Revolution has come
but you won’t put down the gun
Fuori le bugie!
Inizia con una richiesta perentoria, il terzo album dei
Sault, il collettivo più misterioso dell'
underground londinese, già artefice nel 2019 di due episodi in grado di far drizzare le orecchie a tutti gli esegeti della
black music.
Annunciato dalla band all'improvviso su Instagram, il 12 giugno scorso, come “il nostro primo album che marca il punto in un momento storico in cui noi, in quanto popolo black (e di origine black), siamo chiamati a lottare per le nostre vite", il nuovo lavoro - un generico “Untitled (Black Is)”, a sottolinearne ancor di più l’urgenza - si è fatto notare subito per il gran numero di brani e una copertina in cui, da uno sfondo più nero del nero, emerge fiero il pugno della protesta.
Anche a questo giro, come già per gli ottimi predecessori, l’intero disco resta avvolto nell'anonimato e nel mistero (se si escludono il coinvolgimento del produttore Dean "Inflo" Josiah e le ospitate di Laurette Josiah e
Michael Kiwanuka) confermando un’attitudine ostinatamente in controtendenza in un’epoca di sovra-informazione e sovra-esposizione.
Al di là dell'urgenza di una riflessione e di una presa di coscienza collettive riguardo agli episodi di discriminazione razziale negli Usa come nel Regno Unito, stigmatizzati e analizzati a dovere, di recente, pure dal nuovo
Run The Jewels, anche nel caso dei Sault è impossibile ipotizzare che l'intera lavorazione si sia modellata così repentinamente sugli eventi legati alla morte di George Floyd. Più facile, invece, immaginare che il tema generale dei due dischi procedesse già originariamente in quella direzione e che l'evolversi dei fatti abbia accelerato a dismisura la loro pubblicazione, giusto in tempo per il Juneteenth, che il 19 giugno di ogni anno ricorda la fine della schiavitù in America.
Come sempre, nel caso dei Sault, ci troviamo di fronte a una favolosa maestria nel maneggiare il vasto repertorio di influenze e sonorità
black che hanno fatto di
"5" e
"7" due oscure gemme della scorsa annata discografica. Ma quello che emerge immediatamente da "Untitled (Black Is)" anche a un ascolto superficiale è un tasso di coesione perfino più elevato rispetto ai capitoli precedenti, ancora più intriso di una volontà terapeutica di lenire il travaglio emotivo di un'intera comunità, con il consueto beneplacito di forti dosi di
groove a far da collante energetico. Un lavoro compatto e dalla qualità media davvero elevata per una produttività d’altri tempi e figlia di un’ispirazione incontenibile, che si accompagna a una visione d’insieme chiarissima negli intenti e nella realizzazione.
Prendiamo gli interventi parlati, gli unici a offrire un apparato testuale più elaborato di semplici slogan di protesta: nelle brevi "Out The Lies", "X" e "Black Is" si sviluppa l’intero sostrato estetico/concettuale dell’album ("black is so warm and so pure/ and when everything else fails/ black endures"). Pare di ascoltare le trasmissioni della dj de "I Guerrieri della Notte": la si vede avvicinare le labbra al microfono, il volto che rimane un mistero mentre la sua voce persuasiva invita a prendere coscienza, ad alzarsi in piedi, a ribellarsi, a riprendersi la vita; le urla e gli strepiti degli altri brani ne sono una conseguenza del tutto naturale.
Basterebbe il trittico che s'incontra praticamente in apertura per qualificare "Untitled" come un’opera imperdibile: "Stop Dem", hard funk iper-focalizzato che ha il suono di un futuro che non puoi fermare; "Hard Life", vocalità maschili e femminili ugualmente oppiacee e stordite, giustapposte allo schiamazzare del groove di batteria (almeno fino a un’imprevista, solare svolta soul-pop); "Wildfires", che incarna il lato più pop di questo prisma sonoro scuro e scintillante senza mollare la presa sulle questioni che gli stanno a cuore ("white lives/ spreading lies/ you should be ashamed/ the bloodshed on your hands").
A questo impasto sonoro da
instant psychedelic funk ormai già peculiare si aggiungono poi gradite variazioni: le fragranze
eighties della tripletta "Us"-"Eternal Life"-"Only Synth In Church", ad esempio, non stonerebbero nei lavori di
Janelle Monae - e, conseguentemente, come
soundtrack alternativa di "
Us" di Jordan Peele. Soprattutto, però, emergono inattese influenze
afrobeat, come nel vorticoso
feat. di
Michael Kiwanuka ("Bow") o in "Don’t Shoot Guns Down", ancora più gradite nell’anno della scomparsa del leggendario drummer
Tony Allen e dell’esaltante "Dark Matter" di
Moses Boyd.
Una musica, quella dei Sault, che è puro
zeitgeist sin dal modo in cui è pensata: non solo per la capacità di trovare sempre il ritmo giusto per raccontare il
black trauma dei nostri tempi, ma proprio per un senso di discorso corale portato avanti dai singoli pezzi.
Non c’è solista, qui, è sempre una faccenda collettiva - "Hold Me" è praticamente un inedito di
"Baduizm" senza la voce di
Erykah Badu in primo piano, ma nascosta invece nel coro (che è un’idea che a un’irregolare come la Badu piacerebbe molto).
Il finale "Pray Up Stay Up", poi, è davvero
uplifting - fatichiamo a trovare una parola che esprima altrettanto bene il concetto nella nostra lingua. Riveste lo stesso ruolo motivazionale della "Stay Beautiful" di
Damon Locks, della "Sometimes I Wanna Dance" di
Lonnie Holley, del "we gon’ be alright" di
Kendrick Lamar: suoni e vite che non si vogliono far ingabbiare né definire dalle limitazioni imposte dal contesto sociopolitico. È ancora un’idea totalmente bianca, infatti, ridurre alle sole rabbia e sofferenza lo spettro emozionale di "milioni di persone stanche di vivere in una società dove ogni loro parola o gesto può farle ammazzare"*.
Non è casuale, allora, che i Sault scelgano di procedere nell'anonimato. Nascondere i volti, oltre a far risaltare la forza del collettivo, impedisce di distrarsi da un messaggio che in questo momento deve nuovamente riaffermare se stesso (incredibile averne ancora bisogno, nel Ventunesimo secolo) come una conquista dell'intera società, e non soltanto come espressione di un’esigenza artistica.
Sebbene scollegato dalla matrice sonora black imperante nell'ultimo decennio (la trap), e quindi distante da ogni forma di hype mediatico, questo terzo episodio Sault è paradossalmente quanto di più coeso e riassuntivo possa emergere dal vissuto di una comunità che meglio di ogni altra sa arrivare al cuore delle cose: "Untitled (Black Is)" è una dichiarazione d'amore e di guerra impossibile da ignorare.
*Citazione da “Whether the President Understands the Racist History of “Looting and Shooting” Is Beside the Point” (Dahlia Litwick, Slate, 29/05/2020)
30/06/2020