Mai dire “insostituibile”. Pochi forse avrebbero scommesso, dopo l’addio dei mastermind della scena londinese Tom Skinner e Shabaka Hutchings, sul nuovo episodio della saga Melt Yourself Down: difficile senza di loro immaginare per il neo-afrobeat della band vette di eclettismo paragonabili ai primi due deflagranti album. Ma tornata in capo ai soli padri fondatori Pete Wareham (ex-Polar Bear e Acoustic Ladyland) e Kushal Gaya (ex-Zun Zun Egui), la formazione si è rapidamente riassestata incorporando due figure d’eccezione: Adam Betts dei Three Trapped Tigers alla batteria, e al sassofono George Crowley (già con Ivo Neame e Yazz Ahmed). Una raffica di date live tra 2019 e inizio 2020 ed ecco pronto l’ensemble a sorprendere nuovamente fan e stampa di settore con un album ancora più polimorfo e incontenibile dei precedenti: “100% Yes”.
“Jazz” non è un termine adeguato per descrivere la formula dell’album — ammesso che di singola formula si possa discutere. Non lo sono però nemmeno le altre etichette, più o meno pertinenti, che potrebbero accostarsi alla musica contenuta. Afrobeat, sì, certo: ma con un simile piglio metropolitano? Post-punk? Dance-punk? Ognuno di questi termini cattura qualche aspetto del gorgo centrifugo che è lo stile delle tracce, ma manca l’aspetto centrale. Ovvero che il punto di forza del carrozzone Melt Yourself Down è la sua caleidoscopica e anarchica molteplicità: un’attitudine a fregarsene di canoni e staccionate di genere, considerando invece ogni pezzo come un nuovo scenario, da edificare da zero.
Ci potrebbe dunque figurare un’impresa barocca e improntata al taglia-e-cuci, ma si sbaglierebbe di grosso, perché l’altro cardine della band è l’incompromissorio approccio punk. Via i fronzoli, via le formule preconfezionate, via tutto: non è affastellando più stili riconoscibili che si ottiene qualcosa di così impetuoso; semmai frullandoli, sminuzzandoli, e utilizzando l’irriconoscibile graniglia ottenuta come nuovo, ruvido e grossolano, materiale costruttivo.
L’estetica è anomala: punta all’essenziale, ma ne ridefinisce i pilastri di volta in volta. I singulti sassofonistici di Wareham e Crowley sono antivirtuosistici e intrinsecamente limitati; eppure, filtrati e reinventati attraverso l’effettistica più disparata, acquistano in ogni brano funzioni strutturali diverse. Nell’iniziale “Boot And Spleen” il timbro è aspro, tagliente: il ruolo è quello di una chitarra, anzi due, a sostenere con riff serrati il passo febbrile del pezzo. In “It Is What It Is” il suono è sepolto dal passa-basso, che sega le alte frequenze e rende lo strumento più fangoso che mai, permettendogli però — distattivando l’effetto — di ergersi dalla melma alla bisogna, rischiarando le tonalità del brano. Altrove, ecco invece texture più pulite, perfette per uno staccato che puntella la ritmica elettronica (“Every Single Day”) o per il dipanarsi di una melodia atmosferica (“100% Yes”).
Crowley non fa rimpiangere Hutchings (che comunque ricompare come ospite in “Born In The Manor”), ma dove il cambio della guardia fa sentire maggiormente il suo aspetto è sul piano ritmico. Il tocco di Betts, fuoriclasse assoldato anche da Squarepusher per il suo progetto di “musica suonata” Shobaleader One, è più muscolare e sorprendente di quello di Skinner, e nonostante l’assenza di disparità metriche, l’intersezione coi suoni elettronici e le traiettorie world del percussionista Satin Singh permette di esplorare un ventaglio di possibilità virtualmente inesauribile.
Alcuni pezzi mostrano un piglio tutto sommato canonico: “Boot And Spleen” è aggressiva e incalzante alla maniera dei Bloc Party, “This Is The Squeeze” gioca efficacemente in terreno disco, “Crocodile” si molleggia da qualche parte in mezzo fra le due. Altrove, però, il camaleontismo ritmico di Betts spicca il volo: “Born In The Manor” è hip-hop decostruito alla luce di un decennio abbondante di diaspora post-dubstep, “From The Mouth” e i suoi sub-bass assassini partono grosso modo electroclash per poi impazzire in direzione pressoché drill’n’bass; “It Is What It Is” salta invece in continuazione dai Led Zeppelin a un imprendibile funk-punk.
Fin qui, la musica descritta pare quella di un onesto drappello di turnisti: gente che sa suonare, conosce a fondo i trucchi del mestiere, si mette al servizio del pezzo senza avvertire il bisogno di strafare. Innegabile che personaggi come Crowley e Betts, ma anche i navigatissimi Wareham e Singh, ben si adattino alla definizione. Eppure, “100% Yes” mostra una personalità dirompente, e questo accade grazie a due ulteriori fattori: il taglio metropolitiano e il paradossale “caos ordinatore” rappresentato dall’elemento elettronico.
Partiamo dal primo: con il suo approccio multi-genere e multi-etnico, l’album non solo è lo specchio della composizione della band, ma anche la trasposizione della realtà urbana e tecnologica da cui proviene. Anche senza avere la grinta politica di altre formazioni del giro (vedi Sons of Kemet), voci e testi esprimono tanto la policromia quanto le tensioni del contesto londinese, e di rimando delle società occidentali. “It Is What It Is” è un’incitazione alla rottura di giudizi e condizionamenti sociali; “Born In The Manor” si appropria della dizione caraibica in tutta la sezione di MCing; “Every Single Day” esplora contraddizioni e minacce dell’ormai totale compenetrazione tra mondo digitale e real life (“I thought I was buying, but in fact I was sold”).
Proprio “Every Single Day”, con le sue voci riecheggianti e il suo drum roll iperdozzinale in chiusura di bridge, è un buon campo per mettere in evidenza il secondo tratto unificante: l’onnipresenza di grossolani inserti elettronici, sgraziati e casinisti ma sorprendentemente in grado di dare ordine al guazzabuglio stilistico dei pezzi. Si tratta, prevalentemente, di vecchi trucchi presi a prestito dalla cassetta degli attrezzi dancehall: filtri in frequenza, riverberi, tastieracce sgargianti come neon, sub-bass e ritmi sintetici dal suono grezzo e ruspante. Un armamentario deliberatamente di bassa lega, che con efficacia costruisce da un lato un ponte con le estetiche rave e nu rave, dall’altro mette la musica in diretta connessione con quella che almeno nell’immaginario musicale è l’essenza stessa dell’anima underground londinese: i club, le radio pirata, lo spirito anarcoide della mixtape culture.
La sfida era impegnativa. Con un cambio di assetto importante, e i riflettori dell'hype già pronti a concentrarsi su altri progetti del panorama (Kokoroko, Nubiyan Twist, Black Flower, Ezra Collective, The Comet Is Coming, Nubya Garcia), i Melt Yourself Down riescono tuttavia ad ampliare e portare ancora più a fuoco il loro ventaglio espressivo, realizzando quello che è a oggi, oltre che una delle uscite più elettrizzanti dell'anno, il loro capolavoro.
14/10/2020