Quando possiedi dei codici espressivi sorprendenti, dirompenti, addirittura sovversivi e non riesci a controllarne la portata, che si abbatte sul prossimo, e su di te depositario, come una colata di lava senza freni e senza vie di fuga, il rammarico può assumere dei contorni da non sottovalutare.
Nick Cave, un bel giorno, di fronte al solito specchio che non mente mai, deve aver trovato le definitive risposte a continui sospetti che ostacolavano le sue giornate votate a una rabbia spesso pirotecnica. Nick Cave è un manuale ambulante di rigori, di regole, di intransigenza, di serietà assortite che si manifestano sin dalle vesti, elegantemente scure con spiragli candidi, dai capelli, ironicamente nerissimi, solo memori dell’antico disordine, che però non è mai stato tale. Nick Cave va in scena e si concede, ma aspetta che sia il pubblico e darsi completamente, lui lo guida, lo istruisce, insegna, dirige, tocca mani, polsi, spalle, persino visi, per constatare se siano adatti, per capire se siano pronti, per prepararli alla battaglia serale.
Nick Cave è l’ultimo anello di una stirpe di performer carismatici, passionali, ma è come se non volesse perdere tempo con le pose promesse all’adulazione, alla vanità, all’autoindulgenza. E quindi un suo show parte quieto, con propositi quasi letargici, e liturgici, poi cresce come una piccola sinfonia fatta di piccole scosse, di sussurri e poi di sussulti, finché non arrivano delle sonore pedate sul didietro, ma sempre estremamente mirate, controllate, ragionate. Eppure i rigori del giovane vecchio Nick non prendono mai le sembianze della freddezza, del calcolo, anche quando la matematica è lì sorniona che fa l’occhiolino. E la cosa assume dei contorni ancora più sorprendenti in un periodo, come quello attuale, in cui nell’ambito dello spettacolo, dell’intrattenimento, tutto appare preparato al millimetro, appoggiato su tavolino perfettamente rettangolare, privo di sbavature, di imprecisioni, di angoli arrotondati. Nulla sembra possa essere lasciato al caso, alla fantasia del momento, come se i colpi di fulmine fossero stati banditi, e non per eccessiva timidezza. Ma intanto ci speri, e magari ti ritrovi a canticchiare un brano che ritieni non possa essere lasciato da parte. Ma invece lo sai, quella sequenza di note non farà parte della scaletta, anche Nick Cave mantiene stabile la scansione delle rime. Eppure non è mai statica.
Si spengono le luci e quando si riaccendono ti trovi di fronte esattamente quello che avevi immaginato: un palco dallo sfondo blu, una band composta da musici in giacca, sobri, composti ed eleganti, e lui che entra, saluta, e dà inizio alle danze. Ed è un ballo che parte lento, quasi attendista, e il pubblico pare esitante anch’esso, come se avesse un groppo in gola, dubbioso, indeciso se lanciarsi nel solito rituale fatto di urla, sospiri e movimenti di bacino. Come chiedersi: sarà appropriato trasformarsi anche stasera in rocker? No dai, non è più il caso.
Le nubi che si addensano e si diradano felpate con “Anthrocene”, il cantato come un soliloquio di desinenze calcate di “Jesus Alone”, invocazioni sfruttate per studiare gli occhi che ti scrutano, canzoni che hanno perso le sembianze classiche, che viaggiano dalle parti di Walker e dell’ultimo Sylvian. Ma poi i ritmi cominciano a prendere quota, la danza si ammanta di tribalismi, ancora discreti, "Higgs Boson Blues", l’ugola inasprisce le sue parabole, il panorama si ammala, come se fosse protagonista di pagine eastonellisiane, la polvere notturna si prende tutto, e d’un tratto siamo tutti parte di un coro che si alza e si abbassa, come coyote svegliati in maniera brusca.
Ed è allora che la camicia perfettamente stirata sembra strapparsi, ma non accade, è in quel momento che Warren Ellis si tramuta in una marionetta impazzita, che salta imbizzarrita brandendo un violino urlante, e Cave che dietro di lui sembra tirarne i fili, in un gioco di ombre buffo eppure frastornante e contemporaneamente allunga gli arti del pubblico adorante, affinché possa anch’esso contribuire alla rappresentazione e chiede spinte ulteriori, ritmi cardiaci accelerati. “From Her To Eternity” e sembra di sentirla ancora quella ragazza che si dimena nella stanza 29, percussioni come percosse, e allora fuggi, inseguito dall’uomo nero, sgommi senza speranza verso “Tupelo”, e ti pare di vedere i corvi che ti volano sulla testa. L’ansia che monta e che improvvisamente si smonta, un ponte che sa di speranza, di approdo, da “Jubilee Street” alla culla di “Ship Song”, all’abbraccio consolatorio e ricaricante di “Into My Arms”, come un pericolo scampato, all’interno di una multi sceneggiatura western-noir-romantica. Un passaggio perfettamente eseguito, forse l’apice suggestivo della serata. Che poi scivola di nuovo nella malinconia di “Skeleton Tree”, segnata però da due squarci nervosi: l’ironia sensuale di “Red Right Hand” e la furia da ultimo respiro di “The Mercy Seat”, meno incalzante dell’originale, ma sempre bramosa. E pare che la buona notte venga servita con tutti i crismi. Ma arriva “The Weeping Song” e si alzano al cielo i canti degli ubriachi con le lacrime colorate di vino rosso.
Ed è a quel punto che Nick Cave rompe gli ultimi indugi, e scende in mezzo alla folla. Ma lo fa senza spingere con cortesia, come se si stesse dirigendo al banco per un invito colossale. Calma e sangue freddo. E poi caldo. E poi stupore, ma anche battute e risate, come dire “è un gioco, ma facciamolo bene”. Siamo seri, ma non prendiamoci troppo sul serio”. Finisce in baraonda, attesa eppure sorprendente e ordinata: tutti sul palco, a dare man forte, senza barriere, lasciarsi andare, ma senza mai andare oltre la barriera del buongusto. “Push The Sky Away”, che si tramuta nel perfetto riassunto della serata, un sussurro che sale e che diventa progressivamente un canto corale, ora tenero, ora rabbioso. La ricetta del professor Cave, l’equilibrista delle emozioni forti ma dosate al punto giusto, il grande domatore dell’arte popolare.
The Weeping Song
Stagger Lee
Push The Sky Away