Enrico Falbo

Enrico Falbo

Tra terra e cielo, sulle tracce del Remoto

Musicista prezioso e testardamente lontano dai riflettori, Falbo continua la sua ricerca di una musica perennemente sospesa tra l'ancestralità di un folk fatto di terra e l'ineffabilità di formule “sonoro-sciamaniche” imbevute di cosmico abbandono. Con tre dischi di forte personalità all'attivo, il musicista e compositore beneventano si è imposto come uno dei segreti meglio custoditi della musica italiana, grazie a una sintesi sonora che, nel più recente "De-Stare", ha provato a cantare anche "l’impotenza del potere sulla Verità" e la “necessità del Sentiero del Giorno"

di Francesco Nunziata

Il beneventano Enrico Falbo (classe 1981) inizia la sua avventura musicale nel 2002 come chitarrista e cantante dei Lamia, formazione il cui nome è una chiara allusione a uno dei brani più amati dei primi Genesis. Di ascendenza Radiohead-iana, ma con le orecchie ben puntate anche su Cure, Joy Division, At The Drive In e il rock progressivo italiano degli anni 70, i Lamia riescono a pubblicare due Ep (l'omonimo del 2005 ed "Eufonia" dell'anno successivo), risultando tra i vincitori di Sanremo Rock (2006) e Rock Targato Italia (2007).
“All'epoca c’era molto fermento musicale nel Sannio: il 'Six Day Sonic Madness' nel castello di Guardia Sanframondi, il centro sociale Depistaggio, il Morgana Music Club a Benevento erano veri e propri luoghi di culto per la musica underground nazionale e non solo", racconta il musicista campano.
In quegli stessi anni, Enrico canta e scrive i testi per i Chaos Conspiracy, formazione post-hardcore/mathcore, artefice, per l’etichetta britannica Copro Records, di “Out Of Place” (2005).
Successivamente, tra il 2009 e il 2012, si dedica al post-rock con "Il Cielo di Bagdad", in cui suona chitarra, viola e harmonium.

Si tratta di esperienze formative, che lo mettono in condizione di scrivere i brani destinati al suo primo disco solista, che uscirà autoprodotto nel 2010 con l’emblematico titolo di Canti Silvani
Messe da parte le tentazioni rock e hardcore, Enrico opta in questi solchi per un suono caratterizzato da tensioni ancestrali e sfumature arcane, nel solco di un’immersione psichica dentro i bellissimi paesaggi del suo territorio d’origine:

I boschi, il verde, il blu, i tramonti e le aurore del Sannio, l’orfismo, le creature infraterrene (elfi, fate, streghe, spiriti e demoni) tanto care al folklore magico-popolare del territorio beneventano sono stati la principale fonte di ispirazione per una 'musica altra'. Ho composto ed eseguito le musiche impiegando vari strumenti come viola, violino, harmonium, chitarra classica ed elettrica, sarangi (strumento indiano ad arco con trenta corde di risonanza), taisho koto (modernizzazione del koto giapponese con tasti simili a una macchina da scrivere),'elettronica-sampler', tamburelli e sonagli. La voce è sempre usata come uno strumento, come se recitasse ancestrali formule sonore-sciamaniche. I Canti Silvani sono canti provenienti dalle selve oscure, dalle radure e vogliono esprimere l’invisibile nel visibile, una sorta di 'pan-psichismo' sonoro, l’henosis di spirito e materia, uomo e natura, 'naturale' e 'sovrannaturale'. L’energia generatrice e divoratrice della Natura è stata per me la fonte di ispirazione per una musica aurale, tra l’oscurità e la luce, 'misterica' oserei dire. In sintesi, ritrovo nel mio percorso musicale l’impulso dissonante del rock, l’armonia e la solennità della musica classica, la frenesia della musica rituale e l’atmosfera eterea e sconfinata della musica cosmica.

canti_silvani_falbo_01Canti Silvani è un disco prezioso, attraversato da echi di misteri sepolti nel tempo, lì dove la memoria può rispecchiarsi dentro le architetture musicali di una “città invisibile” come la Zora di Italo Calvino. Ecco, quindi, che i primissimi secondi del disco – percussività di corde e canto misterico – rapiscono corpo e anima, spingendole a danzare dentro il cerchio di uno stupore millenario (“Viaggio verso Zora”). Nel brano che dà il titolo al disco, invece, energia e disincanto metafisico sono tesi a ridestare gli umori più ancestrali della terra, tessendo trame vibranti e sciogliendone, a più riprese, i fili in dissimulato abbandono, anticipando, quindi, l’unità primordiale che, a ritmo marziale, distilla la sua essenza dentro i labirinti della “Henosis” mistica. Come da titolo, “Valzer stellare” proietta dunque girandole dentro la curva immota di un cielo che, a ben ascoltare, nasconde quella solarità che tanto ci piacque riscoprire anche tra i solchi di un altro grande disco “sommerso” del Belpaese: “Spartenza” dei Sinenomine.
Man mano che scorrono i secondi, prendono forma inquietudini e austerità cameristica (“Canto elfico dell’aurora”), fusioni di solennità e incanto (“La solitudine è vento”), si risalgono i sentieri del mito per fissare negli occhi “colui che guarisce attraverso la luce” (“Fabula di Orfeo”), perdendosi, quindi, nei vortici di “Espiazione della luce”, tre minuti e mezzo scarsi che fanno venire in mente anche i Black Tape For A Blue Girl. E se “La danza delle fate” assomiglia a una ninna-nanna arrangiata da Colleen, la dolente “Overture del non-ritorno” ha il compito di far calare il sipario su di una bellissima avventura fatta di suoni e visioni, in cui le parole sono semplicemente primordiali allusioni al non-detto e, perciò, esse stesse enigmatiche, sfuggenti.

Tutti i brani del disco sono 'in progressione', si aprono incessantemente ad 'altro da sé' verso il 'non-ritorno'. Questo è un fondo di risonanza metafisica, una tonalità emotiva che pervade tutte le composizioni. Credo possa avvicinarsi al 'Moksa' dei Veda, al 'lasciar scorrere' inteso come disfacimento di ogni 'ritornare' nel manifestato, come liberazione da ogni 'ciclo', come abbandono a una specie di 'nostalgia' che disorienta ogni sentimento nostalgico.

Pubblicato quello che, a conti fatti, è uno dei dischi più interessanti e misconosciuti della musica italiana degli ultimi anni, Enrico torna a farsi sentire nel 2013 con l'Ep autoprodotto Muse, una raccolta, pubblicata in appena 100 copie, di colonne sonore registrate a partire dal 2009 per cortometraggi e per installazioni artistiche di Davide Pannullo, Alessia Cocca, Piergiorgio Romano e Gianluca Francesca (ArchiAttack).
Grazie a questa esperienza, Enrico ha modo di esplorare anche sonorità neoclassiche, oltre che quelle più prossime alla dark-ambient (si ascoltino, ad esempio, i tre movimenti di "Mundus Patet"). In una composizione come "De-Materia", torna invece alla sua più giovanile passione per il post-rock.

Nel 2016, è la volta, invece, del debutto su Vulpiano Records con il singolo "Il giorno del richiamo estatico", contentente due lunghi brani: la title track, nove minuti di pulsioni post-industriali e distanti richiami mistici che procedono accumulando tensione, prima di risolversi in dissolvenza; e l'ipnotico congegno minimalista di "Del remoto".
L'anno dopo, a ben sette anni dal suo esordio, il Nostro torna sulle scene con Tranceformer (2017), pubblicato in cassetta dalla Vulpiano Records e impreziosito dalla collaborazione di Attilio Novellino, artefice del mastering.
Il disco, un vero e proprio “rituale di trance”, “registrato in un flusso unitario di sei sessioni in presa diretta, con Loopstation, strumenti indiani ad arco (dilruba ed esraj) processati con delay/riverberi, percussioni tribali, chitarre elettriche e sintetizzatori”, si ispira, oltre che ai Faust e ai Popol Vuh, anche alla drone music di Tony Conrad e Angus Maclise.

tranceformer_falboAbbandonato, dunque, il folk ancestrale di Canti Silvani, per concentrarsi su un affascinante mix di musica cosmica e ambient-tribale, Tranceformer si apre con l’epica cavalcata di “Dei divini”, capace di riportare alla memoria le partiture più metronomiche di Klaus Schulze, un nome che è possibile spendere anche per le evoluzioni più rilassate, ma comunque attraversate da una nitida tensione metafisica, di “Trance-Forme”. In “Prakriti”, le percussioni in ostinato fanno da sfondo a un panorama cangiante, con voce sciamanica in penombra e le solite scintille di India. Ancora percussioni, ma stavolta in lento andamento ritualistico, circoscrivono il raggio d’azione di “Psychostasis”, in cui la voce filtrata assume toni sinistri. E se l’influsso della musica indiana è ancora più evidente nel ripescaggio di “Del remoto”, “Tejas” completa il cerchio mediando, in tono minore, tra ritualismo ed elettronica.

Ciò che più mi affascina e inquieta nella musica non è tanto la sua dimensione estetica, ma la sua dimensione 'estatica'. Ci tengo a precisare che 'Tranceformer' non è il risultato di un sincretismo musicale, che riunisce esteriormente più generi, per apparire interessante e fruibile, ma nasce dall’idea di una sintesi che vive nell’interiorità della mia ricerca musicale ed esistenziale. Non si tratta di ri-proporre musiche tradizionali in chiave moderna. Il mio intento musicale non è la sterile contaminazione per un’esibizione fine a se stessa, ma il ritorno all’Origine per un suono originario e originale.

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L'esperienza di Tranceformer coincise con il periodo in cui Enrico cominciò seriamente a studiare la musica indiana e alcuni dei suoi strumenti più importanti.

Ho scoperto gli strumenti indiani in un periodo in cui ero alla ricerca di strumenti acustici con una riverberazione e risonanza “non elettrificata” e più immediata, facilmente trasportabili per suonare all’aria aperta e viaggiare con l’anima nei luoghi evocativi del mio territorio (una radura, ai piedi di un albero secolare, in mezzo ai boschi, di notte in montagna vicino al fuoco, vicino a un piccolo torrente, o in un borgo fantasma disabitato, in prossimità di un antico ponte, sulla riva di un fiume ecc.). Sapevo, attraverso lo studio della viola, che gli antichi strumenti rinascimentali e del barocco erano dotati di corde di risonanza “simpatetiche” (come ad esempio l’Arciliuto, la Viola d’Amore nel XVII secolo), ma ignoravo quasi l’esistenza degli strumenti indiani ad arco. Le corde simpatetiche vibrano per 'simpatia' (cioè senza essere toccate) quando vengono suonate perché vengono accordate sul 'modo' fondamentale della melodia; ma penso sia anche molto interessante e davvero unico l’effetto dei battimenti o effetti chorus naturali, dovuti alla mai perfetta accordatura delle corde. Un giorno, mentre ero impegnato nelle mie ricerche su Youtube, mi apparve quasi di sfuggita un video raro di Ustad Sabri Khan di un paio di minuti circa, in cui il grande musicista suona un Jod Alap del raga Darbari con uno strumento ad arco straordinario, il Sarangi ('Saranghi', che tradotto significherebbe 'centinaia di suoni' e, in effetti, ha oltre 30 corde di risonanza!) e rimasi sconvolto dalla sua capacità puramente acustica di generare bordoni, profondità, riveberazioni e risonanze uniche e remote, misteriose. Non so, forse il semplice ascolto di quella melodia è stato come un incantesimo, o forse una specie di iniziazione! Poi scoprii l’esraj di Ranadhir Roy e da lì è partito un bel viaggio nei suoni e nei droni dell’India e nei raga che continua tuttora. Importanti sono state anche alcune letture, tra cui i libri “Musica ed estasi” di Jean During, “Musica e trance” di Gilbert Rouget, “La musica primitiva” di Marius Schneider e “La danza di Shiva” di Ananda K. Coomaraswamy.

Dopo l’ennesimo lungo periodo di pausa, comunque riempito dalla solita, inesausta ricerca sonora, Enrico torna a farsi sentire nel 2020 con il sofferto raga di "Planktón", mentre due anni dopo è la volta della desolata nenia indianeggiante di "Arunachala" (per sitar e tablas), ancora edita dalla Vulpiano Records e dedicata alla montagna di Shiva e a Sri Ramana Maharshi, metafisico dell'Advaita Vedānta.
Nel frattempo, dopo essere stato raggiunto da un’ispirazione fulminea, gli si spalancano le porte di un evocativo cosmic-folk, le cui tracce egli segue fino alle porte del suo terzo disco.

Un bel giorno mi venne da scrivere il testo del brano 'Aure', come sotto dettatura. Non scrivevo canzoni dal periodo dei Lamia, e così sono ritornato un po’ alle mie radici sonore. Rispetto a 'Canti Silvani' e a 'Tranceformer', 'De-Stare' è cantato in italiano, con testi che considero 'tracce', cenni e nessi del mio percorso ‘filosofico-metafisico’. Alla fine, ho fatto ascoltare i brani a Dylan Iuliano, un giovane compositore sannita di musica elettro-acustica, visionario e di grande talento. 'De-Stare', infatti, è uscito sulla sua etichetta Bulbless Records, che ha pubblicato 'Lick The Witch', una compilation che raccoglie ben 30 anni di musica elettronica sannita, musica che ha ‘scavalcato i confini’.

Il titolo De-Stare rispecchia, inoltre, la sua più recente infatuazione per il pensiero di Emanuele Severino, approfondito sulla scorta dei suoi studi di filosofia teoretica all'Università di Salerno.

Certo, il linguaggio di Severino è molto suggestivo, alquanto difficile, molto rigoroso, ma poco compreso e conseguentemente frainteso, secondo me, anche da eminenti filosofi e scienziati. ‘De-Stare’, in latino, è intensivo-iterativo del verbo ‘stare’ e indica lo ‘stare autenticamente’ della Verità, ‘dell’eternità di ogni ente’. La verità intesa come Destino, secondo il Nostro, non è la verità epistemica, come intesa dalla filosofia del passato e dalla scienza moderna (‘epi-steme’ = lo ‘stare sopra’ iperuranico delle ‘leggi immutabili’, che dominano la realtà del divenire), ma è lo ‘stare nel cuore delle cose’, di ogni evento, di tutti gli enti, anche nel cuore di chi rifiuta la Verità. Il Destino, in questo senso, esprime un significato inaudito per la civiltà occidentale (e non solo!)

destare_falbo_01È proprio “Aure” ad aprire De-Stare, disco ancora una volta prezioso e dominato dalla volontà di dire in musica la “Risonanza del Remoto”, “che è tutt’altro” - ci tiene a precisare l'autore – “rispetto al non-ascolto consumistico, conformistico, frivolo, generico, standardizzato, che sembra diffondersi con sempre più prepotenza, violenza ed efficienza ormai in tutto il mondo contemporaneo”. Col suo magnetico ritualismo cosmico, “Aure” traccia le linee guida lungo cui si muovono tutti gli altri brani del disco, a cominciare dalla commovente “Sentiero del giorno”, titolo parmenideo che prelude a sciamaniche malìe.
Tra richiami all’Alan Sorrenti di “Aria”, al Battiato più kraut e “misteriosofico” di “Sulle corde di Aries”, ma anche al Giovanni Lindo Ferretti più mistico, questi solchi continuano a scorrere tra le rifrazioni abissali di "Dimore" e “Non ci perderemo mai” (quest'ultima tuttavia supportata da un impianto più rockeggiante), passando in rassegna “Evocazioni dall’oscura età” e solenni marce verso la Rivelazione (“Giubilo divino”), che la conclusiva title track trasforma in deriva cosmica.
Quando, invece, è l’elettronica a prendere il sopravvento, ecco saltare fuori la pulsante e spettrale “Aion” (nata dalla collaborazione con il conterraneo Forever Alien aka Johnny Jay) e la tarantella androide di “Vāmana”, dedicata ad Aldo Colucciello, antropologo e studioso di cultura indiana, e probabilmente ispirata al raga “Malkauns”, uno dei più antichi della musica classica indiana.
Il disco è impreziosito dalle collaborazioni sparse di Alessandro Paolo Lombardo (tammorra, tamburelli), Michele Intorcia (basso e didgeridoo), il già citato Forever Alien (voce, synth), Francesca Fallarino (cori) e della coppia Edith/Eleni ai cori.

Il Destino degli Eterni
ci illumina il silenzio.
In questi spazi cosmici,
tra Gerarchie Celesti
smembriamo i nostri Corpi,
nell'Unità Infinita
nessuna cosa muore...
nessuna cosa muore...
("Aure")

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Da qualche mese Enrico Falbo ha cominciato a registrare nuovi brani, che sta raccogliendo sotto il titolo “Paranatellonta” (dal greco “che sorge insieme”), “una parola utilizzata nell’astrologia antica in riferimento al sorgere simultaneo degli astri, delle costellazioni zodiacali e para-zodiacali conosciute dai Sumeri, dai Babilonesi e dagli Accadi”. Non è ancora sicuro se queste tracce confluiranno in un nuovo disco, ma intanto le cose si muovono, tanto che anche il suo studio relativo agli strumenti indiani prosegue senza sosta:

Al momento, sto ‘familiarizzando’ con un nuovo strumento indiano ad arco, di dimensioni simili al sitar, progettato dal guru Shri Ranadhirr Roy a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta a Shantinekatan, Ashram (poi Università internazionale) fondata dal grande filosofo, poeta e musicista indiano Rabindranath Tagore. Si tratta di un’evoluzione dell’esraj classico, strumento del XVII secolo della musica indostana. Fu proprio Tagore a salvare questo straordinario strumento dall’estinzione: in India, nel Novecento, quasi nessuno lo suonava!
Il mio nuovo esraj ha una gamma di frequenze e di risonanza più vasta rispetto anche al dilruba (strumento che ho utilizzato nei mei album 'Tranceformer' e 'De-Stare'), grazie a una cassa di maggiori dimensioni e con alcuni fori e un secondo “tumba” (un risuonatore aperto) dietro la paletta. Lo strumento ha in tutto 21 corde: 15 corde simpatetiche, 3 di bordone e 3 per la melodia. Questo strumento aprirà ulteriori 'portali sonori', inoltrando con un maggiore entusiasmo il mio percorso artistico e musicale verso 'l’oblio del suono’ (volendo richiamare il titolo di un bellissimo libro sulla drone music di Harry Sword), per recuperare melodie, suoni e visioni, né orientali e né occidentali, ma più originari e remoti. Insomma, quello che mi interessa non è una mera fusion!

Non resta, insomma, che aspettare e tenere le orecchie deste!

Enrico Falbo

Discografia

Canti Silvani(autoprodotto, 2010)

Muse (Ep autoprodotto, 2013)
Tranceformer(Vulpiano Records, 2017)

De-Stare(Bulbless! Records, 2023)

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