Anche quando si pensa di averlo finalmente inquadrato, l’ineffabile John Dwyer riesce a sorprendere e a regalare qualche dettaglio di sé che non gli si sospettava. Che potesse essere un valido mecenate e talent scout è scoperta relativamente recente. Al timone della sempre più convincente Castle Face, ha opzionato e promosso almeno un paio di compagini di alto profilo, l’ottimo synth-punk dei concittadini Pow!, nello scorso biennio, e il garage slabbratissimo dei Mountains and Rainbows, da Detroit, appena qualche mese fa. Ci sono voluti però ben diciannove album accreditati alla sua più fortunata creatura perché potessimo scoprire anche le sue virtù di filantropo, visto che la metà dei profitti del nuovo “An Odd Entrances” è stata destinata per sua iniziativa a un’associazione che si occupa di homeless a Pasadena.
A soli tre mesi da “A Weird Exits”, ecco dunque l’ennesimo capitolo di una saga discografica che non sembra conoscere rallentamenti o incertezze di sorta nella sua implacabile marcia, anche quando è di una semplice uscita minore che si parla, per esplicita ammissione dei suoi autori, un’estensione bella e buona del diretto predecessore o, se preferite, un breve “esercizio cosmico en plein air” (un po’ più lungo solo nell’edizione limitata cui è accluso il sette pollici dell’inedita, e non meno sfarfallante, “Classic Bananas”).
Che i due dischi vadano intesi come gemelli eterozigoti è cosa scontata. Le session sono le medesime, registrate da Chris Woodhouse nel suo Dock Studio di Sacramento, e così la squadra composta da Hellman, Rincon, Moutinho (che giusto qualche giorno fa ha annunciato la propria uscita per ragioni personali) e lo stesso Woodhouse, con Greer McGettrick dei Mallard che si presta al violoncello e una Brigid Dawson ridotta più che altro a fare la motivatrice (le note le accreditano cori, fornitura di the e sostegno spirituale).
Se a una copertina ancora disegnata dal lanciatissimo Robert Beatty aggiungiamo gli evidenti rimandi tra gli strambi titoli delle due raccolte, e tra quelli di alcuni episodi sull’una e sull’altra, a delineare simmetrie pure prive di una direzione certa (“Jammed Exit” chiude il cerchio inaugurato da “Jammed Entrance”, “Unwrap The Fiend, Pt. 1” dovrebbe essere a rigor di logica il prequel di “Unwrap The Fiend, Pt. 2”), il gioco dovrebbe essere ormai scoperto.
Con i Thee Oh Sees il clima sonoro tende sempre almeno un poco al minaccioso e al ribollente. La chitarra di Dwyer resta un formidabile faro nell’ombra, anche e soprattutto nelle digressioni tra prog, space e psych-rock di questo compendio-appendice. “You Will Find It Here” vede il capobanda recitare con evidente compiacimento nei panni dello stregone, i vocalismi sibillini ridotti a uno stringato cerimoniale di contorno, mentre il mantra elettrico si dipana inesorabilmente tra ritmiche ordinate ma incombenti e qualche amena comparsata dell’ormai irrinunciabile balocco dwyeriano, un organetto floreale che fa tanto primi Seventies.
“The Poem” dà sfogo al lindore e alla vena più barocca del gruppo, inevitabilmente sacrificata nella precedente uscita. Armonia, compostezza e polverosi languori psichedelici mostrano di non avere nulla da invidiare a interpreti oggi anche celebrati in quegli stessi territori, da Jacco Gardner a Balduin passando per Doug Tuttle, a riprova che i californiani riescono a essere credibili anche quando non indulgono nel puro terrorismo sonico o in un primitivismo rock allo stato brado. Le finalità ludiche dell’operazione trovano riscontri anche nella deliziosa evasione di “At The End, On The Stairs”, una raffinata variazione sul tema weird-infantile dello scapestrato “Castlemania”, di cui appare sorella sempre stramba ma assai più compunta.
Le cavalcate a marchio registrato riescono ancora toniche e muscolari ma per una volta appaiono rasserenate, senza la bava alla bocca di tante esibizioni dal vivo, pur non negandosi comunque il piacere di andare poco per volta alla deriva. Lo scenario è in genere lussureggiante ma sinistro come da repertorio della band, che in “Jammed Exit” si diletta in una ricognizione quantomai futile e rilassata, provando a dare corpo anche in una versione non elettronica alle ritornanti trame kraut già declinate con profitto nei due lavori a nome Damaged Bug. Un esercizio di stile curioso quanto marginale e, in fin dei conti, anche programmaticamente prescindibile.
Per incontrare un po’ di sudiciume fuzz occorre arrivare all’ultima e più allucinata jam, “Nervous Tech (Nah John)” – liberamente ispirata a “Go Ahead John” di Miles Davis – in cui le bizze della chitarra di John restano peraltro poche vampe inoffensive, contenute entro binari insolitamente disciplinati per i suoi standard. Si mimano il respiro e il cuore pulsante di una bestia che, evidentemente, ha scelto il riposo dopo le innumerevoli scorribande belluine del passato.
Che torneranno comunque molto presto al centro della scena, ne siamo certi.
23/12/2016