Certe vite scorrono l’una accanto all’altra, si contorcono e avviluppano con le stesse pieghe, o quasi. Eppure non si incontrano mai. C’è stato un punto in cui queste due erano a tanto così dall’intersezione: 1982, Berlino Ovest. Un cantautore di Melbourne ha provato a sfondare a Londra e ora cerca nella città tedesca una via nuova; nello stesso anno e nello stesso luogo, arriva in autostop un ex-operatore psichiatrico della provincia di Reggio Emilia e decide di fare il musicista, dopo aver vissuto quella Berlino. A tanto così: Giovanni Lindo Ferretti passa per il Risiko, club dove lavorava Blixa Bargeld, voce gotica al servizio di uno dei più grandi gruppi rock sperimentali tedeschi, gli Einstürzende Neubauten. L’anno dopo Blixa diventerà il chitarrista della nuova band di Nick Cave, i Bad Seeds, con cui l’australiano troverà la sua voce adulta. Al Risiko Ferretti e Cave arrivano a un solo grado di separazione.
Da quel primo incontro mancato i due hanno preso strade diverse, accidentate e irregolari. Le loro carriere si sono mosse nel solco della cesura insinuata dal post-punk nella musica pop. Il post-punk veniva a inquisire il rock‘n’roll classico mainstream, condannandolo come un ormai vuoto involucro di spettacolo fatto di paillettes, pantaloni di pelle e capelli cotonati senza più alcun contenuto di portata controculturale. Gente come Nick Cave e Giovanni Lindo Ferretti rinnega il prototipo del rocker e il suo cursus honorum: dalle hit radiofoniche a riempire stadi e dritti al successo planetario, e sì, qualche incidente di percorso con droghe e alcol, ma niente che superi il chiacchiericcio da tabloid; per finire come un re con moglie e bambini in una villa, donazioni di beneficenza e allenamenti in incognito al parco per reggere alla prossima reunion del gruppo. Non era questo che cercavano ragazzi come Cave e Ferretti. Ritrovano l’urgenza di scrivere senza divertissement, ma per mettere in poesia e suoni una visione del mondo, per quanto fosca, contorta e disperatamente non radio-friendly.
Questi propositi producevano artisti con vite e carriere che uscivano dai binari delle aspettative. Così Cave dopo l’inizio depravato con le cacofonie sgraziate dei Birthday Party, vestirà i panni del cantastorie, ma di storie tra il noir e il thriller, stracolme di dettagli disturbanti e grotteschi. Via via, quelle storie virano sempre più verso ballate dolenti che anelano alla redenzione e fanno eco a quelle scarne e pure di Leonard Cohen, fino a raggiungere la rarefazione mistica degli ultimi tre album con Warren Ellis e dell’ultimo “Wild God”, che sul finale pare prendere i toni della visione di Dio nel canto trentatreesimo del Paradiso.
Ferretti, invece, crea con Zamboni e soci un “punk filo-sovietico”, vestendo l’impianto ideologico di un bizzarro kitsch est-europeo – grazie ai volti scenografici di Danilo Fatur e Annarella Giudici – e poi di new wave tedesca, proto-punk americano e dark britannico. Ma senza risultare cloni provinciali di una band inglese o americana; piuttosto, una band italiana provinciale, come lo è scrivere “CCCP” così, come lo pronunciasse uno studente militante di Bologna. Provinciali e fieri di esserlo, ma allo stesso tempo tesi verso fuori, tanto da storpiare la canzonetta e il ballo liscio gettandolo in pasto al punk.
Dopo il 1992 continuano ma sotto la sigla di CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti), quasi a tenere traccia nel nome che il muro di Berlino è caduto. E come il clima socio-economico, anche i loro suoni si fanno più austeri. Diventano il faro della scena indie-rock italiana, ma poi, nel 1998, dopo un ultimo live registrato in una chiesa e dedicato a Beppe Fenoglio, si sciolgono. Se il gruppo programma fitti incontri e concerti, Ferretti invece cerca altre motivazioni, non più mondane, per fare musica. Negli anni 2000 Ferretti scrive litanie dal sapore religioso che canta col progetto dal nome programmatico: PGR (Per Grazia Ricevuta).
Le peripezie sono state le più varie ma la traiettoria è simile. Trasgressione, dolore, conversione, unione a Dio.
Arrivati alla vecchiaia – 66 anni Cave, 70 Ferretti – le loro vite sembrano di nuovo vicine come lo erano quella volta a Berlino nell’‘82. Ma oggi a chilometri di distanza: Nick Cave sul lungomare di Brighton, tra i moli e l’intonaco crepato degli hotel, sospesi come fantasmi nei banchi di nebbia che si alzano dall’acqua; Ferretti nel casale in pietra dove è nato, a Cerreto Alpi, 960 metri di altezza sull’appennino tosco-emiliano, con la sua stalla e i cavalli che addestra per portare qualche avventore a passeggiare in montagna. Fuori dal tempo, entrambi sono passati dalla furia della trasgressione al raccoglimento, alla fede. Entrambi sono arrivati a scrivere libri sulle loro esperienze di “conversione”: la lunga e intima conversazione di Nick Cave col giornalista Shean O’Hagan, “Fede, speranza e carneficina”; e quella confessione distesa (poi pronunciata con un filo di voce in letture pubbliche a Cerreto) che è “Óra: difendi, conserva, prega”. I due hanno attraversato la perdizione in gioventù per arrivare alla religione nella terza età. Ma a guardar bene la svolta cristiana era già implicita nelle loro premesse. Hanno sempre avuto gli occhi rivolti alla stessa cosa: l’Assoluto oltre il grigiore medio.
Mercy
Nick Cave è arrivato a parlare con Dio partendo dal ripudio più netto del regno dei cieli. Ai tempi dei Birthday Party, il gruppo con cui Cave ha iniziato, cantava di un Mutiny In Heaven. Inorridiva alla visione allucinata di ratti in Paradiso, e ripeteva come affetto da un tarantismo demoniaco: “If this is Heaven I’m bailin’ out!”. E lo stridore cacofonico delle corde di Rowland Howard squarciava ogni ponte con la beatitudine o l’eterno. L’inferno non era lo spauracchio di una condanna futura ma era già lì, sul palco. Lo mostra anche il documentario recente sulla band – intitolato, appunto, “Mutiny In Heaven”. In certe serate, Cave metteva in scena nient’altro che violenza, diretta tanto contro il mondo quanto contro se stesso, abbandonando ogni residuo istinto di autoconservazione. Chiedeva che gli venissero lanciate droghe sul palco, che spesso otteneva; tentava di soffocare i fan delle prime file col cavo del microfono. Ridefiniva il limite che identifica un concerto rock: non lo è davvero se non serve un cordone di polizia tra la band e il pubblico. Eppure già all’epoca, la ferocia, la malnutrizione e l’eroina non nascondevano un interesse verso la Bibbia e la cristianità, anche se dai tratti ammorbati: “Prayers On Fire” era il titolo dell’esordio, e come spiegava Cave in un’intervista alla Bbc del ‘96, “tutto quello che dovevo fare era salire sul palco e lasciare che la maledizione di Dio ruggisse dentro di me. Inondazioni, incendi e rane mi saltavano fuori dalla gola. Dio non stava parlando solo con me, ma attraverso di me. E il suo alito puzzava”.
I riferimenti letterari sono Poe e tutta la narrativa gotica, LeFanu, i sudisti O’Connor e Faulkner. Ma i versi di Cave non giocano solo col lugubre e il tenebroso, perché dentro c’è la solennità profetica delle Apocalissi di Milton… o delle stesse Sacre Scritture. Specie l’Antico Testamento. La voce di Cave, all’inizio come ora, è sempre stata venata da una religiosità inquieta, agostiniana, luterana, che guarda in faccia l’ineludibile mistero del peccato; che si fa carico della natura corrotta e marcia dell’uomo, legno storto che non può farsi dritto, perché nel fondo del cuore ha piantati i semi del male. The Bad Seeds.
Ma da questo atteggiamento non segue il baratro della dannazione. Le storie di Cave sono percorse da uno straziante bisogno di misericordia. Bisogno che spesso è frustrato, come nel suo atroce primo romanzo, “E l’asina vide l’angelo”, in cui un ragazzino sordomuto schifato e violato da una comunità di fanatici religiosi nell’America rurale sembra attirare le ire e i castighi di un Dio crudele, e ogni cosa o persona che gli dà pace viene calpestata. Bisogno che invece, in certi casi inspiegabili, è raccolto dalla Grazia: così è in "Tender Prey", disco raccapricciante, tra il condannato alla sedia elettrica di “The Mercy Seat”, l’eroinomane schiavo della sostanza in “Sunday’s Slave”, la protagonista violentata e uccisa in “Sugar Sugar Sugar”. Ma sul finale, quasi ad esaudire la preghiera del San Giovanni Battista imprigionato nella title trackMercy, il cielo si apre. New Morning, la gioia languida di un’armonica. Filtra lieve la luce.
Quando Dio è tornato a sussurrare all’orecchio di Nick Cave non c’erano più fetide maledizioni ma la Grazia e la redenzione. La dipendenza da eroina arriva all’apice e Cave finisce in rehab. Lì lavora a “The Boatman’s Call”. Prima per Cave il re dei cieli era Elvis, come cantava in “Tupelo”; ora è l’uomo della barca, il pescatore di uomini. La gemma del disco è “Into My Arms”: “Ho scritto quella canzone sul letto del dormitorio nel centro di riabilitazione” – racconta in “Fede, speranza e carneficina” – La domenica, se volevi, ti lasciavano andare in chiesa. E la melodia mi è venuta in mente mentre passavo per i campi, tornando dalla chiesa”. Nella canzone dice di non credere in an interventionist God. Il Dio di Cave è qualcosa a cui abbandonarsi, un liberatorio e così sia. Nel libro dice: “Non sono in pace, ma la felicità non è la cosa più importante per me. Lo è invece sentire che le cose hanno un senso”.
Sentire che qualcosa tenga insieme i pezzi diventa imperativo quando si frammentano sparsi: nel 2015 Arthur, figlio quindicenne di Cave, muore cadendo da una scogliera dopo un trip di Lsd. Nel 2022, elaborato il lutto, perde prima del tempo anche suo figlio più grande Jethro, morto a 31 anni in circostanze non rese note, dopo storie di tossicodipendenza e schizofrenia. Il dolore autentico cambia tutto. Rabbia e odio perdono ogni fascino ai suoi occhi, anzi appaiono a loro modo vomitevoli; si libera di quei sentimenti, come a disfarsi di uno strato di pelle. “Il giovane Nick Cave” – spiega ancora in “Fede, speranza e carneficina” – poteva permettersi di disprezzare il mondo perché non aveva idea di quello che stava per arrivare. Ora capisco che quel disprezzo e risentimento verso il mondo era una forma di lusso e indulgenza, persino una vanità. Non aveva idea della preziosità della vita, della fragilità. Non aveva idea di quanto difficile, ma essenziale, è amare il mondo e trattarlo con grazia”.
Con un piano quinquennale, la stabilità
Anche la parabola di Giovanni Lindo Ferretti ha riorientato le sue priorità. Certo, per lui di mezzo c’è stata la questione politica. Ma Ferretti l’ha sempre vissuta su un piano esistenziale, che è lo stesso di Nick Cave. Si può anche non vederla così e bollare il suo appoggio a posizioni conservatrici e reazionarie, con tanto di endorsement a Giorgia Meloni, come tradimento culturale, voltafaccia agli ideali più alti. Ma Ferretti è più fedele alla linea di quanto sembri di facciata. L’arte dei CCCP prima, poi dei CSI e dei PGR è accomunata dal rifiuto della modernità e dei baluardi della tecnologia, del progresso e dell’individualismo. Il rigore e l’acciaio sovietici, il mondo al di là della cortina di ferro, sono l’alternativa al Tramonto dell’Occidente. Lì, Ferretti vede con sguardo romantico un’imprecisata “solidarietà”, non tanto come ideale politico, quanto solo come calore umano, sostituibile al gelo dei rapporti feticistici tra merci. Ma c’è di più. L'apparato abnorme della burocrazia è un insieme rassicurante di regole e lacci che tengono salde le esistenze, di contro all’assottigliamento degli ancoraggi comunitari imperante a Berlino Ovest, e ai suoi esiti nichilistici.
Qua e di là dal muro l’Europa persa e in trance
In Alexander-Platz come in piazza del Duomo
Europa persa in trance ultimamente
I miei amici anche, i miei amici anche
Sotto la N.A.T.O. e il patto di Varsavia
Provate a rifugiarvi sotto il Patto di Varsavia
Con un piano quinquennale, la stabilità
(CCCP, “Live In Pankow”)
Di nuovo, quello che conta è la sensazione di avere una direzione, e che le cose abbiano un senso. È la stessa che accende l’infatuazione di Ferretti per il mondo islamico: "Punk Islam" è fervore di fede, comunanza d’intenti, sacralità; tutto quanto si contrappone nettamente a un modo di condurre la vita senza alcuna direzione, se non quella data dall’abbaglio per il luccichio del consumo. Così suoni e temi dell’islam, insieme ai soviet e – come spia delle scelte future – all’iconografia cattolica, si fondono nell’utopia geografica dell’Eurasia, stampata sul retro di copertina di “Socialismo e barbarie”.
Ma arriva il giorno in cui Ferretti capisce che non era necessario arrivare così lontano per scavalcare il muro, specie dopo che il muro è crollato, e un “oltre” il muro non c’è più. Basta tornare nel luogo dove la sua famiglia abitava da generazioni, dove sua nonna sgranava il rosario mentre lo accarezzava da bambino. “Ho dovuto accettare il verdetto di condanna” – scrive in “Óra. Difendi, conserva, prega” – “vanità, tutto è vanità nei miei giorni. C’era verità nei miei giorni di bimbo. La mia mano nella mano di mia nonna. Nelle mie mani adesso solo polvere, e appiccicaticcia”. Poi arriva serpeggiando un tumore alla pleura e il sentore di star dissipando la vita, schiavo di mode stagionali e della baldanzosa marcia di un’ideologia giovanile di liberazione che – paradosso – per liberare estirpava anch’essa ogni reale legame sociale.
Ferretti torna a vivere nella casa di famiglia a Cerreto, dopo averla ristrutturata. C’è ancora un prete in paese, don Guiscardo. Ferretti gli espone tutti i suoi problemi e dubbi. Don Guiscardo risponde che non c’è molto da discutere. Che ogni giorno, non solo la domenica, c’è la messa. E poi le festività durante l'anno. Non c’è più affanno e il tempo torna naturale e liturgico. Scrive in “Óra”: “Sta nell’ordine delle cose. Vivere, morire a suo tempo”.
Idiot Prayer
Questa religiosità cultuale, dismessa dal resto del nostro mondo, la professa anche Cave. Ancora in “Fede, speranza e carneficina”: “Il termine spirituale è un po’ amorfo per i miei gusti. Religioso invece è più specifico, forse perfino più conservatore, condivide qualcosa in più con la tradizione”.
L’atto di culto in cui le vite di Cave e Ferretti si toccano oggi è la preghiera. Ferretti racconta di aver smesso di pregare per una conquista di libertà, per svincolarsi dai condizionamenti familiari, incarnare gli ideali della cultura progressista che stava ridefinendo il mondo. Sentirsi partecipe del cambiamento e rapito dal nuovo, tra manifestazioni politiche a scandire i giorni e concerti a scandire le notti. Non solo smetteva di pregare, ma iniziava a bestemmiare, per dare peso alle convinzioni, e continuava per lunghi anni senza pensarci. Poi si è fermato a pensarci, e si è trovato a dover smettere per la vergogna. “Non so quando ho ricominciato a pregare – dice – L’ho fatto così, perché mi si allargava il cuore”.
Nei Red Hand Files, il sito in cui risponde direttamente alle domande dei fan, Cave parla della preghiera come un atto che ci chiede qualcosa e al tempo stesso ci dà molto indietro. Richiede di avvicinarsi vuoti di pretese e falsità e di contemplare ciò che ci riempie. In cambio, se ci avviciniamo con grazia, riceviamo la manifestazione dei nostri bisogni fondamentali. Nick dice anche che tutto ciò ha lo stesso valore dentro e fuori i limiti della pratica religiosa; che c’è la stessa possibilità di ottenere una risposta alle proprie preghiere sia che Dio esista, sia che non esista. Perché nel credere e pregare non ci si incontra tanto con un agente esterno, quanto con se stessi. La loro è una sorta di scommessa di Pascal, o la Idiot Prayer che dà il titolo al pezzo di Cave.
Scrive Ferretti: “Ho imparato che se entro in una pieve romanica o in una cattedrale gotica poi starò meglio, comunque”.