15/05/2018

Yo La Tengo

Fabrique, Milano


E niente, alla fine ho ceduto. Era scontato che sarebbe andata a finire così, ma per qualche imperscrutabile ragione ho accatastato fino all'ultimo pretesti per recalcitrare: vuoi perché li ho già visti due volte dal vivo, vuoi per risparmiarmi una trasferta infrasettimanale, vuoi perché mi ero riproposto un minimo di disciplina per contenere la mia pantagruelica bulimia concertistica. Tant'è che, a porte ancora chiuse, sono già davanti al Fabrique… Come biasimarmi, d'altronde? I concerti degli Yo La Tengo sono una garanzia con ben pochi rivali all’altezza: la voracità enciclopedica sfogata in temerari accostamenti stilistici, l'abilità impareggiabile nel passare dalla delicatezza di un sussurro alla sgradevolezza di un feedback, la competenza tecnica resa invisibile dalla qualità dello spettacolo e un gusto per la sorpresa che non scade mai nella baracconata fine a se stessa rendono ogni loro esibizione imperdibile, al pari di ogni nuova sortita discografica. Ed è stato proprio il loro atteso ritorno in studio a convincermi una volta di più sulla necessità di esserci: un disco che ruba il titolo all'omonimo capolavoro di Sly And The Family Stone, ma in cui di rivolte non c'è nemmeno l'ombra, come a dire che le lotte sono da qualche parte là fuori e il loro modo di elaborarle consiste nell'esasperare la fragilità che questo mondo violento vorrebbe abolire; un disco composto per metà da canzoni "vere" e per metà da deliqui cosmico-ambientali, evanescenti miniature esotiche e folktronica pastorale; un disco che, per l'ennesima volta, riesce a declinare il loro inconfondibile sapore in un nuova, accattivante ricetta estetica e concettuale, la cui trasposizione live non può non incuriosire.
L'escamotage per mettere a tacere le mie sciocche esitazioni è cervellotico ma funzionale: regalare il biglietto a mio padre per il suo compleanno, e accodarmi con la scusa di accompagnarlo. Perché una musica come quella degli Yo La Tengo, Nuova Canzone Americana con un piede nell'universo alternativo e uno nella classicità rock, non può non mettere d’accordo tutti, indipendentemente dai gusti e dall'anagrafe, e un confronto intergenerazionale si rende necessario per apprezzare al meglio il loro statuto di narratori senza tempo e senza confini.

Sono la prima persona a mettere piede nel locale ancora deserto, e al banchetto dei dischi trovo Georgia che chiacchiera con l'addetto al merchandising. Prima che possa realizzare la cosa, due tipi apparsi dal nulla si fiondano su di lei per una foto e/o un autografo, io rimango titubante ma poi decido di allontanarmi: il trio di Hoboken rappresenta per me qualcosa di troppo importante per mortificarlo con questi meschini rituali da fan mitomane, e in certi casi è meglio mantenere una giusta distanza di sicurezza emotiva.
Ci appollaiamo sotto al palco, dal quale in verità ci separa un ampio fossato protettivo. Sul proscenio fa bella mostra di sé un arsenale da piccola orchestra che si fatica ad associare a una formazione triangolare, sintomo del loro verace polistrumentismo, con una predilezione ai limiti dell'endorsement per la strumentazione Fender. A lato del palco un roadie accorda con solerzia la preziosa collezione di chitarre di Ira, alcune delle quali davvero da far strabuzzare gli occhi. In sottofondo veniamo intrattenuti da un dj set insospettabilmente intelligente nell'alternare indie-rock di varia consistenza ma anche country, soul e psichedelia d'annata, una buona introduzione alla totale inclassificabilità stilistica della band. Scommetto con mio padre che chiuderanno la serata con una cover di Tom Petty, come pressoché tutte la band statunitensi che ho visto dal vivo nell'ultimo anno. Nessun gruppo spalla previsto, forse per risparmiare ai possibili malcapitati un'umiliazione già assicurata.

I nostri eroi entrano in scena con relativa puntualità e attaccano immediatamente, senza nemmeno concedersi un istante per testare la strumentazione. A dispetto dei sessant'anni suonati, Ira è vestito con la sua eterna divisa d'ordinanza: t-shirt a righe, jeans strappati e Converse. E-bow alla mano, genera dei liquidi ronzii indianeggianti e inizia a looparli meticolosamente, mentre James suona poche ipnotiche note di sintetizzatore e Georgia srotola il suo soffice tappeto percussivo tuckeriano: "You Are Here" è un cremoso om per asceti metropolitani, evocante non-luoghi che potrebbero essere modernissimi o antichissimi. A metà brano James si alza e, dopo aver giocherellato con dei campanellini, si arma di rullante e irrobustisce la ritmica con un incedere da marching band, mentre Ira arricchisce il suo cocktail allucinogeno con piccoli colpetti di leva e feedback appena accennati. Nel finale la trance viene interrotta da un cavernoso russare di organo a canne, prima che un lentissimo tremolo distorto ci desti dal torpore come una brezza gelida dopo un'alba in spiaggia.

Introdotta da un'appiccicosa batteria elettronica un po' waitsiana, "Forever" mette a nudo la passionaccia citazionistica dei tre mutuando il coro scat del classico doo-wop "I Only Have Eyes For You", Georgia ricollocata alle tastiere, un basso così morbido che verrebbe voglia di spalmarcisi sopra e tanti traslucidi moduli sintetici a svolazzare qua e là come libellule, il tutto assorbito da una coda che sembra suonata dentro una foresta pluviale. Poi Ira sostituisce la Strato con una Jazzmaster e parte "Demons", cantata dalla moglie con un registro a metà tra Marianne Faithfull e Nico in un clima azzeccatamente anni 60.
Grida di uccelli tropicali e sonar di boe sperdute nell'oceano si trascinano dentro "She May, She Might", un po' alla Notwist, che ripristina le atmosfere straniate dell'inizio pur ricorrendo quasi esclusivamente alle carezze di due chitarre acustiche. "Ashes" ci teletrasporta invece in un Giappone inesistente, con il suo impasto desaturato di celesta, piano elettrico e contrabbasso; alla fine di ogni strofa, Ira si alza e mena una spazzolata al ride per poi tornare alla sua postazione, il massimo della teatralità sviscerabile da un brano così diafano che pare non esistere.
Dopo un loop che riproduce gli scricchiolii del cordame di una nave, la tenera "Don’t Have To Be So Sad" si assesta sullo stesso mood, tra drum machine di carta, inconsistenti note di piano e un sottilissimo pedale di tastiera, riprendendo un po' di colore giusto nella coda in cui Ira, dopo aver lungamente beccato la chitarra come un uccellino dispettoso, si concede un assolo tarantolato. "What Chance Have I Got" mette in scena un raffinato duetto chitarristico tra i coniugi Kaplan (lei con la Jazzmaster, lui con una magnifica acustica Gibson d’epoca), ma viene riavviata quasi subito a causa di una falsa partenza, sdrammatizzata da un caloroso applauso d'incoraggiamento; la magica voce di Georgia pare così minuta che, viene da pensare, non sia stato ancora inventato il microfono capace di amplificarla adeguatamente.

Alla buon ora, due parole dal finora impassibile frontman che, dopo averci salutato e ringraziato per la nutrita presenza, ironizza sulle obiettivamente esagerate barriere difensive tra palco e platea: "Tonight we feel safe from you, you're far enough from us…well, you might have been a little bit closer, but when you're too close we don’t feel alright… but as show business professionists, we are so confident with our songs that you'll never know!", per poi aggiungere "now we’ll play a song from 'Fade'" e attaccare una deliziosa "I'll Be Around" con tanto di solo che tira per la giacca  Sterling Morrison e preziosismi country da far invidia a Chet Atkins.
Il tenue pow wow di "Above The Sound" è un saggio etno-ambient stile "My Life In The Bush Of Ghosts" che include percussioni tribali, basso à-la Jah Wobble, loop in reverse ed echi di sirene antiaeree che diventano un tutt'uno con la maestosa "Here You Are", contemplazione new age tra Klaus Schulze e Sun Ra per corno svizzero, voci mongole e sonagli sfrigolanti durante la quale Georgia appende delle graziose lucine cinesi ai suoi tamburi. "See ya in a few minutes", ci informa Ira, prima di fare un sorso dal bicchiere di whisky che tiene vicino alla pedaliera, chiamare a raccolta i suoi dietro le quinte e, come da tradizione del gruppo, chiudere la prima parte del concerto, a cui segue una lunga pausa.


Durante l'intermezzo aleggia qualche brusio d'insofferenza: al solito, il pubblico italiano fatica a metabolizzare l'idea tipicamente americana di esibizione divisa in set separati, figuriamoci se l'attesa si prolunga oltre la norma. Tuttavia, se è indubbio che una pausa così estesa può compromettere la concentrazione, sarà presto chiaro a tutti per quale motivo i tre ci tengono tanto a edificare dei micro-concerti nel concerto, indipendenti gli uni dagli altri. Sul fronte tecnico, emerge una prevedibile difficoltà nel ricreare le atmosfere rarefatte e impalpabili che dominano l'ultimo disco, con un altrettanto preventivabile disagio da parte dei tre, complice una location che si presta poco a uno spettacolo così raccolto e un suono generale trattato in maniera troppo asettica; la professionalità cui accennava scherzosamente lo stesso Ira, in ogni caso, è più che bastevole per mascherare questi inconvenienti.
A mio padre non piace come Georgia suona la batteria. A me sì.


Al fatidico ritorno sulla ribalta, ci si riallaccia agli umori appena dissolti tramite lo spaesato American Primitivism di "Dream Dream Away", con Georgia a sgranare lunari accordi aperti di acustica tra le ditate acquatiche dell'elettrica del marito e una pozzanghera di voci riverberate, ideale cesura per traghettarci in un girone impostato su tutt'altre vibrazioni. Il prologo alla fase due non potrebbe essere più netto: con fare profetico, Ira si piazza all'organo e stira le note distorte che aprono "Sudden Organ", tra i classici del loro repertorio, selvaggiamente frustato dal ritmo della giungla dei mallet e da un basso imbottito di fuzz squisitamente garage che, nel finale, rimane da solo per alcuni istanti prima di deragliare dentro una "Barnaby, Hardly Working" aperta da un loop di feedback, che prosegue implacabile facendo perno su un'unica nota e si elettrizza in un solo di chitarra che si concede il lusso di citare quello di "Eight Miles High" (la quale, a sua volta, faceva l’occhiolino a "India" di John Coltrane).
Si ritorna al repertorio più fragrante con "For You Too", college-rock sintetico in odor di Radio Dept, e con la wilsoniana "Shades Of Blue" (la mia preferita del nuovo album), con un bell'interplay vocale tra Ira e Georgia, espressione di una complicità che può generarsi solo nell'intimità domestica. Ira rimane al piano per la saltellante "Mr. Tough", con gradevoli accenti caraibici ma anche un pizzico di Joe Jackson, e nel bridge sfoggia un'inaspettata padronanza dello strumento; questa volta è James a prestare la seconda voce strizzandola in un querulo falsetto e, prima dell'ultimo ritornello, i due interrompono il brano per inscenare un siparietto demenziale che svela delle doti comiche non abbastanza sfruttate. Una cosa che a Ira riesce sempre benissimo sono invece i depistaggi: prende la chitarra e la frulla dentro un ring modulator che la riduce in poltiglia, pare debba scatenarsi la più infernale delle tempeste noise e invece parte a sorpresa una "Sugarcube" che più carica non si potrebbe, precipitando il locale in un festoso baccanale anni 90 tenuto desto dal punk sbarazzino di "Nothing To Hide".

Ma sono gli ultimi due numeri in scaletta a catalizzare tutta l’attenzione: l'attesissima "Ohm", con James a impugnare una Danelectro fuxia-glitter piacevolmente pacchiana, viene trasformata in un rintronante raga in cui Ira si presta a ogni genere di efferatezza chitarristica, prima stuprando la Gretsch a colpi di Bigsby, poi scendendo dal palco e regalando la Jazzmaster a uno spettatore a caso, pregandolo di suonarla più a cazzo di cane possibile, mentre lui continua a salmodiare l'ultimo verso della canzone. Durante l'interminabile cavalcata kraut di "Pass The Hatchet, I Think I’m Good Kind", scandita da un martellante basso post-punk, riesce a fare anche di peggio: scorda la Strato da cima a fondo, la scuote davanti all'ampli creando un indomabile vortice magnetico, minaccia più volta di spaccarla ma non lo fa mai (un giochino psicologico alquanto torturante, per un feticista della 6 corde come me), la scaraventa sopra all'organo e "suona" l'uno e l'altra, infine le infligge il colpo di grazia staccando il jack e trapanandoci le tempie con un feedback affilato come un bisturi. Soddisfatto per l'operazione senza anestesia che ci ha inflitto, si dilegua una seconda volta insieme agli altri, lasciandoci con i timpani dissanguati.


Se il primo set, basato essenzialmente sul materiale dell'ultimo lavoro, mirava dichiaratamente a una continuità atmosferica per plasmare una quiete ininterrotta, la seconda puntata ci ha sistematicamente spiazzati con una serie di giustapposizioni ai limiti della follia, tutte sparate ad alti volumi. La missione titanica della band pare essere quella di coniare una sorta di psichedelia totale, in cui vengono messi al bando crescendo e dinamiche interne ai brani, puntando piuttosto su strappi radicali tra una episodio e l'altro. Abbastanza comprensibile, alla luce di tutto ciò, il lungo intermezzo di decompressione: di fatto abbiamo assistito a due concerti diversi, di due band diverse. Anche qui, ho avuto l’impressione che una cornice più contenuta e dei suoni un po' più sporchi avrebbero giovato per godere al meglio dei momenti più torridi, ma tutto sommato non mi ha arrecato troppo disturbo. Perlustrando i miei appunti, riconto le canzoni di ciascuna porzione di spettacolo: 10 + 10, a riprova che le alchimie perfette nascono sempre da un accurato calcolo matematico.

Senza farsi pregare troppo, tornano sul palco per dei bis che, come sempre, tendono a privilegiare le cover, e la prima è a dir poco inaspettata: con Ira alla batteria e Georgia alla chitarra (forse l’ultima combinazione che non avevano ancora sperimentato…) attaccano una delirante "Borstol Breakout" degli Sham 69, cantata all'unisono e a squarciagola. Viene lasciato spazio alle richieste del pubblico, ma di fronte a proposte improbabili quali "Deeper Into Movies" e "Night Falls On Hoboken" ("I guess it’s too late… I love your taste in our music, but your timing is terrible!") o addirittura di riproporre da capo "Pass The Hatchet" ("That would be a really bad idea…"), Ira decide di affidarsi all'intuito femminile di Georgia, e il risultato è "a song by the Kinks", ovvero "There Is Where I Belong" in un'adorabile resa twee-pop. Chiude "a lullaby by the late great Sandy Danny", "By The Time It Gets Dark", tra i baci della buonanotte più dolci che si possano ricevere.
Niente Tom Petty, a quanto pare, ma ce ne faremo una ragione: d'altro canto, bisogna essere abbastanza ingenui per aspettarsi mosse prevedibili da una band che affila tre riletture simili…

Dopo oltre 30 anni di carriera, nessun disco sbagliato e una reputazione sopra e sotto il palco che più immacolata non si potrebbe, gli Yo La Tengo si confermano una delle meraviglie assolute della musica contemporanea. Assistere a simili lezioni di stile, inni smisurati a ogni possibile forma di Bellezza, riconcilia con se stessi e sprona a rendere il mondo un posto migliore. A mio avviso, l'unico possibile paragone per qualità, quantità e varietà potrebbero essere i Wilco, ma simili confronti lasciano sempre il tempo che trovano. Anche mio padre sembra soddisfatto: la mia tesi è probata. Qualcosa mi dice che passerò a salutarli anche al prossimo tour…
Ci rimettiamo in viaggio per Bologna. Prima di addormentarmi passo in rassegna un'ultima volta le sensazioni della serata, guardando fuori dal finestrino un'autostrada sfocata che non può non ricordarmi la copertina di "Painful".