
Ora che l'estate è definitivamente passata, questo report alzerà più che mai, seppur involontariamente, i toni della nostalgia. Se poi si parla di qualcosa che chi ama l'estate e la musica sa di non doversi mai perdere, vale a dire i festival musicali, ecco che l'effetto aumenta. Se poi si arriva direttamente in planata sullo Sziget Festival, vale a dire quello che da anni è il festival estivo per antonomasia, si rischia di non uscirne più. Chiedere a chi è già stato almeno una volta in vita sua in Ungheria, o meglio a Budapest, o meglio nell'isola in mezzo al fiume Danubio, quella precisa settimana d'agosto in cui l'imponente spazio a disposizione degli organizzatori viene letteralmente dato in pasto a palchi musicali, bancarelle, stand gastronomici e non, installazioni pubblicitarie, bottiglie di birra, performance teatrali, tendoni per dj-set, bagni chimici e, ovviamente, una quantità impressionante di visitatori provenienti da qualsiasi parte d'Europa e pronti ad accamparsi a miriadi con tende e sacchi a pelo in questa pseudo-Woodstock aggiornata ai tempi del libero consumismo.
I fattori che rendono lo Sziget il festival estivo più famoso e rinomato del nostro continente, però, non risiedono solo nella quantità, ma anche nella qualità: quella organizzativa, ovviamente, ormai rodata da quasi quindici anni e in grado di contenere perfettamente l'orda di pubblico (al 90% giovane e, diciamo così, vivace) senza lasciare che faccia sfaceli, e soprattutto quella contenutistica.
Che si tratti di fattori prettamente musicali (con qualcosa come 25 artisti sul Main Stage, e quasi il doppio sparsi in quelli "minori") o non (quest'anno per esempio l'esibizione giornaliera della Fura Dels Baus in uno spettacolo di danza e teatro ai limiti del capolavoro), la principale caratteristica dello Sziget è quella di non lasciarti un attimo di tregua: dalle 3 del pomeriggio alle 6 di mattina (e anche oltre), un flusso continuo e ininterrotto di musica dei più svariati e inimmaginabili tipi da un capo all'altro dell'isola, un'esperienza alla fine quasi estenuante, ma proprio per questo godibilissima.
Quest'anno, poi, la proposta del cartellone, da sempre spostato più sul mainstream facile rispetto ad altri festival tipo Pukkelpop, è sembrata decisamente valida rispetto ad altre fiacche annate, seppur un po' troppo british-oriented (ben 14 band inglesi sul Main Stage, per dire).
Si inizia mercoledì 12 col synth-pop degli IamX, per poi passare subito ai francesi Nouvelle Vague (voto: 7) che, grazie anche all'avvenenza innegabile delle due cantanti, ammaliano e divertono il pubblico con la loro riproposizione in chiave acustica e bossanova di pezzi storici della new wave anni 80 come "Bela Lugosi's Dead", "Dance With Me", "Master And Servant".
Ma giusto il tempo di cambiare gli strumenti e il primo giorno dello Sziget si fa subito bello sudato con gli Ska-p (6,5) e la loro collaudata combinazione di ska-punk e propaganda antifascista. Il sestetto spagnolo non si nega niente, nemmeno l'ennesima esecuzione di classici da pogo incondizionato come "Cannabis" e "El Mestizaje" e l'ennesimo simpatico teatrino fatto di travestimenti satirici e (persino) braghe calate.
Snobbiamo i successivi Snow Patrol sul Main Stage e ci rechiamo invece al World Stage, più orientato su sonorità etniche e folk, dove difatti suonano i bravi Oi Va Voi (7,5): londinesi di nascita ma est-europei d'adozione, vista l'efficace miscela di rock, testi yiddish, folk balcanico e influenze klezmer, Lemez Lovas e compagni spingono sul pedale del coinvolgimento emozionale, grazie anche ai mirabili assolo della violoncellista Anna Phoebe e alla bella voce della cantante di colore Bridgette Amofah (che nella finale "Refugee", canzone manifesto, ci porta fino al coro da stadio).
Salgono poi sul palco i Calexico (7) con il loro country/tex-mex, mentre su quello principale è il turno di Lily Allen (7), una che non vedresti mai a chiudere la giornata iniziale di un festival come lo Sziget e che invece si rivela gradita sorpresa, a dispetto degli oltranzisti del rock "puro". Il suo show, tutto basato sugli ammiccamenti sbruffoncelli ma anche autoironici della cantante-mignon, sui suoi finti atteggiamenti da diva e su un nude-look per niente casuale, risulta tutt'altro che indigesto, anche perché sostenuto da pop-hit non male come "Smile", "Fuck You", "Not Fair", carine dal vivo come su album, e da una inaspettata versione disco della spearsiana "Womanizer", che finisce per far ballare anche i più riluttanti.
Giovedì 13, scartati a priori i Toten Hosen e i Ting Tings, arriviamo in tempo invece per i Bloc Party (7+): la band di Kele Okereke, in giro per l'Europa dopo l'uscita l'anno scorso di "Intimacy", si conferma più che dignitosa nell'ambito live, sempre energetica e coinvolgente (grazie alla simpatia di Okereke), e mai banale, sia nel riarrangiamento degli ultimi pezzi (come "Ares" e "Mercury", che superano il banco di prova dell'esecuzione dal vivo), sia nel variare sempre comunque la scaletta, anche se mai a discapito dei loro migliori brani come "Helicopter", "Banquet" o "Positive Tension", che fanno la gioia dei fan come dei semplici estimatori.
E' già sera ed è già il momento di uno dei nomi "caldi" di questo Sziget 2009, ovvero quello di Fatboy Slim (6,5). Il celeberrimo dj è atteso un po' da tutti, poiché - si sa - le platee immense a cielo aperto sono da innumerevoli estati il suo piatto forte, e non aspettano altro che ballare al ritmo dei suoi micidiali singoli anni 90. E quindi, sotto il punto di vista dello spettacolo offerto, niente da dire: una immancabile folla oceanica, la più grande vista al festival, che si scatena e si dimena mentre dalla postazione dj enormi schermi colorati inondano di colori e immagini chiunque. Però bisogna essere obiettivi, bisogna anche considerare il dj-set in sé e per sé, e allora forse viene da pensare che qualcosina in più, il buon Fatboy, poteva farlo. Dopo dieci anni non bastano più solo "Right Here Right Now", "Rockafeller Shank" o "Star69" per fare lo show, ci vuole anche tutta l'esperienza del dj per trovare i pezzi giusti da mixare, ed ecco che allora puntare su una facilissima "7 Nation Army" o persino sul famoso refrain di "Bornslippy" assomiglia al classico compitino portato a casa e poco più.
Per fortuna, il bello della giornata (o serata, ormai) deve ancora venire. Prima ci pensa Tricky (7,5), il re del trip-hop, che nel padiglione A38 (dedicato a band o artisti più di nicchia, e quindi più godibili) si conferma sempre in formissima e confeziona un live da applausi, alternando dubbing campionati a potenti sonorità rock e creando una strana atmofera di "calma apparente", quasi mistica, in cui il rapper di Bristol, dreadlocks al vento e posa da Messia tarantolato, aspetta solo il momento giusto per potersi gettare tra le braccia del pubblico adorante.
Poi è il momento della svolta club con Armin Van Buuren (8), dj olandese in scena alla Burn Party Arena, e protagonista di uno dei migliori dj-set della rassegna. Se Fatboy Slim aveva in parte deluso perché un po' scontato, Van Buuren, noto più che altro in ambito trance, sorprende tutti quanti con una selezione assolutamente trasversale, spaziando dalla house facile alla elettronica più spinta e portando letteralmente al delirio il numeroso pubblico compresso nel padiglione. A coadiuvare è anche e soprattutto lo scenario del luogo sopracitato, infarcito di luci laser e spot lampeggianti, che rendono l'atmosfera quasi un luna-park per gli amanti dei club.
Venerdì 14 per amor di patria torniamo al World Stage per i Figli di madre ignota (6,5), unico gruppo italiano a suonare allo Sziget, e i ragazzi pur non inventando nulla (ska e ritmi balcanici alla Gogol Bordello) comunque risultano assai simpatici.
La giornata però è dominata dalla scena rave, e da due "mostri sacri" del genere come Primal Scream (7,5) e Prodigy (8-). I primi, capitanati da un Bobby Gillespie ancora agile e pimpante come un ragazzino - senza dimenticare presenza scenica e voce - non sembrano affatto risentire degli anni passati, tanto più che la loro musica (una sapientissima miscela di rock, pop, acid e dance) suona ancora oggi assai moderna e innovativa: risentire pezzi come "Swastika Eyes", "Movin'on Up", "Shoot Speed Kill Light", per altro rifatti in maniera impeccabile e con intatta tutta la carica adrenalinica del loro esordio, fa pensare a quanto debbano a Innes e soci insipide band attuali alla Kasabian (tanto per fare un nome).
Detto questo, ci dedicheremmo subito agli headliner della serata, se non fosse che in mezzo ci sono i Pendulum (4), senza ombra dubbio il peggior gruppo sentito in questa cinque giorni. Un guazzabuglio imbarazzante di basi drum'n bass, chitarroni pesanti stile metal, tastiere effettate alla Prodigy (appunto) e addirittura due cantanti, uno dei quali sembra uscire dalla versione emo dei Linkin' Park, sono davvero troppo. Ovviamente un mix così tamarro non può che mandare in visibilio il pubblico est-europeo del festival, che difatti balla di continuo per un'ora e mezzo.
Poi ci sono i Prodigy, dicevamo: uno dei concerti più attesi, se non altro per verificare le condizioni di salute della band che da qualche anno sembrava aver perso lo smalto e la furia del passato. Impressioni sbagliate: basta la presenza dei famosi frontman Keit Flint e Maxim Reality (che da soli catalizzano un'aura tanto magnetica quanto inquietante), e i primi secondi infuocati di "Breathe", "Firestarter" o "Smatch My Bitch Up", per fare impazzire la folla e far piombare tutti quanti in un gigantesco quanto caotico rave a cielo aperto. L'apparato live, con tanto di batteria e chitarre, funziona estremamente bene anche con gli ultimi (per niente male) singoli, come "Omen" e "Invaders Must Die"; l'unico appunto è da fare casomai a chi, magari un po' troppo esaltato, scambia il concerto per uno scontro fisico tutti contro tutti.
Doloranti, ma soddisfatti, chiudiamo la serata nello stage A38 con i Muchachito, eccentrico gruppo spagnolo direttamente composto da ex-artisti di strada.
Sabato 15 è all'insegna della terra d'Albione, con un Main Stage tutto inglese. Aprono i Subways (5,5) e la loro carica rock abbastanza stereotipata, poi arrivano gli Editors (7+). In attesa imminente dell'uscita dell'ultimo lavoro, la band propone alcuni nuovi pezzi, con un sound decisamente più orientato verso l'ambito dark-wave elettronico dove a farla da padrone non sono più le chitarre ma i sintetizzatori. La sfida funziona: ci sono sì i riff accalappianti di "Smokers Outside The Hospital Doors" o "The Racing Rats", ma c'è anche spazio per le atmosfere stile Ultravox del singolo "Papillon".
Sarebbe ora la volta dei Klaxons (6), ma nel programma abbiamo scovato al World Stage una ghiotta quanto sottovalutata esibizione: quella degli americani Woven Hand con i Muzsikas (8), gruppo folkloristico ungherese. A dirla così, avendo presente la truce stazza del frontman Eugene Edwards e la carica tetra e oscura del suo post-folk, l'accostamento con la musica tradizionale di Budapest e dintorni, fatta di allegri violini, tamburi, flauti e così via, sembrerebbe una barzelletta. E invece suona come uno degli eventi più riusciti di questa edizione, nato uno po' per caso un po' per gioco dopo una esibizione in Olanda nel 2008. Le due band si dividono la scena ma finiscono col suonare assieme in una jam sorprendente, alternando danze e sviolinate a code psichedeliche e rochi vocalizzi, e regalando agli astanti momenti davvero da brividi.
Così come qualche brivido, a chi ama anche solo un po' il brit-pop, non possono non aver dato i Manic Street Preachers (7,5), storica band gallese ormai sulla scena da quasi vent'anni. Se non altro perché ormai assistere a un loro concerto equivale a vedersi una sorta di greatest hits del loro repertorio, dove non sono solo le ultime canzoni da "Journal For Plague Lovers" a riempire la setlist ma anche perfetti e storici inni pop come "Motorcycle Emptiness", "Faster", "Everything Must Go", fino alla celeberrima "If You Tolerate This Your Children Will Be Next", da cantare possibilmente in coro a mani alzate. Ancora una volta, in termini di paragone, i vecchi si mangiano i nuovi, verrebbe da dire.
Chi si mangia le mani è il sottoscritto, invece, perché per un insano errore di valutazione (e di orari sovrapposti) preferisce i Placebo (5) ai Notwist, entrambi di scena come headliner ma su due palchi diversi. Sì perché l'esibizione di Brian Molko & C., forse a causa di un malore avuto proprio dal cantante a Tokio qualche data prima di questa, è abbastanza deludente: moscia, piatta, senza un minimo di coinvolgimento e di interazione con un pubblico di fan che pure è bello folto e nutrito. Senza considerare, poi, che tutta la prima ora del concerto è dedicata quasi interamente all'ultimo "Battle For The Sun", tanto da sacrificare pezzi sicuramente migliori di quelli lì contenuti (tra i quali comunque la title track e "Ashtray Heart" non suonano male), e anche quando poi altri loro classici vengono eseguiti ("Every You, Every Me", "Special K"), la sensazione è che sia per puro dovere.
Domenica 16, ultimo giorno.
Si vuole chiudere col botto ed ecco che sul palco arrivano i Maximo Park (7+), trascinanti e carichi come la prestazione del cantante Tom Smith. Un set bello tirato, goduto, sudato, dove non mancano brani dall'ultimo "Quicken The Heart", ma neanche dai due precedenti ("Apply Some Pressure", "Girls Who Play Guitars", "Our Velocity"), oltre che graditi ripescaggi (la bellissima "Acrobat"). Niente a che vedere con le leccate pose di altre indie-band simili, per fortuna.
L'intuito stavolta non fallisce, e piuttosto che sciropparsi gli stagionati Offspring sul Main Stage torniamo alla A38 Arena, dove va di scena una chicca esclusivamente a uso e consumo di chi apprezza e ama i Joy Division: gli Isolated (8), cover band ungherese dal nome più che esplicito. Chi si immagina di trovare sul palco quattro ragazzini che scimmiottano in look, pose o atteggiamenti Curtis e gli altri (ormai un must) resta se non scioccato quantomeno sorpreso: a formare il gruppo sono distinti signori di mezza età, tra cui un canuto e capelluto cantante, i quali senza alcuna pretesa di rifare la "forma" dei JD puntano dritto alla "sostanza", ovvero a riprodurre nella maniera più fedele possibile il suono alienante, gelido e magnifico dei quattro di Manchester. E se per farlo c'è persino un percussionista (!) a suonare pentole e lastre d'alluminio (!) simulando la batteria elettronica di "She's Lost Control" e "Isolation", o se gli effetti in background di "Atrocity Exhibition" vengono affidati alla pedaliera di una chitarra, beh, ben venga, eccome. Tanto più se il timbro vocale del cantante, banco di prova assoluto per qualsiasi wannabe new-waver, è assolutamente paragonabile a quello di Ian Curtis e manda tutti i fan in brodo di giuggiole. Astenersi imparziali.
Gli ultimi headliner di questa edizione 2009 dello Sziget sono i redivivi Faith No More (7,5). Ora, che piaccia o no il loro ambito musicale, che spazia senza troppi complimenti dal crossover più pesante al funky alle tenere ballate melodiche, quello che c'è da dire è che Mike Patton, ovvero il frontman/cantante/anima dei FNM, è certamente una bestia da palco, e fa praticamente testo da solo. In ordine di tempo: si presenta in tenuta rosso fiammante, scende in mezzo al pubblico per trovare qualcuno disposto a tradurre in ungherese un pezzo della sua canzone, ingoia il laccio di una scarpa lanciata sul palco, si infila in testa un perizoma che aveva fatto la stessa fine, si fa trascinare a spalla dai bodyguard tra la folla, saluta in italiano. Non è più un concerto, è una performance solista. E poi la cover di "Easy" e la chiusura con "Diggin' The Grave", per accontentare i tanti sostenitori della reunion.
Ma non è finita qui: dulcis in fundo, arriva fuori tempo massimo un'altra esibizione da bocca aperta. Si tratta di Squarepusher (8) e della sua drum'n bass accelerata e schizoide: live fenomenale proprio perché riproporre dal vivo, con un vero batterista e senza l'ausilio massiccio dei campionamenti, tutta la sequela di cambi di tempo, slappate, melodie frenetiche e sovrapposte che caratterizzano la sua musica è davvero da gente fuori di testa. Così, mentre lo stesso Squarepusher si districa tra laptop, sequencer e giri di basso e il suo batterista fa il diavolo a quattro per suonare flippatissimi downtempo, a noi non resta che restare in estastico ascolto a bocca aperta; e quando poi il dj-set (a dir la verità anonimo) di Paul Oakenfold (6) chiude ufficialmente la rassegna, pensiamo che sì, è stata una scorpacciata di musica di quelle da rimanerci secco per indigestione, ma almeno il retrogusto dolce ci rimarrà in bocca per un bel po' di tempo a venire. In attesa del prossimo anno, sia chiaro.