Dubito Miley Cyrus legga OndaRock, ma non ho comunque trattenuto il sorriso quando, qualche mese fa, l’unica nota descrittiva attorno a “Something Beautiful” era la sua confessata ispirazione a “The Wall” dei Pink Floyd. Poche cose arruffano le penne dei vecchi rocker quanto una femmina a tinte glamour che pesticcia attorno agli Intoccabili – et voilà: adornata in copertina da un Thierry Mugler ‘97, Miley rispunta sui nostri schermi come una Cher per l’era digitale, liquida e riciclabile con ogni uscita discografica grazie a una presenza malleabile ma ficcante.
Stavolta, l’album numero nove (!) ci riserva più di qualche sorpresa; metà dolente ballata soul, metà catodiche sferzate psichedeliche, la title track è entrata in contropiede per presentare un quadro più articolato e avvincente rispetto alla linearità pop di “Endless Summer Vacation”. E questo per tacere di “End Of The World”, un emotivo soft-rock dedicato alla madre con le lacrime agli occhi e il pugno aperto. Certo, in quanto a temi, “Something Beautiful” non si discosta troppo dal passato, presentandoci un’autrice sempre profondamente americana, ancora una volta romantica e disperata, ma la veste sonora cangia con inedita ricchezza elettro-acustica. Il resto delle immagini d’accompagnamento di questo visual album, in arrivo a fine mese, spiegherà la sequenza di una scaletta bizzarra.
La prima parte del lavoro, infatti, fa eco ai sopracitati singoli, dapprima con l’altra ballata “More To Lose”, abilmente striata da sax e cori, poi col muscoloso blues di “Easy Lover” e la morbida “Golden Burning Sun”, due brani che riprendono le fila di “Plastic Hearts” e “Younger Now” rispettivamente, ma con ritrovata maturità sotto un granuloso filo di poesia analogica. Ma se già lo scenografico “Prelude”, in apertura al disco, faceva intendere un magniloquente gusto orchestrale, sono i due “Interlude”, posizionati verso metà ascolto, a fornire la stridente qualità elettronica di un lavoro che non si vuol posare solo sugli allori.
È qui che incontriamo “Walk Of Fame”, una densa cavalcata sintetica con Brittany Howard ai cori, capace di richiamare contemporanemente sia “Smalltown Boy” dei Bronski Beat che il salmodiare techno degli Underworld, ma contro ogni aspettativa il risultato funziona. La sensazione di avvincente spaesamento si ripresenta con “Every Girl You’ve Ever Loved”, quasi un rauco synth-pop alla Lady Gaga, non fosse per la serafica top model Naomi Campbell che si cala nei panni di Mc da cerimonia vogue.
Lunare e lunatica, “Pretend That You’re God” annienta la carica ritmica con pressante amarezza lirica e corpulente frequenze elettriche, così, quando “Reborn” torna in pista sotto le spoglie di una satura dance orchestrale filtrata da richiami gregoriani, pare d'incontrare un numero dei Pet Shop Boys post-2000.
Pur mai rivoluzionario, né senza toccare le impalcature dei temuti Pink Floyd, “Something Beautiful” funziona in virtù di quel senso dell’avventura che ne pervade i solchi – e anche quando le trovate possono apparire alienanti rispetto ai soliti linguaggi pop, arriva in aiuto un’ormai innata esperienza d’interprete che non si fa mai trovare scoperta. Le barocche corde pizzicate di “Give Me Love” aiutano l’ascoltatore a riaprire gli occhi proprio all’ultimo, per osservare a cuore aperto un tramonto rosso d’amore – qui Miley si lascia andare senza rèmore, probabilmente già conscia di aver messo a punto un album in grado di trasportarla sempre più lontano dai suoi esordi televisivi.
È tutta popmuzik, è tutta finzione, una serie di scenografie e costumi sgargianti di contorno a un fisico asciutto da perfetta indossatrice e manipolatrice – sta di fatto che l’ascolto di questi cinquanta minuti di musica regala esattamente quanto promesso: qualcosa di bello.
01/06/2025