occidentali.
Nessun artista maliano prima di lui ha osato mescolare così tante influenze diverse, e questa audacia provoca critiche da parte dei puristi della musica africana. Tuttavia, Keïta difende la sua posizione, affermando che la musica non deve rimanere statica, altrimenti diventa solo un oggetto da museo. Questa visione innovativa renderà Keïta uno dei principali esponenti della
world music.
L’innovazione di Keïta non si limita alla musica: Keïta ridefinisce anche il concetto di eroismo, celebrando il
tunkaranke, ovvero l’immigrato africano che affronta difficoltà e sacrifici per costruire un futuro migliore. Vedendoli come i "nuovi cacciatori" della modernità, Keïta esalta il loro contributo all’economia e alla cultura globale, affermando che il loro sforzo è essenziale per il mondo del futuro. In un’epoca di crescente xenofobia, il suo messaggio è chiaro: gli immigrati sono eroi contemporanei che lottano per affermare la loro umanità.
Nel 1990 fonda con la moglie Coumba Makalou Keïta l’associazione umanitaria "SOS Albino" per supportare, dare consigli, indicazioni e sostegno ai fratelli e alle sorelle che hanno condiviso la sua problematica. Nello stesso anno contribuisce con "Begin The Beguine" all'album tributo a Cole Porter, "Red Hot + Blue", prodotto dalla Red Hot Organization. I ricavati vanno in beneficenza per la lotta all’Aids.
Amen
In questo periodo, Salif si dedica a un'intensa attività concertistica, consolidando il suo legame con il pubblico europeo e nordamericano, oltre ad ampliare la sua rete di conoscenze. Da sempre ammiratore dei
Weather Report, strinse amicizia con
Joe Zawinul, il quale nel 1991 produsse il suo album
Amen, per la Mango Records. L’album vanta collaborazioni di altissimo livello, tra cui
Carlos Santana, Bill Summers e
Wayne Shorter, oltre ai contributi fondamentali di compagni storici come Kanté Manfila, Cheick Tidiane Seck e Keletigui Diabaté. Santana dichiarò: "Per la potenza e la bellezza della sua voce, è uno dei più grandi cantanti che abbia mai conosciuto".
L'album riesce a fondere in modo raffinato il mondo musicale di Zawinul con l’identità mandinga di Salif, evitando che il
sound risulti patinato e integrando strumenti tradizionali africani come il
balafon con tastiere sofisticate e arrangiamenti occidentali. Il brano di apertura "Yele n Na" introduce immediatamente l'ascoltatore nell'universo sonoro dell’album, con la voce di Keïta che si muove con sicurezza su un tessuto musicale ricco di percussioni africane e interventi jazzistici. In "Waraya" le percussioni incisive stabiliscono immediatamente un ritmo coinvolgente impreziosito dagli interventi mirati del sax di Wayne Shorter. "Tono" si distingue per l'uso sapiente degli spazi e del dinamismo, alternando momenti di grande energia a passaggi più riflessivi, ma soprattutto per il suo potente messaggio sociale:
Se sei nero, pensa al tuo futuro,
se sei bianco, pensa al tuo futuro,
possa il nostro piccolo paese diventare grande,
più grande nella fratellanza,
più grande nella comprensione,
più grande nell'amicizia
Questo messaggio, intriso di speranza, rappresenta un invito rivolto non solo al Mali, ma all’intero mondo, affinché rifletta sul futuro in un’ottica inclusiva.
Un altro brano degno di nota è "Nyanafi", con la sua atmosfera contemplativa e malinconica, che esplora il concetto di impermanenza e l'importanza di non lasciarsi sopraffare dalle ambizioni materiali. "Kuma" con il suo
groove ipnotico, invece, riflette sulla responsabilità della parola, un tema caro alla tradizione
griot. Questi messaggi acquisiscono una forza universale con l'ascolto ripetuto, trasformandosi in emozioni tangibili che superano la barriera linguistica.
Il lavoro lirico di Keïta si distingue non solo per i messaggi politici, ma anche per un'ironia sagace e una saggezza che emergono in brani come "Yele n Na", in cui canta del suo amore per una donna che lo rifiuta:
Ho fatto la scimmia
Ho fatto tutto quello che fanno le scimmie
Non c'è trucco da scimmia che non abbia provato
Dove per "trucco da scimmia" si intende marachella. Questo tocco di leggerezza aggiunge una dimensione umana all'album, bilanciando i temi più seri.
Probabilmente, "Lony" è una delle più belle e profonde composizioni del suo repertorio, nei suoi otto minuti presenta tastiere sintetizzate e una marcata cassa ritmica, creando un'atmosfera delicata e fluida che mette in risalto la voce di Salif Keïta. I ritmi complessi e i cori supportano l'elevata vocalità di Keïta, mentre il testo esplora i temi della conoscenza e della fede e celebra la ricerca della conoscenza come uno dei pilastri fondamentali dell’esistenza, un processo che dura tutta la vita e non una qualità data una volta per tutte. I
mandeaffermano che la conoscenza di sé è il miglior tipo di conoscenza e il fondamento dell’individuo. In questa canzone, emerge una chiara dimensione autobiografica, con Salif che esprime la sua soddisfazione per essere andato lontano da casa alla ricerca della conoscenza:
Madre, o Dio, così va il mondo,
ne beneficia solo chi lo conosce.
Una famiglia deve molto alla qualità del suo capo,
la sua felicità dipende da una buona visione.
Un villaggio deve molto alle qualità del suo capo
La sua felicità dipende dalle qualità del suo capo.
Dobbiamo tutto alla grazia dell'unico e unico Signore, che ha creato il mondo e che è onnisciente.
Tengo sotto l'ascella un'arma infida.
Se metto la mano in tasca, oh disastro,
così tante donne diventeranno sterili durante il parto.
Oh, la solitudine può lentamente divorare l'anima!
Un giorno ero seduto, annegato nei miei pensieri,
quando l'uccello oracolo venne da me e disse:
'Non preoccuparti così tanto!
Usa la terra come le tue scarpe,
il cielo sopra come il tuo cappello,
le benedizioni come il tuo bastone da passeggio,
e viaggia per il vasto mondo senza paura!'.
Oh, maestro, i frutti dei nostri viaggi sono abbondanti,
così come le ricompense della conoscenza in questo mondo,
conoscere se stessi è meglio che saper cavalcare,
l'auto-conoscenza è una benedizione infinita. Se conosci te stesso, sicuramente qualcuno ti insegnerà a cavalcare.
Oh, maestro, le ricompense della conoscenza sono abbondanti.
Gli aerei decollano e atterrano ogni giorno,
non è questa una benedizione della conoscenza?
I treni vanno e vengono ogni giorno,
non è questa un'altra ricompensa della conoscenza?
Oh, maestro, abbondanti sono i frutti della conoscenza.
I dottori aprono e chiudono gli stomaci ogni giorno,
non sono queste le benedizioni della scienza?
Oh, maestro, quanto è preziosa la conoscenza!
Souareba, l'uomo santo nel suo ritiro, compie miracoli ogni giorno.
Ecco un'altra ricompensa della conoscenza.
Oh, maestro, cosa siamo noi se non uccelli?
Nessuno può contare tutti gli alberi su cui ci siamo seduti.
Siamo uccelli che sono oltre la portata di qualsiasi catapulta,
siamo seduti sul ramo più alto dell'albero della conoscenza,
oh, per la grazia di Dio, la conoscenza è una grande benedizione.
Se mostri le tue buone qualità umane,
sicuramente qualcuno ti insegnerà come cavalcare un cavallo.
Oh, maestro, belle sono le ricompense della conoscenza.
Artisti che sono profondamente coinvolti nella loro arte,
non è questa un'altra benedizione della conoscenza?
Oh, maestro, gli studiosi non hanno eguali ai miei occhi,
Coloro che cercano la conoscenza non hanno eguali in questo mondo!
Amen ottenne una
nomination ai Grammy Awards nella categoria Best World Music Album e raggiunse il primo posto nella Billboard World Albums Chart, un traguardo straordinario per un artista africano. La critica lo accolse come uno dei migliori album afro-pop dell’epoca. Fred Sushter di DownBeat lo definì "un classico destinato a segnare la world music", paragonandolo al celebre "
Aja" degli
Steely Dan per la sua sofisticatezza.
Sempre nel 1991 esce il film documentario "Salif Keïta: Destiny Of A Noble Outcast" del regista sudafricano Chris Austin. Il film ritrae l'uomo e il musicista, seguendolo con la sua famiglia, nei luoghi della sua infanzia e durante i suoi concerti in Mali e in Francia. Salif è sempre più integrato nella scena musicale internazionale.
Le collaborazioni proseguirono e nel 1993 arriva un progetto a quattro mani con
Steve Hillage, figura iconica della scena musicale di
Canterbury, per la colonna sonora del film
L’enfant lion, diretto da Patrick Grandperret. La pellicola, dal forte impatto drammatico, affronta il tema della schiavitù. Hillage, già noto per la sua esperienza nella
world music e nell’
ambient, adottò un approccio etereo e stratificato alla produzione, che si fuse con la voce calda e ipnotica di Keïta. Oltre a comporre e interpretare le musiche, Salif vestì anche i panni di un
griot nel film, confermando ancora una volta il suo legame profondo con la tradizione orale maliana.
Su iniziativa di Keïta, la casa discografica Mango concesse una licenza gratuita per alcune tracce dell'album all'ente benefico Sos Albinos, con sede in Mali. Questi brani furono pubblicati su una cassetta di raccolta fondi intitolata
Sirga, destinata a supportare la lotta contro la discriminazione e le difficoltà vissute dalle persone affette da albinismo.
Folon… The PastSe i lavori precedenti hanno esplorato fusioni audaci con sonorità tecnologiche e sofisticate,
Folon… The Past (1995) rappresenta un ritorno alle radici, con un approccio più intimo e riflessivo che bilancia melodie tradizionali dell'Africa occidentale con arrangiamenti percussivi discreti e un'atmosfera che richiama la salsa. Il risultato è un album accessibile e capace di mantenere una sua autenticità. L'opera appare come una sorta di tributo al passato dell'artista, sia personale che culturale, come suggerisce il titolo stesso.
Wally Badarou, noto per il suo lavoro con star come
Grace Jones, apporta una produzione elegante e raffinata. Jean-Philippe Rykiel, già parte integrante del successo di
Soro, torna a collaborare con Keïta, aggiungendo un tocco distintivo ma discreto, con le sue tastiere elettroniche.
L'album si apre con "Tekere", un brano ritmicamente contagioso che celebra la figura del
griot. La traccia combina poliritmie africane, chitarre in stile
soukous (o rumba congolese) e una sezione fiati dal sapore funk, offrendo un esempio perfetto di
world music all'insegna dell'eclettismo.
Troviamo qui una interessante reinterpretazione di "Mandjou", grande classico degli Ambassadeurs. Dal punto di vista estetico, le due versioni di "Mandjou" presentano notevoli differenze. La prima, realizzata negli anni Settanta, aveva un ritmo vicino alla rumba, mentre questa si caratterizza per una sonorità più dura e percussiva, ispirata alla musica dei cacciatori (
donso). Questo cambiamento riflette l’evoluzione artistica di Salif Keïta, che come già detto, dalla metà degli anni Ottanta ha trovato nella musica dei cacciatori un’identità più autentica e significativa. La scelta di reinterpretare "Mandjou" in questo nuovo stile sembra voler chiarire definitivamente la sua posizione artistica e la sua identità musicale, sottolineando il distacco dalle formule preconfezionate della musica
jali e dalle convenzioni imposte dalla società mandinga.
Un passaggio a vuoto è "Africa", che combina in modo un po’ ruffiano ritmi di
soukous a sonorità caraibiche come il
soca e lo
zouk, restituendo un'immagine un po' stereotipata della musica africana e con un risultato che suona eccessivamente confezionato. "Mandela", invece, è un brano ispirato al viaggio di Keïta in Sudafrica e presenta una struttura atipica, con influenze che richiamano la musica mediorientale. Il testo mescola lingue diverse, tra cui l'inglese e lo zulu, sottolineando il messaggio di fratellanza universale. Si tratta della hit dell’album.
Con un approccio più tradizionale, "Seydou" si distingue come una toccante elegia dedicata al designer Chris Seydou, morto di Aids. La traccia è caratterizzata da un arrangiamento acustico che include il
balafon e lo
ngoni, a cui si aggiunge un sintetizzatore etereo per conferire profondità sonora.
Il brano finale, "Folon", è una ballata malinconica e contemplativa che celebra il ritorno della democrazia in Mali dopo la fine della dittatura militare, lasciando l'ascoltatore con una nota di speranza e riflessione. Con essa, Salif torna a suonare la chitarra, lo strumento che gli ha aperto le porte della musica. Il suo ritorno a questo strumento, dopo essere stato conosciuto solo come cantante per così tanti anni, segna il suo crescente desiderio di creare una musica che rifletta in modo più veritiero il suo lirismo personale e il suo spazio interiore.
In passato, a te e a me non veniva chiesto di esprimere la nostra opinione,
questo è il vecchio modo.
In passato, nessuno prestava attenzione a ciò che provavi.
Che tu avessi belle parole in te, gioia nel tuo cuore,
che fossi affamato o pieno di un desiderio,
non potevi dirlo. Non importava.
Oggi, a ognuno di noi, a te e a me, viene chiesto di esprimere la sua opinione.
Oggi, qualunque cosa ti accada, puoi dirla.
Tutti ascolteranno e mostreranno preoccupazione.
In passato, dovevi tenere le cose per te
Salif contrappone il passato e il presente, le esigenze della comunità e quelle dell'individuo. Afferma che in passato gli individui e le loro necessità venivano trascurati per amore dell'armonia collettiva. Erano ridotti al silenzio sulla loro sofferenza e sui loro bisogni per proteggere l'onore delle loro comunità. All'estremo opposto di questo pensiero, saluta l'era attuale e la maggiore libertà data all'espressione individuale. Come artista, egli crede che le condizioni odierne siano più favorevoli all'espressione delle sue emozioni personali.
Con
Folon, inizia a essere evidente la volontà di Salif di farsi voce non solo della cultura mandinga ma di tutto il continente africano. Nel 1995 scompare anche il padre Sina, con il quale si era nel frattempo riappacificato.
La carriera musicale di Salif Keïta è in continuo crescendo in termini di notorietà e nel 1996 può permettersi il lusso di registrare
Sosie, un album colpevolmente trascurato, in cui rende omaggio alla
chanson francese reinterpretando classici non banali, come "Je suis venu te dire" di
Serge Gainsbourg, "Avec le Temps" di Leo Ferré, "Noir et blanc" di Bernard Lavilliers e "La valse des lilas" di Michel Legrand. Confrontandosi con questo repertorio, Salif mostra un’inaspettata affinità con gli artisti francesi.
Dal 1997 in poi torna sempre più spesso in Mali, dove viene sempre accolto trionfalmente. Compra un
pied-à-terre a Montreuil, dove vivono i suoi (numerosi) figli, e apre uno studio a Bamako, dove inizia a produrre giovani artisti (Fantani Tour, Rokia Traore), dedicandosi sempre di più all'organizzazione "SOS Albino". Sempre nel 1997 ad Angoulême suona al Festival des Musiques Métisses con
Ali Farka Touré. Dopo la loro esibizione per "La nuit mandingue", Ali Farka lo ringrazia pubblicamente a nome di tutti gli artisti del Mali per le opportunità che la sua audacia creativa e il suo spirito pionieristico avevano dato a lui personalmente e ad altri musicisti maliani. Nel 1998 Keïta contribuisce alle
colonne sonore dei film "L’assedio", di
Bernardo Bertolucci e "Vie sur Terre" di Abderrahmane Sissako, debuttando inoltre come attore nel ruolo di Esaù, per "La Genèse" di Cheick Oumar Sissoko.
Papa
Pubblicato nel 1999,
Papa (che nell’edizione in cassetta è stato intitolato "Mama"), è dedicato alla memoria del padre, scomparso nel 1995. Dopo l'intimità acustica di
Folon... The Past,
Papa segna un ritorno a una produzione più internazionale e sofisticata.
Co-prodotto dal chitarrista statunitense
Vernon Reid, membro dei
Living Colour, l'album vede la partecipazione di musicisti di alto profilo, tra cui
Grace Jones, John Medeski (tastiere) e i batteristi Ben Perowsky e Curtis Watts. A questi si aggiungono due maestri maliani:
Toumani Diabaté alla kora e il balafonista Kélétigui Diabaté. Fin dal brano d'apertura, "Bolon", Reid contribuisce con chitarre incisive e
riff energici. Jones appare in sottofondo in alcuni passaggi, aggiungendo tocchi vocali
soul che arricchiscono l'atmosfera.
Un momento curioso è rappresentato da "Mama", che sembra un brano uscito dall'album "Naked" dei
Talking Heads per il suo
sound sperimentale e pulsante, ma in generale gran parte della scaletta è caratterizzata da
groove percussivi e sezioni ritmiche che si avvicinano più al post-R&B e, in alcuni frangenti, al
trip-hop, che all'afropop tradizionale. La canzone è stata composta per sua figlia Mama, come segno di gratitudine per l’amore incondizionato che gli ha dimostrato, nonostante le difficoltà e le barriere imposte dalla società. Mama, nata fuori dal matrimonio, era stata allontanata dal padre dalla famiglia materna, probabilmente a causa dell’albinismo di Salif e della sua condizione precaria come musicista in Mali. Mentre Salif si era rassegnato a questa separazione, sua figlia ha fatto di tutto per ritrovarlo e costruire con lui un rapporto profondo. Questo dolore condiviso ha reso Salif più diffidente nelle sue relazioni personali e lo ha spinto a mettere in guardia la figlia sulla crudeltà del mondo, consapevole dei pericoli derivanti da cattivi consigli e invidia.
Brani come "Ananamin" e "Tolon Wilile" bilanciano elementi tradizionali africani con sintetizzatori e arrangiamenti funk. Quest'ultimo pezzo ha anche ricevuto un remix da Joe Claussell per il mercato dance. La
title track è stata invece utilizzata nel 2001 per la colonna sonora del film "
Ali" (regia di
Michael Mann).
Talvolta l'album sembra perdere direzione, ma si riscatta con la conclusiva "Gnokon Fe". Qui un
groove percussivo stratificato, chitarre in
loop e voci intrecciate creano una dimensione quasi magica. "Gnokon Fe" si ispira alla tradizione dei canti dei cacciatori e trasmette un messaggio sulla convivenza e l’interdipendenza tra tutte le creature del mondo, sottolineando che la gioia di vivere dovrebbe essere condivisa, poiché Dio è il padre di tutti gli esseri viventi.
In generale,
Papa è un album che strizza un po’ troppo l'occhio al grande pubblico. Se da un lato la produzione pulita e il
sound pop risultano piacevoli e rilassanti, dall'altro finiscono per diluire l'intensità emotiva e la componente tradizionale che avevano caratterizzato gli album precedenti. Da un punto di vista testuale, in
Papa il cantante affronta anche altri temi dolorosi: oltre alla già citata morte del padre, anche la scomparsa di alcuni dei suoi amici più cari. A cinquant’anni, Salif comincia a riflettere sul lungo percorso della sua vita e offre consigli alla figlia, che si prepara a diventare moglie e madre. Salif stesso ha descritto l’album come una sorta di libro della sua vita.
Verso la fine degli
anni Novanta, Salif inizia a manifestare un certo malessere riguardo alla Francia, sottolineando le difficoltà burocratiche per ottenere un visto e invitando gli africani a esplorare altre destinazioni nel continente, come il Sudafrica di Mandela, il Gabon e il Marocco. Nel 1999 prende seriamente in considerazione l'idea di trasferirsi altrove, valutando gli Stati Uniti, specialmente dopo aver firmato un contratto con Verna Gillis, la produttrice che aveva reso Youssou N’Dour una star internazionale. Tuttavia, l’idea di adattarsi a un ambiente così diverso lo scoraggiava e la collaborazione con Gillis si rivelò difficile, a causa di tensioni culturali e artistiche.
Tutti questi cambiamenti, uniti alla sua nuova esperienza musicale in Nord America, probabilmente lo aiutarono a superare le sue esitazioni e a prendere la decisione definitiva di tornare in Mali nel 2001. Con questo ritorno, si chiudeva un capitolo importante della sua carriera e della sua vita.
MoffouAll’alba del nuovo millennio Salif fa ritorno a Bamako, dove vivrà per un breve periodo. Questo rientro è simboleggiato anche nel suo abbigliamento: se prima vestiva i panni del cacciatore errante (
donso), ora indossa una semplice tunica bianca, segno della sua ritrovata stabilità. Tornato a casa, Salif si immerge nella cultura mandinga e non a caso nel 2002 pubblica
Moffou, che segna un ritorno alle radici, sia dal punto di vista musicale che simbolico. Il titolo dell’album richiama il nome del locale che il cantante ha aperto a Bamako per promuovere la scena musicale dell’Africa occidentale.
Moffou è anche il nome di un flauto tradizionale maliano utilizzato per allontanare gli uccelli dai campi, un simbolo di ritorno alla tradizione e alla cultura locale.
Con questa opera, Keïta riscopre le sonorità tradizionali del Mali ancor più che in
Folon… The Past, abbandonando le sperimentazioni elettroniche del lavoro precedente per abbracciare un
sound africano al 100%. Questo approccio gli ha permesso di realizzare uno dei suoi album più autentici, profondi e toccanti, un’opera che ha saputo conquistare sia il pubblico locale, sia quello internazionale.
Il disco si apre con "Yamore", un duetto straordinario con
Cesária Évora. L’incontro tra queste due voci crea un’armonia sorprendente, arricchita da raffinati arrangiamenti strumentali, tra cui spicca la fisarmonica di Benoît Urbain. Il brano è un esempio perfetto della capacità di Keïta di mescolare culture e sensibilità musicali diverse.
Un altro momento di grande intensità è "Baba", con gli strumenti tradizionali maliani a creare un'atmosfera sospesa e malinconica. Si tratta di un omaggio agli antenati e ai valori tradizionali.
"Madan" è probabilmente uno dei brani più celebri dell’album, grazie anche al
remix di Martin Solveig, che ha portato la canzone a un pubblico ancora più ampio. Nella versione originale, il pezzo è un inno alla gioia e alla celebrazione della vita, con un ritmo coinvolgente e percussioni vivaci che invitano al movimento. La fusione tra i liuti maliani e il basso funky del camerunense Guy N’Sangue crea un
sound irresistibile.
Caratterizzato da una dolcezza e da una delicatezza che emergono sia nel testo che nella melodia, il brano "Moussolou" è un omaggio a sua madre Nassira, che ha affrontato in silenzio le difficoltà della poligamia, l’autorità patriarcale e la sfida di crescere due figli albini e una nipote in un ambiente ostile. Il successo del figlio le ha portato conforto materiale e una sorta di rivincita morale, ma Salif voleva che il suo tributo fosse esteso a tutte le donne del Mali, celebrando il loro ruolo fondamentale nella società e riflettendo la sua nuova armonia interiore.
Il brano descrive con grande realismo la dura vita delle donne nei villaggi maliani, con immagini poetiche che evocano le fatiche quotidiane, come la raccolta della legna lontano dall’abitato. Attraverso l’uso raffinato della lingua
malinkè, Salif crea espressioni autentiche per sottolineare la distanza percorsa dalle donne nella loro ricerca di risorse. In questa celebrazione della madre come pilastro della famiglia e della società, il tema centrale è che l’umanità si costruisce attraverso la socializzazione e l’educazione materna. La voce di Keïta si fonde con chitarre scintillanti e percussioni leggere, creando un’atmosfera intima e rassicurante.
Tra le ballate più toccanti troviamo "Ana Na Ming", nata durante un momento di solitudine dell’artista su una piccola isola. La strumentazione minimale mette in risalto la purezza della melodia e l’intensità emotiva del pezzo. Anche "Koukou" e "Here" sfoggiano melodie ipnotiche e ritmi avvolgenti. Il primo è un pezzo energico che richiama le danze tradizionali e porta con sé influenze brasiliane, mentre il secondo si distingue per l’intimità e il carattere riflessivo, con un accenno alla musica calypso dovuto ai tamburi d'acciaio del percussionista francese Arnaud Devos. "Iniagige" merita infine una menzione speciale, poiché mette in evidenza l’abilità di Keïta come chitarrista. Qualunque sia la storia che Keïta canta, lo fa con massima convinzione e intensità. Questa caratteristica dona profondità ai brani, mentre gli arrangiamenti acustici forniscono una cornice ideale per la sua voce.
La produzione di Jean Lamoot è stata determinante per il successo di
Moffou. Lamoot, noto per le sue collaborazioni con artisti del calibro di
Noir Désir, Alain Bashung e Mano Solo, ha saputo valorizzare al massimo la voce di Keïta e le sonorità tradizionali senza snaturarle grazie a un lavoro meticoloso sugli arrangiamenti e sul mixaggio. Non a caso, un ruolo fondamentale in tutto ciò è giocato dai musicisti, quasi tutti africani, che hanno collaborato alla sua realizzazione. Tra i più importanti troviamo il vecchio compagno Kanté Manfila.
Altri nomi degni di nota sono Djelly Moussa Kouyaté, il percussionista Mino Cinelu, il flautista David Aubaile e una straordinaria sezione ritmica formata da Mamadou Koné, Adama Kouyaté, Souleymane Doumbia e Drissa Bakayoko.
Con 75mila copie vendute in Francia, che gli sono valse un disco d’oro, e altre 100mila nel resto del mondo,
Moffou è il più grande successo commerciale della sua carriera e viene accolto come un capolavoro dalla critica.
M'Bemba
Sull'onda del successo di
Moffou, Keïta decide di costruire uno studio di registrazione a Bamako, capitale del Mali, per ottenere un maggiore controllo creativo sulle sue produzioni. Questo spazio diventa il cuore pulsante di
M'Bemba, album pubblicato nell’ottobre 2005. Il titolo, che in lingua
bambara significa "gli antenati", richiama l'eredità culturale mandinga che permea l’intero lavoro. Tra i collaboratori troviamo chitarristi di lunga data come Ousmane Kouyaté e Kanté Manfila, Djelly Moussa Kouyaté allo
ngoni e Toumani Diabaté alla
kora.
Sebbene mantenga l'impronta acustica del predecessore,
M'Bemba presenta un suono più ricco e saturo, con una maggiore vivacità ritmica e un uso più marcato degli effetti da studio, che in parte richiama l'urgenza vocale dell'album
Soro del 1987.
Il produttore Jean Lamoot continua a esercitare la sua influenza equilibratrice sul gusto talvolta erratico di Keïta, creando un ambiente sonoro coeso ma variegato. Il percussionista Mino Cinelu contribuisce con atmosfere cinematografiche, mentre un coro femminile sinuoso permea la maggior parte delle tracce, creando un contrappunto vocale che esalta la potenza espressiva del cantante.
Il senso di narrazione e slancio dell'album si manifesta fin dall’iniziale "Bobo", che emerge gradualmente dal silenzio con un insistente motivo ciclico di chitarra. Questo brano stabilisce l'atmosfera dell'intero album, combinando eleganza e rilassatezza. La tendenza al movimento prosegue con "Laban", dalla struttura tipica della rumba congolese. In "Yambo" si apprezza un delizioso gioco tra chitarra e
ngoni, che aggiunge profondità al tessuto sonoro. "Tu vas me manquer" è uno dei brani più emotivi e delicati dell'album, con la kora di Toumani Diabaté e il
kamale ngoni di Djelly Moussa Kouyaté che si intrecciano alle chitarre e alle percussioni.
La
title track rappresenta uno dei momenti più alti dell'opera. Dedicata a un antenato reale di Keïta, vede la
kora di Diabaté creare un'atmosfera nello stile di "Haidara", classico del musicista guineano Jali Musa Jawara. In netto contrasto, "Moriba" chiude l'album con Keïta accompagnato da Adama Coulibaly al
simbi a sette corde, uno strumento che crea un ambiente sonoro ultraterreno. Le voci femminili si fanno tese, le percussioni trasmettono un brivido e la chitarra ripete ossessivamente la stessa serie di note, creando un senso di minaccia strisciante e lenta. "Moriba" rappresenta una composizione atipica nel repertorio di Keïta, ma estremamente efficace nella sua oscurità avvolgente.
Non tutte le scelte, però, risultano efficaci. La partecipazione di Buju Banton in "Ladji" è discutibile e fuori contesto, un elemento che spezza l'atmosfera dell'album piuttosto che arricchirla. "Calculer" è una concessione alle esigenze del mercato musicale globale, che sacrifica la potenza della voce di Keïta a favore di suoni elettronici che ne riducono l'impatto emotivo. Anche il remix di "Nou pas bouger" (originariamente parte di
Ko-Yan) appare superfluo e poco ispirato, riducendo la forza vocale di Keïta per inserirla in una cornice ritmica più commerciale che artistica.
La voce di Keïta rimane il fulcro indiscusso dell’album: tuttavia, mentre in passato il suo canto era spesso pervaso da un senso di urgenza emotiva, qui appare più controllato e misurato, il che può essere letto sia come segno di maturità sia come una perdita di quella visceralità che caratterizzava le sue interpretazioni più potenti.
Se in passato Keïta ha affrontato temi sociali e politici con toni più aspri, qui il focus si sposta su storie di amore, memoria e celebrazione della propria identità culturale. Il ritorno alla collaborazione con Kanté Manfila, storico compagno negli Ambassadeurs, aggiunge un elemento nostalgico e profondamente simbolico al disco. A livello di vendite,
M’Bemba riesce comunque ad avvicinarsi al successo di
Moffou, riuscendo, come il suo predecessore, a fare capolino nelle classifiche francesi.
La differenceLa différence viene pubblicato alla fine del 2009 e gli vale il Best World Music 2010 ai Victoires de la Musique, il più importante premio francese. L’album è dedicato alla lotta della comunità mondiale degli albini.
Keïta sembra raggiungere un punto di stabilità, offrendo un prodotto coeso e raffinato, ma meno audace rispetto ad alcune sue produzioni passate. La scaletta scivola in un
groove sognante e vi rimane intrappolata fino alla fine, senza offrire variazioni significative o momenti di rottura. A differenza del precedente
M'Bemba, qui non troviamo pezzi dance, grida d'impatto o elementi che catturino immediatamente l'attenzione. Questa coerenza, sebbene possa essere vista come un punto di forza a livello concettuale, si traduce in un lieve senso di monotonia. Rispetto a
M’Bemba e soprattutto
Moffou, manca però quel senso di urgenza e dinamicità: i brani scorrono in modo fluido, ma senza quei momenti di improvvisa esplosione vocale o strumentale che avevano caratterizzato alcuni suoi lavori precedenti. Gli arrangiamenti risultano eccessivamente misurati e il
sound viene risvegliato solo dal potente canto di Keïta e dagli interventi dello
ngoni, che aggiungono
texture e profondità.
L’album si muove su territori prevalentemente acustici, mescolando elementi tradizionali del Mali con influenze arabe. A differenza della purezza semi-acustica tradizionale dei suoi lavori della seconda metà degli
anni Novanta o del
sound occidentalizzato e moderno degli
anni Ottanta, questa via di mezzo non riesce sempre a cogliere il meglio dei due mondi. Il tentativo di creare un equilibrio tra elementi diversi si traduce a volte in un compromesso che non soddisfa pienamente né chi cerca l'autenticità della tradizione africana, né chi apprezza le sperimentazioni più audaci con sonorità contemporanee.
Un elemento interessante è la scelta di riproporre tre brani dal suo repertorio degli anni Novanta, tra cui "Folon" e "Seydou Bathili". Se da un lato queste reinterpretazioni mostrano la sua volontà di affinare il proprio
sound, dall’altro sollevano dubbi sulla necessità di ripescare materiale già noto invece di spingersi verso nuove direzioni artistiche.
Sul fronte dei collaboratori, Keïta si avvale comunque di musicisti di prim’ordine, come il trombettista libanese Ibrahim Maalouf in "Saminga" e il chitarrista jazz americano
Bill Frisell in "Folon". Anche la presenza del bassista camerunense Guy N’Sanguie e del virtuoso bassista
Jannick Top (ex-
Magma e turnista per i più grandi artisti francesi) arricchiscono la tessitura sonora dell’album.
In
La différence Keïta affronta per la prima volta in modo diretto la sua condizione di albino, trasformandola in un messaggio universale di inclusione: "Sono nero, la mia pelle è bianca, quindi sono bianco e il mio sangue è nero... Mi piace perché è una differenza che è bella". Il brano è un invito alla comprensione e al superamento dei pregiudizi, che sottolinea come le differenze non siano un difetto, ma un valore aggiunto per l’umanità.
Talè
Con
Talé, pubblicato nel 2012, Keïta dà alla luce uno dei suoi lavori più sperimentali, intraprendendo nuove strade, fra elettronica,
hip-hop, jazz e dub. L'album nasce dall'incontro con
Cohen Solal (noto per i
Gotan Project) avvenuto nel gennaio 2011. Come ricorda il produttore, il primo desiderio espresso da Salif fu semplice e diretto: "Voglio che si balli". Con l'obiettivo di infondere nuova energia alla tradizione mandinga, Cohen Solal crea un mix sonoro che lui stesso definisce "retrò-futuristico", fondendo sonorità primitive africane con ritmi elettronici contemporanei. Fra i tanti ospiti internazionali spicca Manu Dibango, sassofonista camerunense e colosso dell’afro-jazz. Accanto a lui, Cissoko Aboussi allo
ngoni e Mamane Diabaté al
balafon, mentre tra i musicisti occidentali si distinguono Cyril Atef alla batteria e Hagar Ben Ari al basso. Gli archi, curati da Christophe Chassol, completano il quadro con eleganza.
L’apertura con "Da" richiama atmosfere familiari ai fan di lunga data, alternando strumenti africani tradizionali a strutture elettroniche dal
groove incalzante. Tuttavia, brani come "Yalla" e la
title track, con archi in stile
disco e vocalizzi soul, pur risultando accattivanti, sembrano mirare al mercato della world music in maniera sin troppo evidente. L’influenza di Cohen-Solal emerge nei
beat marcati e nelle strutture elettroniche, che in alcuni episodi arricchiscono il
sound, mentre in altri tendono a smorzare l’intensità espressiva di Keïta.
Uno dei momenti più interessanti è la sequenza composta da "À Demain" e dal suo
remix "Après Demain". Nella prima, i ritmi tipici di Bamako si fondono con l’elettronica e i ricami della
kora, mentre nel
remix il sax di Dibango aggiunge un tono ipnotico, tra effetti
dub e variazioni ritmiche. "C’est bon, c’est bon", uno dei brani più accattivanti dell'album, vede la partecipazione del veterano rapper britannico Roots Manuva. La canzone è sottilmente funky, deliberatamente
upbeat e perfettamente adatta alla pista da ballo. Particolare anche “Simfy”, con una
texture diversa rispetto agli altri, che campiona "Planet Claire" dei
B-52s e utilizza intelligentemente un arrangiamento di corde di
n'goni. Include suoni che ricordano le orchestrazioni di Bollywood insieme ad accordi tipici delle
colonne sonore di
suspense. La
performance vocale di Keïta è assolutamente dominante, sostenuta da eccellenti arrangiamenti.
Meno riuscito è invece il reggae di "Simby", in collaborazione con Bobby McFerrin, che non valorizza appieno la versatilità di ambo gli artisti. Il legame con la musica afroamericana emerge in "Chérie s’en va", il duetto con
Esperanza Spalding, dove il contrabbasso e la voce della jazzista americana creano un momento raffinato e intenso. La presenza di sua figlia Natty Keïta in "Natty" aggiunge un tocco personale in quella che è una tenera dichiarazione d’amore, ma il brano rimane marginale nel contesto dell’album.
Sul piano testuale,
Talé risulta meno incisivo rispetto a lavori come
La Différence, in cui Keïta affrontava temi politici e sociali con maggiore urgenza. Qui, i testi sembrano più funzionali all’atmosfera musicale che a un messaggio profondo, rafforzando l’idea di un album che forse privilegia la forma rispetto al contenuto. In definitiva,
Talé è un'opera che testimonia lo spirito irrequieto e sperimentatore di un artista che, dopo decenni di carriera, continua a esplorare nuovi territori sonori senza mai perdere di vista le proprie radici culturali e musicali.
Nel 2013 Keïta si trova costretto ad annullare un concerto in Israele a causa di pressioni ricevute dal movimento Bds (Boycott, Divestment and Sanctions). In seguito, pubblica una lettera sulla propria pagina Facebook, affermando di avere rinunciato per paura di "essere danneggiato personalmente o professionalmente". Ha poi specificato di amare ancora Israele e criticato il Bds come "gruppo estremista" che ha usato "tattiche intimidatorie e bullismo".
Il ritorno degli AmbasciatoriNel 2014, Salif, Cheick Tidiane Seck e Amadou Bagayoko (del duo Amadou & Mariam) decidono di far rinascere gli Ambassadeurs. Questa storica
reunion porta a una serie di concerti di successo e alla registrazione dell'Ep
Rebirth, pubblicato il 30 giugno 2015. L'Ep, composto da quattro tracce, include il brano "Mali Denou", il cui videoclip mira ancora una volta a sensibilizzare sull’albinismo in Africa.
La registrazione dell'Ep ha coinvolto musicisti di grande talento, tra cui Ousmane Kouyaté (chitarra), Idrissa Soumaoro (tastiere e voce principale in una traccia), Modibo Koné (percussioni) e altri, con sessioni di registrazione svolte tra Bamako, Parigi e Londra. Cheick Tidiane Seck ha descritto l’evento come "una felice riunione scolastica", sottolineando la gioia di ritrovarsi dopo tanti anni e di condividere storie del passato. Ha aggiunto: "Abbiamo deciso di tornare insieme, esibirci e cercare di catturare la stessa energia che sentivamo prima, per ricreare quel grande suono unificato".
Salif Keïta, riflettendo sull'eredità culturale della band, ha affermato:
Quello che gli Ambassadeurs hanno fatto è stato permettere alla cultura maliana di essere conosciuta oltre i confini del Mali. Quei musicisti sono diventati i veri ambasciatori della cultura maliana e dell'Africa occidentale, grazie a ciò che hanno creato. E dopotutto, questo è molto importante per il Mali stesso.
Musicalmente, Rebirth non aggiunge molto alla storia gloriosa degli Ambassadeurs, ma ripropone con mestiere il loro
sound in una veste più edulcorata e accessibile al pubblico occidentale. I brani si fanno ascoltare con piacere, evocando una nostalgia sottile, come è naturale in operazioni di questo genere.
Grande assente è Kanté Manfila, scomparso quattro anni prima. Il suo ricordo, però, rimane vivo nei cuori dei suoi vecchi compagni. Salif Keïta lo ha ricordato con parole intrise di affetto e rispetto:
È Kanté Manfila che mi mancherà di più. Era come un fratello maggiore per me, e amico di tutti. Era il tuttofare degli Ambassadeurs: compositore, arrangiatore, chitarrista… il cuore pulsante di tutto ciò che accadeva al Motel, insieme al suo insegnante, Moussa Cissokho, che chiamavamo ‘Vieux’. Ma, in realtà, mi mancheranno tutti, perché era davvero una grande band. C'era una grande solidarietà tra noi. E ci saranno alcune lacrime versate quando ci riuniremo quest'estate, anche se quelle lacrime potrebbero non essere viste. La reunion ci ricorderà molte cose e ci toccherà nel profondo, perché molti dei nostri amici ora ci hanno lasciato"
Un autre blanc

Il 17 novembre 2018, quasi alla soglia dei settant’anni, la superstar annuncia il suo ritiro dallo studio di registrazione durante un chiassoso concerto nella città altrimenti sonnolenta di Fana, Mali (125 km a est di Bamako).
In concomitanza con il concerto, viene pubblicato l'album
Un autre blanc. Il titolo si riferisce all'albinismo, tema che lo vede più che mai impegnato, soprattutto da quando l'Onu ha dichiarato il 13 giugno Giornata internazionale per la consapevolezza sull'albinismo. Keïta protesta contro i continui rapimenti e l'uccisione di albini in numerosi paesi africani, denunciando gli stregoni locali che spesso diffondono e perpetuano intenzionalmente idee sbagliate e superstizioni per guadagno personale e, in alcuni casi, i familiari di queste vittime sono complici di questi ignobili avvenimenti.
"Were Were", in apertura, celebra le grandi figure dell'Africa come Nelson Mandela, Desmond Tutu, Sekou Touré e Patrice Lumumba, su un tappeto di chitarre scintillanti e percussioni ipnotiche. "Tonton" affronta il tema della guerra e delle sue conseguenze devastanti su donne e bambini, con un
sound che oscilla tra il malinconico e il solenne. In "Itarafo", Keïta duetta con un'altra grande artista africana, la beninese
Angélique Kidjo, per raccontare la storia di una donna che resiste alla pressione di abbandonare il figlio di un precedente matrimonio; il brano include anche un intervento del rapper franco-africano Mhd, a testimonianza della capacità di Keïta di fondere stili diversi senza perdere la propria identità musicale.
Uno dei momenti più sorprendenti dell'album è "Gnamale", in cui Keïta collabora con
Ladysmith Black Mambazo, il celebre gruppo sudafricano di canto corale. Le loro armonie si intrecciano con la voce di Keïta, che qui utilizza anche l'autotune, non per correggere, ma per sperimentare con le sonorità e aggiungere una dimensione inaspettata alla traccia. Il risultato può sorprendere alcuni puristi, ma dimostra ancora una volta la volontà dell'artista maliano di esplorare nuove soluzioni espressive.
L'album si chiude con "Mansa Fo La", un brano reggae realizzato con la leggenda Alpha Blondy, in cui Keïta ringrazia Dio per le sue benedizioni e mette in guardia coloro che abusano del suo nome. Il pezzo suona come un sottile richiamo ai fondamentalisti islamici che destabilizzano il Mali e, al tempo stesso, come una riflessione sull'importanza della spiritualità nella vita dell'artista.
Con la convinzione di realizzare il suo ultimo album, Keïta decide di congedarsi in grande stile: un disco che riassume la sua carriera, la sua lotta e il suo talento, dimostrando che, anche a più di settant’anni, rimane insostituibile. Mai soddisfatto da formule semplici, sempre curioso e sincero, è lui stesso una benedizione. Certo, ormai si affida anche all'esperienza e le sue produzioni sono sempre più rifinite, ma la classe e la voglia di sperimentare rimangono intatte.
So Kono
Nel 2019 viene insignito del prestigioso Premio La Mar de Músicas durante l’omonimo festival musicale spagnolo. Questo riconoscimento sottolinea il suo contributo duraturo alla diffusione della cultura musicale africana. Negli anni 2020, oltre a continuare a esibirsi in tour, Keïta mantiene un forte impegno sociale attraverso la sua fondazione. A dicembre 2024, arriva a sorpresa l’annuncio di
So Kono, pubblicato l’11 aprile 2025.
So Kono - che in lingua
mandinkè significa "nella stanza" - nasce da un momento di ispirazione quasi inatteso. Durante il Festival Kyotophonie in Giappone, nel 2023, Keïta accetta l’invito del produttore Laurent Bizot, dell’etichetta indipendente parigina No Format!. Circondato dall’atmosfera spirituale di un tempio zen, decide di registrare nella sua camera d’albergo, accompagnato unicamente dalla propria chitarra, da Badié Tounkara allo
ngoni e da Mamadou Koné alla
calabash e al tamburo parlante (
talking drum). Unica eccezione in un paio di brani ("Chérie" e "Awa") è il violoncello di Clément Petit.
“Non sono un chitarrista; uso la chitarra per comporre”, aveva sempre sostenuto Keïta, restio a esporsi in una dimensione così acustica. Eppure, questa atmosfera raccolta crea un legame unico tra l’artista e l’ascoltatore, come se si fosse invitati a una
performance privata di uno dei più grandi cantanti viventi.
Tra i brani spiccano rivisitazioni di classici come "Tassi" (dall’album
Talé, 2012) e "Laban" (da
M’Bemba, 2005), riproposti in chiave più minimale, accanto a standard del canzoniere mandingo come "Sundiata", brano epico che riprende il tema del mitico Sundiata Keïta. La ritmica, dominata dalla
calabash in levare e dal
ngoni riverberante, crea un effetto quasi rituale. Il testo è un racconto in versi: inizia parlando di pioggia e vita contadina ("la pioggia d’inverno, i contadini che tornano ai campi"), poi introduce Sundiata definendolo "il grande guerriero che ha fatto solo del bene e ha salvato il suo paese". La voce di Salif, intensa ma misurata, sottolinea il carattere di vicinanza fraterna e patriottica. La stratificazione delle percussioni crea momenti di pura bellezza essenziale.
Non mancano brani inediti. "Aboubakrin", che apre il disco, è una ballata sul filo dell’invocazione: voce profonda, accompagnata da semplici giri di
ngoni ripetuti come un ostinato. Keïta alterna versi intensi e cori morbidi mentre elogia un amico filantropo che fa "molte donazioni ai poveri". L’atmosfera è intima, con la
calabash in sottofondo. Un momento particolarmente toccante è rappresentato da "Kanté Manfila", tributo all’omonimo musicista, chitarrista e leader degli Ambassadeurs, con cui Keïta ha condiviso oltre trent’anni di carriera. Con un arrangiamento allegro e in levare, nonostante la tonalità minore, Keïta descrive nei versi il “punto di svolta” della loro amicizia artistica ("sei stato tu a lasciarmi da solo dopo avermi insegnato tutto") e usa la metafora dell’uccello che non vuole volare, simbolo del destino degli artisti. Il tocco è leggero, ritmato dal
ngoni e da morbide percussioni. La voce, seppur più roca con il passare del tempo, si muove con naturalezza sulle trame essenziali disegnate da Tounkara e Koné, alternando un registro basso profondo a fugaci impennate in falsetto.
"Proud" è invece il brano di chiusura, con testo bilingue in francese e inglese. Keïta qui suona il
simbi (liuto ricavato da una zucca) al posto della chitarra, conferendo un tono sacro e arcaico. Il brano esplode in un messaggio di affermazione personale: oltre a celebrare l’identità africana, è un manifesto di orgoglio per l’albinismo ("Sono albino e sono fiero") e la diversità. Chiude il disco con una nota di speranza ("vengo in pace"), sottolineando il carattere corale del messaggio: "Vedranno africani, vedranno albini… e io sono quello che sono, e ne sono fiero".
So Kono, pur non essendo un capolavoro, è l’ennesima prova della vitalità artistica di un musicista che, a 75 anni suonati, conserva ancora la curiosità e l’entusiasmo di un ragazzino. Che sia o meno il suo ultimo album, non è ancora dato sapere. Possiamo solo lasciarci con le parole che ha pronunciato in occasione dell’annuncio del disco:
Un cantante è come un uccello.
L’uccello si è rifiutato di volare.
Mi ha insegnato tutto e mi ha lasciato solo con la nostalgia.
[nota 1]La
Quinzaine Artistique era un festival artistico e culturale di grande rilievo nella Guinea post-indipendenza, istituito dal presidente Sekou Touré. L'evento aveva l'obiettivo di promuovere e celebrare l'autenticità culturale africana, valorizzando le tradizioni artistiche locali e nazionali come simbolo dell'identità post-coloniale.
Parte della politica culturale di Sekou Touré, la Quinzaine era un palcoscenico riservato quasi esclusivamente alle orchestre statali e ai gruppi che incarnavano l'ideale di
authenticité, un concetto chiave nella visione di Touré che respingeva le influenze occidentali per riscoprire le radici culturali africane. Partecipare a questo evento non era solo un onore, ma anche una dichiarazione di legittimità culturale e politica.
L'ammissione degli Ambassadeurs, grazie all'intervento di Tiékoro Bagayoko, fu dunque straordinaria, dato che la band non era un'orchestra statale. Il loro successo all'evento ne sancì l’ascesa.
Fonti:(ringrazio calorosamente Federico Romagnoli,
per avermi supportato in questa mia prima pubblicazione per OndaRock, e Giuliano Delli Paoli per avermi concesso di integrare il suo articolo sull'album "Soro")